Economia & Lavoro

Documentazione su Reddito di Cittadinanza, Rei, Reis, Reddito minimo garantito e dintorni

rdc-5-stelleQuesto video, realizzato dal gruppo politico del M5Stelle del Parlamento europeo, tratta della diffusione degli Istituti che (impropriamente) vengono ricondotti al Reddito di Cittadinanza. A parte la confusione terminologica, il documento appare molto utile per quanto da conto delle misure politiche di sostegno al reddito dei “cittadini privi di mezzi sufficienti a consentirne una vita dignitosa” nei diversi paesi europei aderenti all’UE, con la deplorevole assenza dell’Italia (almeno fino all’introduzione del Rei con decorrenza 1° dicembre 2017) e della Grecia. Ecco il video.

La “flat tax” del centro destra per la distruzione dello Stato sociale

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La politica fiscale del centro destra contro il Welfare State.
Difendiamo il criterio Costituzionale della progressività impositiva fiscale contro la flat tax voluta dal centro destra.
L’articolo 53 della Costituzione, posto nella Sezione I. Diritti e doveri dei cittadini, Titolo IV. Rapporti politici, recita:
“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”

Bisogna dirlo chiaramente alla gente, soprattutto ai ceti meno abbienti e al ceto medio sempre più impoverito, che se passa la politica fiscale del centro destra (flat tax, tra l’altro anticostituzionale) si assesterà un colpo mortale allo stato sociale (welfare state). Ciò significa tra l’altro: addio assistenza ospedaliera gratuita, annullamento o forte ridimensionamento delle forme di assistenza a anziani e disabili (accompagnamento, reddito di inclusione sociale, indennità di invalidità) perché banalmente mancheranno i soldi, oggi nonostante tutto assicurati dalla fiscalità generale. Significa ancora ulteriori tagli all’istruzione pubblica, agli interventi di sicurezza sui trasporti, e così via di male in peggio. Sulla base dei calcoli degli esperti, a fronte di esigui vantaggi fiscali per i ceti meno abbienti, si determinerebbero ingenti vantaggi per i ceti ricchi e ricchissimi. Ma, come detto, le peggiori ripercussioni si avrebbero nell’ulteriore scasso dello stato sociale, contro i poveri e il ceto medio.
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- Approfondimenti.

La Sardegna si mobilita al fianco dei pastori. Il Movimento Pastori Sardi in piazza a Cagliari mercoledì 2 Agosto. Pubblichiamo il documento del MPS invitando i nostri lettori ad aderire alla manifestazione. Concentramento a Cagliari in Piazza Marco Polo alle ore 9.

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di Vanni Tola
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Pastori, Agricoltori, Cittadini, la situazione che il mondo delle campagne sta vivendo è drammatica, nell’arco di due anni abbiamo perso circa il 50% del valore del latte e il 40% dal valore delle carni e come se non bastasse, da due anni subiamo le conseguenze di una delle più gravi siccità. Come Pastori, con il latte a 50/60 centesimi, non siamo più in grado di continuare a soddisfare il fabbisogno dei nostri animali. Come Agricoltori, con il crollo dei prezzi e delle produzioni, siamo allo stremo e ormai impossibilitati ad affrontare l’inizio di una nuova campagna agraria. COSì NON SI PUO’ ANDARE AVANTI. E’ necessario che l’Amministrazione Regionale intervenga immediatamente per salvare il patrimonio zootecnico, destinando risorse immediate pari ad un quintale di mangime per capo e nel contempo, attivi tutte le procedure per il ristoro dei danni causati dalla calamità naturale, compreso il blocco delle cambiali agrarie, l’azzeramento dei pagamenti INPS e il blocco dei procedimenti di Equitalia. La Regione Sardegna dovrebbe, inoltre, in maniera urgente liquidare tutte le vecchie pratiche di PSR (Piano Sviluppo Rurale) ed anticipare al mese di Settembre-Ottobre il pagamento delle nuove pratiche PAC (Politica Agricola Comunitaria) e PSR come già fatto in passato da altre regioni più virtuose. Ma non ci basta! Chiederemo alla politica Regionale dove sono finite le promesse del 2014 in materia di infrastrutture come l’energia elettrica, la viabilità aziendale, l’acqua potabile e la creazione di centri di raccolta e refrigerazione latte diffusi nel territorio regionale. Chiederemmo una riforma radicale del sistema dell’Amministrazione Agricola. Su questi argomenti il Movimento Pastori Sardi ha convocato una Manifestazione con corteo Cagliari mercoledì 2 Agosto 2017 concentramento Piazza Marco Polo (antistante fiera Campionaria ) alle ore 9:00 conclusione Via Roma davanti al Consiglio Regionale. Siliqua, 19/07/2017.
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CSS loghettoSolidarietà e pieno sostegno al Movimento Pastori Sardi è stata espressa dalla Confederazione Sindacale Sarda (CSS).
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La Sardegna si mobilita al fianco dei pastori. Il Movimento Pastori Sardi in piazza a Cagliari mercoledì 2 Agosto. Pubblichiamo il documento del MPS invitando i nostri lettori ad aderire alla manifestazione. Concentramento a Cagliari in Piazza Marco Polo alle ore 9.

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di Vanni Tola

65251_113969351998233_758825_nMOVIMENTO PASTORI SARDI
Pastori, Agricoltori, Cittadini, la situazione che il mondo delle campagne sta vivendo è drammatica, nell’arco di due anni abbiamo perso circa il 50% del valore del latte e il 40% dal valore delle carni e come se non bastasse, da due anni subiamo le conseguenze di una delle più gravi siccità. Come Pastori, con il latte a 50/60 centesimi, non siamo più in grado di continuare a soddisfare il fabbisogno dei nostri animali. Come Agricoltori, con il crollo dei prezzi e delle produzioni, siamo allo stremo e ormai impossibilitati ad affrontare l’inizio di una nuova campagna agraria. COSì NON SI PUO’ ANDARE AVANTI. E’ necessario che l’Amministrazione Regionale intervenga immediatamente per salvare il patrimonio zootecnico, destinando risorse immediate pari ad un quintale di mangime per capo e nel contempo, attivi tutte le procedure per il ristoro dei danni causati dalla calamità naturale, compreso il blocco delle cambiali agrarie, l’azzeramento dei pagamenti INPS e il blocco dei procedimenti di Equitalia. La Regione Sardegna dovrebbe, inoltre, in maniera urgente liquidare tutte le vecchie pratiche di PSR (Piano Sviluppo Rurale) ed anticipare al mese di Settembre-Ottobre il pagamento delle nuove pratiche PAC (Politica Agricola Comunitaria) e PSR come già fatto in passato da altre regioni più virtuose. Ma non ci basta! Chiederemo alla politica Regionale dove sono finite le promesse del 2014 in materia di infrastrutture come l’energia elettrica, la viabilità aziendale, l’acqua potabile e la creazione di centri di raccolta e refrigerazione latte diffusi nel territorio regionale. Chiederemmo una riforma radicale del sistema dell’Amministrazione Agricola. Su questi argomenti il Movimento Pastori Sardi ha convocato una Manifestazione con corteo Cagliari mercoledì 2 Agosto 2017 concentramento Piazza Marco Polo (antistante fiera Campionaria ) alle ore 9:00 conclusione Via Roma davanti al Consiglio Regionale. Siliqua, 19/07/2017.
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Trasporti: i Vescovi sardi denunciano la disastrosa situazione della Sardegna

