EUROPA

L’Europa che vogliamo

img_9429L’Europa che vogliamo
«Appunti di cultura e politica» – «Città dell’uomo»

Attorno alle questioni dell’Europa si è fatta spesso molta retorica. In tempi recenti si è magnificata la capacità del continente di favorire su larga scala processi di pacificazione (si pensi al premio Nobel per la pace conferito all’Unione europea nel 2012), sottovalutando forse la sua storia di tragiche guerre fratricide. Ci sono stati anche tra i credenti – quando si discusse qualche anno fa di un Trattato costituzionale europeo – discorsi infiammati e addirittura rivendicazioni puntute sulle «radici cristiane dell’Europa», trascurando la circostanza che da un certo richiamo strumentale e distorto a tali radici sono nati, e ancora nascono, frutti non sempre coerenti (si consideri il diffuso atteggiamento di chiusura verso gli stranieri immigrati). Spesso si è magnificata la tendenza all’unità come un qualcosa di ormai ovvio e scontato, che pezzo per pezzo, con una ingegneria quasi tecnocratica, avrebbe prima o poi realizzato una forma di unione solida e visibile fra i diversi Stati. Negli ultimi anni ci siamo invece resi conto che il pluralismo di culture e tradizioni, unitamente alla diversità degli interessi nazionali, non si è affatto ridotto; anzi, le tendenze centrifughe sono cresciute e oggi sembrano forse più forti di quelle unitarie.
L’Europa moderna, del resto, è questa strana creatura, nata da un coacervo di pluralità irriducibili, competitive e divergenti, dopo la dissoluzione della «mistica» e mitica «santa romana repubblica» (la res publica christianorum) del Medioevo. Ciononostante, essa – quasi altra faccia della medesima medaglia – si è sempre sentita come unificata da una cultura unitaria e da un senso comunitario fatto di civiltà, costumi ed eredità condivise. Dunque, una civiltà plurale, un cammino sempre sul filo tra convergenza e tensioni conflittuali.
Questo ci sembra un punto dirimente. L’Europa non è un dato di fatto, una realtà definita una volta per tutte, ma può esistere solo come progetto. Non si deve mai da- re per scontato questo elemento, non si de- ve dare per ovvia l’identità europea (in tutti i sensi e particolarmente in quello politico), pena il rischio di un suo inevitabile depotenziamento sino all’insignificanza nei fatti. Chi ci crede ha il compito di continuamente rimotivarla e rilanciarla all’altezza delle sfide dell’epoca.
L’idea per cui il percorso «comunitario» iniziato quasi settant’anni fa tra sei paesi (e oggi arrivato a coinvolgerne 28) sia ormai irreversibile e non possa che avanzare, spesso coltivata più o meno surrettiziamente dagli stessi europeisti convinti, è illusoria. Del resto, l’integrazione dell’Europa ha funzionato quando è riuscita a elaborare una risposta a qualche problema politico reale e comune. Risposte magari non del tutto lineari, perché frutto di delicati e faticosi compromessi, ma, in ogni caso, di non trascurabile efficacia. Si pensi, agli inizi del cammino d’integrazione europea, al problema della ricostruzione della Germania dopo gli spaventosi conflitti mondiali e la sua divisione territoriale, nel clima drammatico della «guerra fredda».