img_3225Conferenza
Episcopale
Sarda

Problema trasporti in Sardegna
In vista del G7 sui Trasporti che si terrà a Cagliari il prossimo 21- 22 giugno, la Conferenza Episcopale Sarda intende offrire una propria riflessione su alcuni dei più vistosi e preoccupanti problemi che investono la nostra Isola in questo delicato e determinante settore, perché possano trovare risposte adeguate nell’importante summit.
La Sardegna è il territorio insulare europeo geograficamente più isolato rispetto al continente; ha un mercato interno molto ridotto (un milione e 680mila residenti) e disperso (68 abitanti per chilometro quadrato).
L’insularità determina non solo un incremento dei costi, ma crea anche discontinuità, ritardi e debolezza nelle connessioni e nei processi di diffusione spaziale dello sviluppo.
In questa debolezza strutturale il trasporto svolge un ruolo fondamentale, perché i limiti e le carenze del sistema trasporti fanno aumentare i costi di produzione, quindi il prezzo delle merci e dei servizi venduti.
In Sardegna – è stato calcolato dalla Regione – le merci viaggiano con un extra-tempo di 16 ore 6 minuti in inverno e 5 ore e 39 minuti in estate rispetto a una regione continentale. Per i passeggeri, invece, l’extra-tempo è di 17,34 ore in inverno e 6,67 in estate. Ciò vuol dire, considerando il volume di traffici, un costo aggiuntivo di 286 milioni di euro per le merci e di 374 milioni per le persone, pari a una spesa totale di 600 milioni nel solo trasporto marittimo.
Sempre sui trasporti, emerge il problema della rete ferroviaria interna su cui la Sardegna ha un indice di infrastrutturazione del 17,4 (su 100). Il dato è stato ricavato misurando il tracciato sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo e rapportandolo alla superficie totale dell’Isola e al numero di abitanti. -segue-

SardegnaCheFare? Rapporto Crenos 2017: la consegna è sorridere, ma purtroppo la realtà ci dice che non c’è ragione di farlo

sardegna-dibattito-si-fa-carico-181x300UNA QUESTIONE DI ASSUNZIONE DI RESPONSABILITA’ DIFFUSA
di Marco Zurru, su fb

Ho appena finito di leggere la Sintesi del 24° Rapporto Crenos, presentato ieri mattina [26 maggio] a Cagliari. Appena posso metto mano all’intero Rapporto, anche se il quadro della situazione socio-economica dell’Isola è già abbastanza chiaro e deprimente che si potrebbe magari evitare di aggravare il proprio stato di avvilimento fermandosi qui, alla Sintesi…

Dunque, l’Isola primeggia ancora come una delle 65 Regioni dell’Unione europea più povere. Uno sfascio totale: il nostro PIL è inferiore del 30% della media europea. Ogni sardo, nel 2015, si è messo in tasca poco più di 15mila euro, più o meno quanto riusciva a guadagnare 20 anni fa.

Il tessuto industriale dell’Isola è diventata cosa minuscola se non evanescente rispetto alle rispettive dinamiche nelle altre regioni meridionali (per non parlare del resto d’Italia). La pastorizia pesa ancora molto (un quarto del totale degli imprenditori sardi fa il pastore e la quota del Pil prodotto è del 5% del totale, mentre altrove sono fermi al 2%). Ma pastori e altri imprenditori non riescono ad uscire dal “nanismo” dimensionale: imprese piccole, se non formate dal solo titolare.

Una delle note conseguenze è il bassissimo volume di occupazione presente e la sua qualità: creiamo poco lavoro, poco istruito, malpagato e in settori poco strategici dal punto di vista dell’innovazione tecnologica.

L’unico settore che “va bene” (si fa per dire…) è quello pubblico: “In Sardegna i settori legati alle attività svolte prevalentemente in ambito pubblico e ai servizi non destinabili alla vendita sono responsabili di circa un terzo del valore aggiunto complessivo, mentre le imprese che producono beni e servizi destinati al mercato hanno un peso relativamente esiguo, denotando una scarsa capacità da parte del sistema produttivo isolano di creare valore”.

Tradotto: senza lo Stato, nelle sue diverse articolazioni istituzionali, il volume di occupati e i differenti investimenti, la nostra ricchezza complessiva sarebbe solo il 70% di quella che oggigiorno disponiamo. SETTANTA PER CENTO IN MENO, lo ricordi chi si espone con superficiali e poco ponderati aneliti di indipendentismo…

Invece è presente anche quel 30% statale, i soldi li abbiamo tutti e, infatti, li spendiamo: una delle poche voci col segno + è quella dei consumi delle famiglie. Quasi sicuramente, continuiamo a spendere meno per mangiare e di più per fare i fighi con gli amici mettendo in evidenza il nostro ultramegaipernuovissimo modello di cellulare del cappero…

In compenso i fattori che alimentano la crescita possono continuare a farci una sonora pernacchia, più o meno come stanno facendo da un trentennio: le nostre Università laureano appena il 18,6% dei giovani trenta/trantaquattrenni sardi. Solo Sicilia e Campania fanno peggio di noi rispetto a ciò che, mediamente, è capace di fare la UE (39%).

In compenso/bis la “produzione” di laureati nelle discipline “hard”, quelle tecnico-scientifiche – storicamente capaci di innestare processi di innovazione nelle realtà economiche – è a dir poco ridicola: 17,8%, più o meno la metà di ciò che è mediamente capace di fare l’Europa.

In compenso/ter anche le altre istituzioni dell’offerta di istruzione non se la passano meglio: il 23% dei sardi tra i 18 e i 24 anni ha interrotto il proprio percorso scolastico e formativo avendo conseguito al massimo la licenza media. Solo la Sicilia in tema di abbandono scolastico fa peggio di noi in Italia e “solo” 239 regioni europee (su un totale di 254) fanno meglio di noi…

Però il turismo va meglio e blablabla.. forse è il caso di allungare le stagioni turistiche e blablabla…

Dunque. Senza offender nessuno, è arrivato il momento di sdoganare non solo una parola, ma tutto il volume di significati che la stessa ha acquisito in quasi un secolo di produzione scientifica e non: siamo in una condizione, ormai strutturale, di SOTTOSVILUPPO.

E’ ridicolo girarci attorno, usare dizionari ah hoc, evitare di assumere toni drastici (mantenendo simpatiche, quanto pericolosamente cretine, ricette zuppe di riserve di facile ottimismo sulle nostre sorti): siamo una regione sottosviluppata.

Se siamo ancora a galla e la testa non scivola sotto il pelo della melma, è solo grazie alla produzione di ricchezza che arriva dalla componente statale. Lo Stato, piaccia o non piaccia, ha in mano la cordicella a cui è legato il salvagente a cui è disperatamente aggrappata la Sardegna.

Alle diverse latitudini istituzionali – sia di tipo politico, che amministrativo, imprenditoriale, delle rappresentanze degli interessi, universitario, scolastico – si dovrebbe pigliare seria consapevolezza della condizione di sottosviluppo dell’Isola.

Si dovrebbe iniziare ad annichilire qualsiasi narrazione e retorica sulle fasulle condizioni sociali ed economiche dell’Isola. Si dovrebbe iniziare a smettere di ragionare ed agire “a compartimenti stagni”, come se ciò che accade in un ambito non abbia rilevanti e durature conseguenze negli altri.

Si dovrebbe assumere una responsabilità diffusa, ché non è “colpa” di alcuno in particolare se siamo finiti in questa condizione, ma – anche se in modi e con pesi diversi – di tutti, sia nella sfera della produzione, che in quella politica, amministrativa, educativa e finanche in quella del consumo. La colpa è di tutti, e tutti, nei confini delle possibilità che attengono ai propri ruoli, dovremmo sentirci moralmente impegnati per il bene comune, che è di tutti, mio come tuo.

Sulle modalità e le forme attraverso cui ciò può tradursi in azione non esiste alcuna ricetta: quelle provate per risollevare le sorti della nostra Isola (che siano soldi e investimenti che arrivano da fuori, che siano strutture e modalità produttive che arrivano da fuori, che siano modalità di indurre cooperazione dal basso, etc etc..) a volte non hanno funzionato e a volte hanno funzionato, ma a cappero.

Non esiste una ricetta, ma mille modi di tradurre delle energie in azione: ma una volontà di azione senza spinta etica si riduce a banale, contingente e, spesso, opportunistica e fugace opportunità.

Per ora mi accontenterei del livello della coscienza; una piena consapevolezza del nostro stato di sottosviluppo. Poi, magari, se ci si “sprama” qualcosa nella sfera dell’etica accade, e poi in quello dell’azione… Però basta dirci balle, basta…
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sardegna

SardegnaCheFare?

robot
Una tassa sui robot?
Dalla meccanizzazione alla cibernetica, dai mainframe all’informatica distribuita e alle reti, dal silicio alle reti neurali e ai computer quantici, dall’intelligenza artificiale alla robotica nel tempo di internet degli oggetti.
I intervento
di Fernando Codonesu*

La proposta alquanto bizzarra di mettere una tassa sui robot in quanto causa di espulsione di migliaia di lavoratori dai processi produttivi formulata recentemente da Bill Gates, proprietario di Microsoft e ancora uomo più ricco del mondo anche nel 2016 secondo le rilevazioni di Forbes, ha suscitato un ampio dibattito a diverse latitudini del mondo, non solo tra gli addetti ai lavori.
Eppure, nonostante arrivi da una personalità di così grande rilevanza per il ruolo avuto negli ultimi 40 anni di storia dello sviluppo tecnologico, produttivo e socio economico dell’intero pianeta, alla luce proprio della storia e di una lettura attenta dei diversi fatti accaduti prima nella ricerca e quindi nella scienza applicata e nella tecnologia, non si può che ritenere tale proposta del tutto sballata e fuori luogo: poco più di una boutade!
La controprova è perfino banale: quanti lavoratori sono stati espulsi dall’agricoltura a seguito della sua meccanizzazione? Al riguardo a qualcuno è mai venuto in mente di tassare i trattori che non solo hanno eliminato buoi e cavalli dai lavori agricoli, ma anche milioni di contadini e braccianti dal lavoro della terra?
Lorenzo Pinna, nel suo libro Uomini e macchine pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2014, ci ricorda che solo nell’Inghilterra a metà dell’Ottocento vi erano 3,5 milioni di cavalli da lavoro, ridotti a poco più di un milione agli inizi del Novecento per ridursi nel periodo post prima guerra mondiale ad appena 30.000.
I cavalli, e i buoi ad altre latitudini, sono stati sostituiti dalle macchine semplicemente perché dallo stesso terreno era possibile ottenere maggiori raccolti lavorando di meno e a costi molto più bassi.
Il noto economista Wassily Leontief parlando di quel tempo in uno scritto del 1983 ci ricorda “Siamo all’inizio di un processo che porterà in trenta-quarant’anni molte persone a rimanere senza lavoro, creando gravi problemi di disoccupazione” (1).
Ma torniamo per un momento alle trasformazioni occorse nell’organizzazione del lavoro agricolo negli Stati Uniti nel periodo 1860-1960, quando la popolazione occupata nelle campagne passò da oltre il 50% a meno del 2%. La tabella seguente, tratta dall’opera di Pinna già citata, esemplifica meglio di qualunque descrizione la manodopera necessaria per la produzione di grano negli USA negli anni venti del Novecento in funzione della varie tecniche agricole.
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Tecnica di produzione agricola e Lavoratori necessari
Zappa 6.000.000
Aratro trainato da buoi 1.000.000
Aratro tecnicamente avanzato del 1855 500.000
Aratro a dischi trainato dal trattore, 1920 4.000
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Numeri terribili, come possiamo notare, ma nessuno ha contestato questo trend di sviluppo per ritornare indietro nel tempo!
Certo conosciamo ciò che successe in Inghilterra nel periodo dell’introduzione del telaio Jacquard nel settore tessile, con l’ostilità che ne seguì fino a sfociare in un vero e proprio movimento di opposizione e sabotaggio noto come Luddismo, dal nome del suo principale esponente (2). Ma quelli erano altri tempi e, comunque, niente a che vedere con la statura imprenditoriale e qualità dell’intervento nell’innovazione ricoperta da Gates prima con il sistema operativo MS/DOS che equipaggiava il primo personal computer IBM del 1981 e successivamente con il sistema Windows.
Oggi i sistemi Windows nel mondo rappresentano oltre il 90% del mercato, il sistema MAC OS di Apple rappresenta appena il 7% e il sistema Linux è utilizzato nell’1,5% dei computer e server di rete. Insomma la gigantesca ricchezza personale di Gates, ben 70 miliardi di euro nel 2016 secondo Forbes, deriva da queste quote di mercato: come mai non ha proposto una tassa su ogni computer Windows diffuso nel mondo e si è lanciato contro i robot?
Semplicemente perché non è la sua Microsoft a costruirli!
Per comprendere appieno la rivoluzione in atto provocata dall’informatica, dall’elettronica e dalla robotica nei processi produttivi, vale la pena ricordare per sommi capi alcune pietre miliari della produzione scientifica e tecnologica che ci ha permesso di arrivare al livello sperimentato e conosciuto dell’attuale sviluppo tecnologico per comprendere quali siano state e dove potranno arrivare nel giro di due o tre decenni le influenze indotte nell’organizzazione del lavoro dalla tecnologia ICT (Information and Communication Technology) e indicare qualche possibile proposta al riguardo.
Limitandoci all’immediato dopoguerra si ricorda che con la costruzione del primo transistor alla fine del 1947 presso i laboratori della Bell, da parte del gruppo composto da Shockley, Bardeen e Brattain, che per questo risultato guadagneranno il premio Nobel nel 1956, non solo viene rivoluzionata la telefonia, ma tutta l’elettronica. L’industria nascente dell’informatica riprogetta e ricostruisce i grandi computer del tempo, i cosiddetti mainframe, a partire dall’ENIAC costruito nel 1946, un gigante elettronico che occupava uno stanzone di 150 mq, costituito da 18.000 valvole termoioniche, decine di migliaia di componenti come resistenze, condensatori e induttori, con una dotazione di cavi che arrivavano fino al soffitto. Grazie al transistor vengono sostituite le ingombranti valvole termoioniche, riducendo drasticamente le dimensioni di tutti gli apparati elettronici e migliorando vertiginosamente tutte le prestazioni di calcolo. In effetti l’ENIAC fu messo in crisi anche dal genio di John von Newmann, grande matematico di quel periodo e scienziato noto in tutto il mondo. In effetti egli osservò che il punto debole dell’ENIAC era che risultava privo di uno “schema logico universale”. Infatti esso doveva essere ricablato mediante nuovi e diversi contatti dei cavi di collegamento a seconda delle prestazioni di calcolo richieste, mentre con i suoi suggerimenti si arrivò subito all’individuazione della memoria come luogo dove scrivere le istruzioni di funzionamento. Da qui ci fu la nascita dell’attuale modello dei calcolatori e lo sviluppo dei linguaggi di programmazione, così come li conosciamo ancora oggi, ma su questo si tornerà ancora negli interventi che seguono.