Non possiamo sottovalutare il fatto che oggi, di fronte ai popoli e agli Stati europei, ci sia un problema storico analogo, di straordinaria ampiezza e complessità. Per anni ci siamo cullati nell’ideologica illusione che la stagione della globalizzazione avesse consegnato la storia alla preminenza dei mercati, senza più ruoli, se non residuali, da riconoscere agli Stati. Dopo la crisi del 2008 e la «grande stagnazione» successiva, conosciamo invece un mondo in cui soggetti «giganti» come Stati Uniti e Cina hanno rilanciato una forma tradizionale di «statualità forte» per governare la globalizzazione (bene o male che lo stiano facendo). Occorre ribadire che nel mondo dei «giganti» non c’è futuro per i piccoli-medi Stati europei, soprattutto se si isolano in stizzose diatribe reciproche. Questo vale non solo per quelli più deboli e periferici, ma anche per la nuova potenza economica tedesca: qualsiasi paese d’Europa, da solo, non va da nessuna parte. Per cui la necessità dovrebbe muovere l’ingegno. Un’Europa in qualche modo unita è l’unica possibilità affinché la voce dei suoi cittadini possa contare sulla scena internazionale, dove si affrontano le sfide cruciali e si assumono decisioni fondamentali per i destini dei popoli e dell’intero pianeta. Oggi, invece, assistiamo a varie tensioni scaturite da una società europea che ha sof- ferto la crisi e vive nell’incertezza la globa- lizzazione, con pulsioni legate all’idea di po- tere riportare a galla i localismi e i piccoli o medi nazionalismi: una sorta di «si salvi chi può», assolutamente privo di consisten- za. Al di là di ogni elaborata formula polito- logica, che si parli di populismi o di sovra- nismi, in sostanza, siamo tornati a questo punto: la sfida all’Europa viene dai molteplici nazionalismi interni, incattiviti. Essi hanno potuto soffiare sul fuoco delle difficoltà e dei risentimenti sociali, proprio per i limiti dell’Europa reale (e forse anche degli europeisti reali). Che troppo hanno confidato nella spontaneità dei processi, nella bontà astratta degli organismi istituzionali, in una sorta di mancanza di alternative del cammino intrapreso, senza fare i conti sino in fondo con i limiti e le contraddizioni della storia. Si è quindi sottovalutata la persistenza del dato originario dei singoli Stati, nella loro diversità di storia, cultura, sviluppo. Si è proceduto a una costruzione europea squisitamente tecnocratica, fidando nella forza omologatrice del mercato, trascurando la necessità di una elaborazione culturale in grado di persuadere e armonizzare le nazionalità. Di fronte alla crisi si è scelta una linea di algida austerità, che ha lasciato ovviamente scontenti i «perdenti» della globalizzazione. Insomma, l’Europa concreta, l’Unione europea degli ultimi decenni – è bene dirlo forte e chiaro – ha seguìto linee quanto meno controverse (di recente lo ha ammesso, a denti stretti, lo stesso presidente della Commissione, Juncker).
Le elezioni del Parlamento europeo di fine maggio sono un’occasione propizia per fare emergere un duplice messaggio: c’è assoluto bisogno di rilanciare l’Unione, ma essa, al contempo, deve cambiare profondamente. Nel momento in cui variamo questo editoriale, non abbiamo ancora precise indicazioni sul quadro specifico delle forze in campo, almeno in Italia, per la competizione elettorale. Si registra, per ora, un’evidente tentazione di utilizzare l’appuntamento europeo come semplice specchio e cassa di risonanza delle tendenze della politica italiana, mentre occorrerebbe che le forze più rilevanti – per noi, soprattutto quelle progressiste e socialmente avanzate – producessero un grande sforzo di convinzione e mobilitazione collettiva attorno a una linea il più possibile chiara e coerente. Non europeisti contro sovranisti. Questa prospettiva rischia di essere tatticamente controproducente e strategicamente fuorviante, perché l’europeismo «sano» non annulla l’originalità degli Stati, né le differenze sul modello di Europa che si vuole perseguire. Occorre dare rappresentanza agli europeisti profondamente riformatori, che vogliono un’Unione europea nuova: distinti dagli stanchi sostenitori dell’esistente, quanto contrapposti ai profeti della distruzione del «sogno europeo».