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1. Wassily Leontief e Faye Duchin, The Impacts of Automation on Employment, 1963-2000. New York University, New York, 1983.
2. Dal nome dell’operaio Ned Ludd che nel 1779 avrebbe sabotato un telaio.

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democraziaoggi* Articolo pubblicato anche su Democraziaoggi

PUNTA de BILLETE ARREGORDARI’ per sabato 8 aprile 2017

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Ciao a tutti, per sabato 8 aprile alle ore 17,00 stiamo organizzando come Confederazione Sindacale Sarda, Associazione Riprendiamoci la Sardegna, Assotziu Consumadoris Sardigna – Onlus, nella sala parrocchiale di San Massimiliano Kolbe, a Cagliari in Via Sulcis, quartiere di Is Mirrionis, un Incontro – Dibattito su: territorio, ambiente, salute, lavoro. E’ prevista la presentazione del video documentario “UN DOMANI PER PORTOSCUSO” del Regista Salvatore Sardu, il tutto coordinato dal giornalista Vito Biolchini. Sono invitati a partecipare tutti i rappresentanti delle associazioni e comitati impegnati sul tema del territorio, della salute, dell’ambiente e del lavoro. Sei invitato a partecipare anche TU.
Per gli organizzatori: Giacomo Meloni, Angelo Cremone, Marco Mameli.
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Oggi martedì 28 marzo 2017

sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghdemocraziaoggiGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413
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sucania
IX Corso di Educazione alla Solidarietà Internazionale Essere madri nel mondo globalizzato. Una prospettiva interculturale ed interdisciplinare.
caravaggio riposo fufa partOggi 28 marzo 2017, alle ore 16, nell’aula Capitini, Facoltà di Studi umanistici a Sa Duchessa, si svolgerà il seminario conclusivo del IX Corso di educazione alla solidarietà internazionale, organizzato dall’associazione Sucania in collaborazione con la Fondazione di Sardegna, l’Università di Cagliari e la Fondazione Anna Ruggiu onlus.
Il tema: LA MATERNITÀ NEL CRISTIANESIMO.
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lampada aladin micromicroEditoriali di Aladinews. Democrazia partecipata: che bella parola… tutta da praticare, ma attenzione alla mistificazione della «partecipazione».
Su Aladinews
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cercatori_fiume_con-logo-settimaneIniziative condivisibili per il LAVORO.
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Progetto Cercatori di LavOro.
Cercatori di LavOro: imparare dalle migliori pratiche del lavoro per il bene comune.
- segue -

OGGI lunedì 27 marzo 2017

via santa marghe 27 3 17
sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghdemocraziaoggiGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413
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lampada aladin micromicroEditoriali di Aladinews.
SardegnaCheFare? EuropaCheFare?
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democraziaoggiLavoro e territorio: partire dalle vocazioni locali.
Fernando Codonesu su Democraziaoggi.

Domani. giovedì 23 marzo: presentazione della «Scuola di formazione all’imprenditorialità per giovani»

ucid_header_2012_nazionale(CONFERENZA STAMPA) Presentazione della «Scuola di formazione all’imprenditorialità per giovani», promossa dall’Ucid di Cagliari
Domani, giovedì 23 marzo 2017 alle ore 10.30, presso la Sala Benedetto XVI della curia diocesana (Cagliari – Via mons. G. Cogoni 9) si terrà una conferenza stampa per la presentazione della «Scuola di formazione all’imprenditorialità per giovani» promossa dall’Ucid (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti) di Cagliari.
La proposta formativa, interamente gratuita, intende coinvolgere giovani tra i 20 e i 30 anni interessati a sviluppare motivazioni, consapevolezze e competenze per un orientamento all’imprenditorialità.

Interverranno:

- Mons. Arrigo Miglio, Arcivescovo di Cagliari: Saluti e introduzione

- Dott. Enrico Orrù, Presidente Ucid Cagliari: Presentazione dell’identità e della mission dell’Ucid

- Dott. Nicola Calace Salvemini, Responsabile formativo: Presentazione della Scuola di formazione

- Dott. Raffaele Pontis, Responsabile organizzativo: Indicazioni logistiche per le iscrizioni

Lavoro. La sussidiarietà può produrre lavoro e sviluppo economico?

LAVORO
Le cooperative di produzione e lavoro e il fenomeno del workers buyout
di Giovanni Marco Santini su LabSus 14 marzo 2017

La sussidiarietà può produrre lavoro e sviluppo economico? Si domandava Gregorio Arena in un editoriale di qualche anno fa. La risposta era ovviamente positiva, riferendosi alle opportunità legate all’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale per la riqualificazione del patrimonio pubblico. Ma rispetto alle imprese private, la sussidiarietà può salvare posti di lavoro? Per rispondere a questa domanda abbiamo letto la ricerca “Le nuove cooperative di produzione e lavoro e il fenomeno del workers buyout” portata avanti da Sara Depedri, Stefania Turri e Marcelo Vieta, nell’ambito di un progetto Euricse.

Il fenomeno del Workers Buyout
Un Workers Buyout (WBO) è un’acquisizione o un salvataggio di un’impresa da parte dei dipendenti che vi hanno lavorato. Un fenomeno sviluppatosi principalmente in Argentina, e più in generale nell’America Latina, ma che ha avuto fortuna anche in Francia, Spagna e Italia. La prima parte della ricerca si è concentrata sul caso italiano e sulle sue peculiarità: la lunga storia di cooperativismo, riconducibile già ai primi anni del ‘900, e la legge Marcora, emanata nel 1985 che stabilisce contributi alle cooperative costituite da lavoratori in cassa integrazione, agevolazioni finanziarie e un fondo che eroga prestiti a tasso agevolato per riconvertire le strutture industriali. Un meccanismo negoziato che richiede un approccio collaborativo tra tutti gli attori in gioco: i lavoratori, lo stato, le istituzioni cooperative. Le cooperative di lavoratori sono considerate, a ragione, uno strumento anticiclico per rispondere alla disoccupazione e alle contrazioni del mercato del lavoro. I dati mostrano una correlazione diretta tra congiunture economiche sfavorevoli e la nascita di WBO, testimoniato anche dal rinnovato utilizzo successivo alla crisi finanziaria del 2007.

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La fotografia del fenomeno italiano
Lo studio ha analizzato le 243 cooperative che hanno sfruttato il meccanismo previsto dalla legge e ha cercato di capire il reale valore di queste esperienze e le caratteristiche del “modello italiano”. Dall’analisi emerge come il 75,5% dei WBO sia distribuito tra Centro e Nord Est, dato coerente con la natura di queste aziende, che per il 65,4% operano nel settore manifatturiero. Il fenomeno dei WBO riguarda principalmente le piccole imprese (tra i 10 e i 50 lavoratori) e le medie imprese (tra i 50 e i 250 dipendenti) che sono, rispettivamente, il 68,4%, e il 21,9% del totale; mentre sembra essere stato adottato i maniera più marginale nelle micro imprese (meno di 10 lavoratori) che sono l’8,8% del totale, e nelle aziende con più di 250 dipendenti, che infatti rappresentano solo lo 0,9%. Delle 243 cooperative analizzate 121 sono ancora attive (pari al 49,8). L’analisi dei dati dei WBO esistenti in Italia dagli anni ’80 pone in luce un buon tasso di sopravvivenza di queste realtà, con una vita media di poco inferiore ai 13 anni. Tale dato è inferiore alla vita media di tutte le cooperative italiane, pari a 17 anni, ma è quasi pari alla vita media delle imprese italiane (13,5 anni). Inoltre il 35,3% delle cooperative di lavoro recuperate ha avuto una vita attiva superiore ai 16 anni. La resistenza dei WBO in Italia è ulteriormente confermata se si considera che quasi l’85% dei WBO nati dal 2004 ad oggi sono ancora attivi. Le cooperative di lavoratori sembrano essere piuttosto resilienti e le motivazioni sembrano essere intrinseche al modello: il metodo democratico nel decision making, la preferenza data alla flessibilità piuttosto che al licenziamento, la maggiore disponibilità all’aggiustamento dei salari nei momenti di recessione e l’integrazione con le comunità locali. Una serie di elementi che ne favoriscono la robustezza.

Le caratteristiche principali
La ricerca individua quindi cinque caratteristiche relative all’emersione delle cooperative di lavoratori italiane. Innanzitutto la marcata correlazione tra recessioni macro economiche e aumento di autogestioni evidenzia il valore anticiclico di queste esperienze. La seconda caratteristica è rappresentata dalla propensione delle piccole e medie imprese a convertirsi in cooperative quando sono situate in una rete con altre imprese. Il terzo aspetto riguarda il processo produttivo, ossia le cooperative tendono a nascere in settori ad alta intensità di manodopera qualificata piuttosto che in quelli a forte intensità di capitale e manodopera non qualificata. La quarta caratteristica è relativa alla disposizione geografica dei WBO, questi infatti le sorgono laddove ci sono lavoratori specializzati e insediati geograficamente. Cinque, le cooperative tendono a nascere in realtà in cui esistono forti legami interni: le piccole e medie imprese hanno la giusta dimensione per favorire la solidarietà e meccanismi di partecipazione.

In conclusione possiamo dire che i WBO “tendono a promuovere politiche gestionali solidali volte prioritariamente alla tutela dell’occupazione, (…) facendo prevalere gli obiettivi sociali su quelli di profitto”, e così sembrano essere generati da quelle relazioni di condivisione che sono “l’essenza della sussidiarietà”. Ascrivendosi a pieno titolo tra le pratiche collaborative improntate alla sussidiarietà, i WBO si qualificano come “ammortizzatori sociali” e producono esternalità positive per i territori e le comunità in cui sorgono.
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RICERCHE
Sharing Economy
Maria Cristina Marchetti – 21 agosto 2016, su LabSus

Chissà quanti nel programmare le loro vacanze sceglieranno di alloggiare presso uno dei tanti appartamenti messi a disposizione da Airbnb o si rivolgeranno a Uber o a BlaBlacar per i loro spostamenti. Ebbene questi sono solo alcuni degli esempi di sharing economy sui quali la Commissione europea ha deciso di intervenire con una comunicazione dal titolo: “Un’agenda europea per l’economia collaborativa”.
Secondo la Commissione, “l’espressione ‘economia collaborativa’ si riferisce ai modelli imprenditoriali in cui le attività sono facilitate da piattaforme di collaborazione che creano un mercato aperto per l’uso temporaneo di beni o servizi spesso forniti da privati. L’economia collaborativa coinvolge tre categorie di soggetti: i) i prestatori di servizi che condividono beni, risorse, tempo e/o competenze e possono essere sia privati che offrono servizi su base occasionale (“pari”) sia prestatori di servizi nell’ambito della loro capacità professionale (“prestatori di servizi professionali”); ii) gli utenti di tali servizi; e iii) gli intermediari che mettono in comunicazione — attraverso una piattaforma online — i prestatori e utenti e che agevolano le transazioni tra di essi (“piattaforme di collaborazione”). Le transazioni dell’economia collaborativa generalmente non comportano un trasferimento di proprietà e possono essere effettuate a scopo di lucro o senza scopo di lucro”.