Non è difficile delineare qualche contorno essenziale dell’auspicabile nuova Europa. Deve essere forte, cioè capace di elaborare un discorso e una progettualità politici sulla convenienza per tutti di fare convergere interessi anche apparentemente diversi e sfrangiati, data l’altezza delle sfide in campo. Naturalmente, dovrebbe essere forte sullo stesso piano istituzionale, avviando processi di riforma che le diano più chiara capacità decisionale, più ampia legittimazione democratica e popolare, più estesa sovranità sul bilancio e sulle scelte di politica economica. In quest’ottica risulta decisivo il rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo, per riaffermare il valore della democrazia rappresentativa, in un momento in cui nel continente spira il vento della democrazia diretta, che in realtà nasconde meccanismi di accentramento delle decisioni in poche persone. Non sappiamo se lo storico modello dello Stato federale da più parti ipotizzato sia ancora adeguato ai cambiamenti epocali intervenuti, ma, di sicuro, abbiamo bisogno di qualcosa di simile: cioè, una forma di statualità europea nuova, che faccia convergere le differenti volontà e le spiccate pluralità in un quadro di governo comune dei grandi processi euro-mondiali, rispettando al contempo e proteggendo i margini di autonomia di ogni popolo e paese. L’Europa ha nelle proprie corde una metodologia feconda di rapporto tra gli Stati, basata su attitudine inclusiva e cooperativa, nel segno di una negoziazione continua, invece che su forme di egemonia e imposizioni, oppure gerarchie imperiali. Deve aggiornarla e rilanciarla.
Va aggiunto che la suddetta forma di statualità forte (ancorché sui generis) occorre che si colleghi a un obiettivo socio-culturale non neutro. Pertanto, vale la pena di costruire l’Europa unita per rilanciare uno specifico modello sociale, basato su: impegno per integrare i «perdenti» e lotta contro le sempre più insostenibili diseguaglianze; rapporti di mediazione articolata tra i gruppi e i mondi sociali, invece che individualismo anglosassone o «collettivismo» asiatico; composizione lungimirante fra le esigenze della crescita economica e quelle della coesione sociale; capacità di governo dell’economia, senza dirigismi né subalternità ai mercati: pensiamo che cosa significherebbe rispondere alla crisi economica con un grande e convergente sforzo europeo, centrato su progetti innovativi di economia sostenibile e solidale (oggi si parla, simbolicamente, di un «green new deal»). Proprio sul tema ambientale, tornato in questi mesi fortemente alla ribalta, l’Europa potrebbe assumere un ruolo-guida, orientato, fra l’altro, a un sempre meglio definito nuovo modello di sviluppo, sensibile alle istanze del «bene comune».
Ancora più a fondo, nell’Europa che vogliamo c’è una concezione della persona umana al di sopra di ogni pur legittima risposta al bisogno di sicurezza e della stessa coesione. Ciò implica, fra l’altro, puntare su processi d’integrazione delle diversità socio-culturali e religiose, ma in un’ottica di costruttivo dialogo reciproco, con al centro il primato della coscienza personale, il riconoscimento della dignità di ogni uomo e donna, il rifiuto di qualsiasi forma di violenza nelle relazioni interpersonali e di gruppo, il ripudio d’ogni genere di xenofobia e razzismi, nonché delle pulsioni «giustizialistiche», con i tentativi di ritorno alla pena di morte. Un’Europa forte deve servire una società in cui valga la pena vivere. Sono tutti elementi da rilanciare e attualizzare nelle battaglie quotidiane: la campagna elettorale potrebbe e dovrebbe diventare un enorme cantiere di discussione attorno a queste prospettive.
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18 marzo 2019
L’Europa che vogliamo
EDITORIALE- «Appunti di cultura e politica» – «Città dell’uomo»
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Non c’è ambientalismo senza giustizia sociale: ecco il vero green new deal per l’Europa
Linkiesta.it, 10 maggio 2019
A due settimane dalle elezioni europee, Legambiente presenta un compendio di proposte in cui l’economia decarbonizzata e circolare è la base da cui partire per trasformare i cambiamenti climatici in occasioni di sviluppo e innovazione
Un documento che si ispira al New Deal degli anni Trenta, quello che servì a risollevare gli Stati Uniti dalla Grande Depressione. A due settimane dalle elezioni europee, Legambiente ha presentato il suo Green New Deal per l’Europa1, un compendio di proposte in cui l’economia decarbonizzata e circolare è la base da cui partire non solo per trasformare i cambiamenti climatici in occasioni di sviluppo e innovazione, ma anche per affrontare le sfide delle disuguaglianze crescenti, del lavoro e dell’immigrazione. «La questione ambientale è il tema per dare un senso al progetto europeo», spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. «Solo l’ambiente riesce a tenere insieme lavoro, innovazione, economia, migrazioni. Non si può, ad esempio, dare una risposta alla questione migranti senza pensare alla questione ambientale: gli impatti climatici sui territori generano migrazioni e disuguaglianze».