Con ricavi totali lordi che si attestano intorno a 28 miliardi di euro nel 2015 nella sola Unione europea e con una crescita stimata fino a 572 miliardi di euro, la sharing economy resta un fenomeno controverso che ha reso necessario l’intervento della Commissione.

Una delle questioni più dibattute è l’accesso al mercato, che rinvia ad un nuovo modello imprenditoriale nei confronti del quale la normativa vigente rischia di apparire inadeguata. “Una specificità dell’economia collaborativa – afferma la Commissione è che i prestatori di servizi sono spesso privati che offrono beni o servizi su base occasionale e “tra pari” (peer-to-peer)”. Una questione fondamentale diventa quella di distinguere tra i prestatori di servizi professionali e i prestatori tra pari, con riferimento alla necessità o meno di richiedere licenze o autorizzazioni.

Diverso ancora è il discorso per le piattaforme che si pongono come intermediari tra i prestatori di servizi e gli utenti finali. “Se — e in quale misura — le piattaforme di collaborazione possono essere soggette ai requisiti di accesso al mercato dipende dalla natura delle loro attività”. Possono infatti limitarsi a fare da intermediari oppure fornire a loro volta servizi sia agli utenti che agli intermediari.

La tutela degli utenti, la differenza tra lavoratore autonomo e subordinato, la fiscalità sono solo altre delle questioni sollevate dalla sharing economy nei confronti delle quali la Commissione sembra tenere un atteggiamento di apertura. “In considerazione dei notevoli vantaggi che possono derivare dai nuovi modelli imprenditoriali dell’economia collaborativa, l’Europa dovrebbe essere pronta ad accogliere queste nuove opportunità. L’UE dovrebbe sostenere in modo proattivo l’innovazione, la competitività e le opportunità di crescita offerte dalla modernizzazione dell’economia. Al tempo stesso è importante garantire condizioni di lavoro eque e una protezione sociale e del consumatore adeguata e sostenibile”.

Non mancano i dubbi sul fatto che la sharing economy non si avvii a diventare un altro modello di business in cui le piattaforme non si limiteranno a fornire l’infrastruttura digitale, ma agiranno come veri e propri imprenditori.

Ciò che resta interessante è che dietro questo fenomeno si intravede un mutamento culturale di lungo periodo, più volte segnalato dalla letteratura a partire dalla fine degli anni novanta (basti pensare all’era dell’accesso di Rifkin), che ridefinisce i modelli imprenditoriali conosciuti, ma anche le modalità di fruizione dei beni. È una rivoluzione culturale dalle implicazioni interessanti e degne di essere monitorate con attenzione negli anni a venire.

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I care, il segreto del successo. Intervista a Jennifer Nedelsky

albero orto cap 7 mar17I care, il segreto del successo
a cura di Luigino Bruni, 4 ottobre 2014 su L’Avvenire

La filosofa della politica Jennifer Nedelsky, canadese, docente all’Università di Toronto, è una delle voci più innovative nel dibattito sui temi della cura, dei diritti e delle relazioni sociali, ed è convinta che nella nostra epoca ci sia una grande priorità che, invece e purtroppo, resta molto sullo sfondo della vita delle democrazie: il profondo ripensamento del rapporto tra lavoro e cura, e quindi tra uomini e donne, giovani e anziani, ricchi e poveri. Un tema essenziale in un mondo con sempre più vecchi e con vecchi che, grazie a Dio, vivono sempre di più.
Senza una svolta collettiva e seria nella cultura della cura in rapporto alla cultura del lavoro, è la democrazia e l’uguaglianza tra le persone che vengono sostanzialmente negate. La conosco da qualche anno (per questo nel colloquio che segue ho tradotto l’inglese “you” con “tu”) e l’ho incontrata in Italia all’Istituto Internazionale Sophia di Loppiano (Firenze). Le ho fatto alcune domande su temi che credo dovrebbero essere posti, oggi, al centro dell’agenda politica e civile del nostro Paese.

Perché, secondo te, c’è qualcosa di sbagliato nell’acquistare servizi di cura sul mercato, nell’usare la moneta perché persone più ricche possano “comprare” assistenza da persone più povere? In fondo il positivo del mercato è proprio l’incontro tra persone diverse con “beni” diversi che possono scambiare per un mutuo vantaggio.
«Io non sono contraria in assoluto al “mercato della cura”. Il mio sistema permetterebbe di comprare una certa quota di cura, perché nella mia visione le persone, per esempio le donne, avrebbero più tempo libero per i loro figli e anche per lavorare. La mia proposta è che ogni persona debba donare tempo per la cura di se stessi e degli altri. Ciò che differenzia il mio approccio da altri (penso a chi propone un salario per le casalinghe) è che vorrei che tutti i cittadini adulti (uomini e donne, di ogni ceto e classe sociale) si dedicassero ad attività di cura gratuite (cioè non retribuite), vorrei che si occupassero della cura di se stessi invece di “comprare” sul mercato qualcuno che lo faccia per loro, e vorrei che si occupassero anche della cura della propria famiglia, dei propri genitori, e anche delle proprie comunità di appartenenza. Almeno per 12 ore alla settimana».
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Il lavoro: cos’è e come sarà ai tempi dei robot. Che fare oggi e domani?

robot
Società 4.0. fine del lavoro umano?

di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto/ 27 febbraio 2017/ Economia & Lavoro/

L’innovazione e il progresso tecnologico sono inarrestabili. In quello che chiamiamo convenzionalmente Occidente lo sono da almeno mille anni. Se qualcuno troverà profitto e convenienza in una nuova tecnologia, se essa corrisponde ad un qualche bisogno, anche non espresso, finirà con l’imporsi. I telefoni portatili sono un caso studio. Prima dell’avvento del cellulare solo in pochissimi avevano l’esigenza di essere sempre raggiungibili, è bastata l’innovazione delle carte prepagate per fare in modo che sia presente nelle tasche di ognuno di noi.

Un bisogno e qualcuno che in esso intravveda una occasione di profitto, fanno in modo che l’innovazione si imponga. È già così per l’automazione e la robotica. Siamo dentro una rivoluzione non solo scientifica, ma che già condiziona la nostra esistenza ed in futuro lo farà sempre di più. Il report dell’ONU Robot and Industrialization in Developing Countries, sostiene che il 66% dei lavori svolti nei paesi di nuova industrializzazione già oggi può essere sostituito da robot. Il che comporterà la fine delle delocalizzazioni ed il rientro di molte produzioni in Occidente. Tranne Cina ed India, dove si stanno facendo passi consistenti nel settore.

Secondo la società di consulenza McKinsey, solo il 5% dei lavori attuali non è robotizzabile. Se questo non è ancora avvenuto è perché, allo stato attuale, la robotizzazione comporta una perdita di qualità del lavoro svolto, le macchine non sono ancora in grado di comprendere e processare il linguaggio naturale umano. Più sale la complessità e l’alto valore aggiunto delle attività, minore è il rischio di automazione. Ora siamo ancora dentro la teoria dei colli di bottiglia: certe attività non sono robotizzabili perché il costo della elaborazione degli algoritmi è superiore al beneficio ottenuto, però negli ultimi trent’anni quel costo è diminuito costantemente, di conseguenza tra non molto il collo di bottiglia verrà eliminato.

Per cui un docente universitario robot, un cantante lirico, un sociologo o un scrittore cyborg sono dentro un futuro possibile. McKinsey nello studio citato afferma che negli Usa, già oggi solo il 4% dei lavori ha bisogno di creatività. Siamo dentro la distopia di Norbert Wiener che nel New York Times già nel 1949 aveva profetizzato con il dominio delle macchine una rivoluzione industriale di assoluta crudeltà.

Il sociologo Bruno Manghi che da oltre trent’anni studia l’impatto dell’automazione negli ambienti di lavoro, intervistato da Rai News 24 affermava che l’ottimismo della liberazione dal lavoro per merito delle macchine, tipico dei decenni scorsi, si sta trasformando nel pessimismo della scomparsa del lavoro e confessava la sua impotenza nell’immaginare soluzioni.

Il refrain che ha accompagnato il progresso tecnologico è stato: i lavori persi verranno riguadagnati in lavori di maggior qualità. Di conseguenza basta investire in istruzione, spostare l’asticella insomma, e i lavori non scompariranno. È pur vero che ci sarà bisogno di figure professionali nuove, che sappiano progettare e dialogare con macchine sempre più sofisticate, però quante saranno nel mondo? Visto che già oggi giganti come Google progettano intelligenze artificiali resilienti, che imparano dai propri errori, che si adattano all’ambiente e che tra non poco sapranno progettare intelligenze simili? In un articolo del The Guardian del novembre del ’15 si stimava che nel mercato della robotica in dieci anni è ipotizzabile una crescita dai circa 27 miliardi di dollari attuali ai 67 previsti.

Già oggi ne vediamo i frutti, quella che viene definita l’uberizzazione del lavoro umano fa passi consistenti: frammentazione delle attività date in appalto, smantellamento dei salari con l’imperversare dei micro pagamenti. Foodora che a Torino paga i suoi fattorini tre euro l’ora è sui giornali in questi giorni, ma i voucher di Renzi vanno in quella direzione.

Fino ad ora, gran parte dei consumatori hanno colto solo l’aspetto positivo della riduzione del prezzo e della comodità, ma tra non poco saremo in fase del Grande Disaccopiamento, secondo Brynjolfsson all’Harvard Business Review: non basta mettere più macchine nell’economia per garantire che la tecnologia arrechi benefici all’intero corpo sociale. Il successo dell’automazione non è automatico, non per tutti.

Il che pone problemi seri sulla tenuta delle società contemporanee in termini di PIL, sanità pubblica, previdenza sociale. Nessun settore verrà escluso da questa rivoluzione, neanche quello pubblico che fino ad ora ha risentito poco dell’automazione. Sono scomparse solo le dattilografe o poche altre figure professionali. Non a caso imprenditori di primo piano come Elon Musk di Tesla, Bill Gates ed altri propongono di tassare i robot.

Il Parlamento Europeo con 396 voti a favore, 123 contrari e 85 astensioni vota nelle settimane scorse una risoluzione con cui si propone di dare ai robot personalità giuridica. Lo fa per ragioni etiche. Se un’auto a guida autonoma causa un incidente, di chi è la responsabilità? Del padrone del veicolo? Del costruttore? Di chi ha fatto la manutenzione? È anche però il primo passo verso quello che alcuni definiscono reddito di cittadinanza, altri reddito universale. In Finlandia lo si sta già sperimentando con piccoli numeri.

Matteo Renzi torna dalla California e prospetta un lavoro di cittadinanza. Come spesso gli accade fa la figura dello studente che si presenta all’esame sulla base del sentito dire. Forse il segretario dimissionario del PD non ha chiari i termini del problema e fa confusione. Tutte queste proposte sono la via? Come Bruno Manghi confesso di non saperlo. Di sicuro il lato economico, benché decisivo, non è il solo ad essere importante.

È il concetto stesso di lavoro come autorealizzazione dell’individuo ad essere in crisi. Dalla Riforma Protestante in poi, questo, sia dipendente che autonomo, ha rappresentato l’identificazione dell’individuo rispetto alla rendita vissuta come attività parassitaria. Oggi assistiamo al contrario, la rendita, specie quella finanziaria, viene esaltata ed il lavoro mortificato da tasse e balzelli, da remunerazioni da fame. Un orizzonte che rischia di stravolgere le esistenze di tutti, di provocare rivolte che avranno bandiere luddiste se va bene.

Pensare poi che la nostra Sardegna, in quanto periferica e con attività che si crede non robotizzabili sia indenne, più che ingenuità è incoscienza. Un futuro di pastori cibernetici è dietro l’angolo.
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eddyburg
SOCIETÀ E POLITICA
Investimenti, progetti collettivi, tasse per i ricchi. L’anima del New Deal
di Laura Pennacchi, su eddyburg.

Un prezioso articolo che, cogliendo l’occasione delle ultime castronerie di Matteo Renzi, ricorda che cosa fu il New Deal e perché potrebbe essere oggi una via d’uscita dalle crisi che affligono il mondo di oggi: dal lavoro all’economia, dall’ambiente all’esodo. il manifesto, 1° marzo 2017
«L’anima del New Deal. Investimenti, progetti collettivi, tasse per i ricchi. Perché va ricordato Keynes a chi, come Renzi, vuole contrabbandare i famosi Job Corps, ripresi da Di Vittorio ed Ernesto Rossi, con il Jobs Act gonfio di bonus e sottrazione di diritti. Atkinson, per esempio, suggerisce di tornare a prendere molto sul serio l’obiettivo della «piena e buona occupazione» e un programma nazionale per il risparmio garantito

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Resisterò alla tentazione di parlare di frode per la spregiudicatezza con cui Renzi tenta oggi da un lato di qualificare come “lavoro di cittadinanza” le sue proposte di rilancio dell’occupazione (sostanzialmente una riedizione del Jobs Act, una riduzione della dignità del lavoro, la contrazione dei suoi diritti, una colossale decontribuzione a danno delle finanze pubbliche e a vantaggio dei profitti e delle imprese), dall’altro di inscrivere le sue idee complessive di politica economica nell’orizzonte di un rinnovato New Deal.

In tutta Europa è in corso una discussione molto seria e molto ardua su cosa preferire tra “reddito” e “lavoro” di cittadinanza” e personalmente ho argomentato perché opto per quest’ultimo[1].

La studiosa svedese Francine Mestrum, lamentando la mancata chiarezza da parte dei proponenti sui requisiti del reddito di cittadinanza, ha dichiarato che «sedurre le persone con slogan del tipo “denaro gratuitamente per tutti”, quando quello che si intende è in realtà un reddito minimo per chi è in stato di necessità, è vicino alla frode». Non userò una simile definizione per le ultime uscite di Renzi, ma alcune precisazioni sono, tuttavia, il minimo che l’habermasiana “etica del discorso” ci impone.

DiVittorio G _100L’anima del New Deal di Roosevelt – e così dovrebbe essere anche oggi – fu un grande piano di investimenti pubblici, straordinari progetti collettivi (quali l’elettrificazione di aree rurali, il risanamento di quartieri degradati, la creazione dei grandi parchi, la conservazione e la tutela delle risorse naturali) piegati al fine di creare lavoro in vastissima quantità e per tutte le qualifiche (perfino per gli artisti e gli attori di teatro) attraverso i Job Corps – le “Brigate del lavoro” ipotizzate anche da Ernesto Rossi e dalla Cgil di Di Vittorio –, identificando per questa via nuove opportunità di investimento e di dinamismo per il sistema economico.

Riprodurre oggi un’ispirazione e una progettualità di tal fatta è del tutto inconciliabile con il mantra al quale si è attenuto e si attiene Renzi, l’erogazione di bonus monetari e la riduzione delle tasse (specialmente a vantaggio delle imprese e dei ricchi, come è avvenuto con la cancellazione dell’Imu e della Tasi): perché mai se no, Roosevelt avrebbe portato le aliquote marginali sui più ricchi a livelli elevatissimi, mantenute tali anche per molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale?

Inoltre investimenti pubblici e creazione di lavoro richiedono di usare le istituzioni collettive come leve fondamentali.

Si tratta, infatti, di fare cose che fuoriescono dall’ordinario:
- Identificare fini e valori per dare vita a un nuovo modello di sviluppo (l’opposto dell’assumere gli esiti del mercato come un dogma naturale immodificabile e, conseguentemente, del limitarsi a compensare i perdenti e chi «resta fuori dal processo di innovazione», come dice Renzi).
- Dirigere l’innovazione orientandola verso bisogni e fini sociali (ricerca di base, rigenerazione delle città, riqualificazione dei territori, ambiente, salute, scuola, ecc.), l’opposto della “neutralità” e dell’ostilità per l’intervento pubblico (in nome del terrore del “dirigismo”) rivendicate dai consiglieri di Renzi.
- Lungi dal considerarlo un ferro vecchio, enfatizzare l’obiettivo della “piena e buona occupazione” rovesciando la logica: invece che affrontare ex post «i costi della perdita di impiego» (secondo il suggerimento di Renzi), fare ex-ante degli investimenti pubblici e della creazione di lavoro il motore di una crescita riqualificata.
- Considerare lo Stato come grande soggetto progettuale e come Employer of last resort, invece che il “perimetro” da assottigliare e depotenziare ipostatizzato dalle politiche di privatizzazione e di esternalizzazione care ai tardoblairiani odierni.

Qui va riscoperto Keynes e non per contrabbandare come keynesiano lo strappare “margini di flessibilità” all’”austerità” europea, senza rimettere drasticamente in discussione la logica del Fiscal Compact, per di più utilizzandoli per finanziare (in deficit) bonus e incentivi fiscali e non investimenti pubblici produttivi.

Richiamandosi a Keynes e a Minsky, nell’ultimo, bellissimo libro (Inequality) scritto prima di morire, il grande economista Tony Atkinson invoca «proposte più radicali» (more radical proposals) e denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni).

Il primo tabù che egli infrange è che la globalizzazione impedisca di mantenere strutture fiscali progressive e imponga che le aliquote marginali siano sempre inferiori al 50%. Propone, per l’appunto, che il ripristino della progressività – violata dalle politiche neoliberiste a tutto vantaggio dei ricchi – preveda per i benestanti aliquote massime del 55 e perfino del 65%.

Ed escogita tutta una serie di proposte “radicali”, tra cui di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito».

Il suggerimento di Atkinson è di fare perno sulla «piena e buona occupazione» non in termini irenici, ma nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – la sua rivoluzionarietà – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society.

E proprio collegata al rilancio della piena e buona occupazione è la proposta che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione.

All’idea di rilanciare la piena e buona occupazione Atkinson collega altre proposte radicali: quella – memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale – che le imprese adottino, oltre che un codice etico, un codice retributivo con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quella di un programma nazionale di risparmio che offra ad ogni risparmiatore un rendimento garantito (anche tenendo conto che, tra le cause dell’incredibile aumento delle disuguaglianze, c’è la sproporzionata quota di rendimenti finanziari che va ai redditieri superricchi).

[1] Vedi su eddyburg in particolare il recente articolo di Laura Pennacchi Perché al reddito di cittadinanza preferisco il lavoro, in “Il lavoro dentro e fuori dal capitalismo”
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Per correlazione: http://comedonchisciotte.org/allarme-onu-i-robot-sostituiranno-il-66-del-lavoro-umano/
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L’illustrazione è tratta dalla copertina della rivista Rocca, n. 10 del mese di maggio 2017
newRocca-10-15mag16

CI HANNO RUBATO IL LAVORO!

TRIBALLU CHERIMUS!
1—Su triballu, lu cherimus,
su triballu a l’irventare(1),
su triballu ja l’ischimus,
nos servidi pro campare.

2—Su triballu lu partimus,
pro totu traballare.
Su triballu est libertade,
pro s’omìne est dignidade.

3—Nessunu est su mere de su triballu,
su triballu rispetta sa natura.
Chentza triballu sa vida, ite tristura!
In sa comunidade b’ada irballu.

4—In sa globalidade, a su triballu,
su mercadu li faghede pagura.

5—Si s’omine che mertze lu endhimus,
moridi sa tziviltade jà l’ischimus.

Gavinu Dettori dic. 2010
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CI HANNO RUBATO IL LAVORO!
Il più antico furto perpetrato nei secoli e ancora impunito. - segue -