“Giustizia ambientale e giustizia sociale hanno un comune destino”, quindi, come scrive Fabrizio Barca nel suo intervento contenuto nel testo. E la stessa transizione ecologica, con lo stravolgimento dei modelli produttivi e del lavoro, deve tenerne conto per essere “giusta”. Barca parla di “progresso socio-ecologico”, ovvero l’idea che la transizione urgente verso la giustizia ambientale tenga sempre conto dei suoi effetti sociali, per evitare che siano i lavoratori più vulnerabili a pagare i costi della transizione. «La decarbonizzazione è una grande opportunità per investire», spiega Maurizio Albrizio, che dirige l’ufficio europeo di Legambiente, «ma avrà un grande impatto sociale e abbiamo l’obbligo di non lasciare indietro nessuno. Il Green New Deal è un grande e nuovo contratto sociale con i cittadini».
Ecco l’intervento di Fabrizio Barca [1]:
green_new_deal_europa_piattoIl destino comune di giustizia ambientale e giustizia sociale
In questa fase difficile e aperta a esiti così diversi della vita nostra e delle nostre società, ingiustizia sociale e minaccia ambientale dominano i pensieri e il quotidiano agire di tutti noi. La sofferenza per l’oggi e l’ansia per il domani colpiscono in particolare quelli di noi che non hanno i mezzi finanziari e il contesto sociale e relazionale per costruirsi una difesa, o magari per cogliere i benefici del cambiamento tecnologico, della globalizzazione e delle misure per contrastare il cambiamento climatico I fatti sono noti. A livello internazionale, la disuguaglianza di reddito si è ridotta per la prima volta da tempo ed è emerso (specie in Asia) un nuovo ceto medio; ma la dimensione e la gravità della povertà (di reddito, di salute, di istruzione, di potere sulle decisioni) sono insopportabili e suscitano movimenti globali. In Occidente, e da noi in Italia, le disuguaglianze hanno da trent’anni smesso di scendere, sono spesso risalite – specie per la ricchezza – e sono gravi in tutte le dimensioni di vita: economica, di lavoro (con una gravissima polarizzazione dei redditi e del grado di certezza e autonomia), di accesso (e qualità) ai servizi fondamentali e alla ricchezza comune, di riconoscimento dei nostri valori e delle nostre aspirazioni (specie per i cittadini delle aree interne, delle periferie, delle terre di mezzo). Assente un riferimento politico e culturale che apra uno scenario di emancipazione, la rabbia e il risentimento che discendono da queste ingiustizie si sono tradotte in una “dinamica autoritaria”.
E poiché i ceti deboli percepiscono spesso che le politiche ambientali sono in primo luogo pensate dai ceti forti e per i ceti forti e sono finanziate a loro principale carico (si pensi alle imposte sugli idrocarburi che gravano in primo luogo sui cittadini delle aree rurali e remote), di questa dinamica perversa fa parte anche un’avversione alle politiche di sostenibilità ambientale, e un’implicita alleanza con le forze produttive legate a un modo di produrre insostenibile. Se si condivide questa diagnosi, diventa evidente che giustizia ambientale e giustizia sociale hanno un comune destino: non solo perché l’una influenza l’altra, ma perché il consenso popolare alla giustizia ambientale richiede un disegno strategico che promuova la giustizia sociale. Gli interessi delle future generazioni, quelle che non hanno voce in capitolo, e gli interessi della parte con meno mezzi e potere delle generazioni in vita sono inestricabilmente legati. Ben lo rappresenta l’espressione “libertà sostanziale sostenibile” coniata dal Nobel Amartya Sen. È una delle tesi costitutive del lavoro del Forum Disuguaglianze e Diversità, espressa nel Rapporto appena prodotto. Proposte per la giustizia sociale e in particolare nella sua proposta n. 10. È ciò che molte parti più mature dei movimenti che perseguono l’uno e l’altro obiettivo sanno da tempo e che è colto nel termine di “transizione equa” verso una società ecologicamente sostenibile. Ma che fatica ancora a diventare senso comune. Ecco allora l’importanza del rapporto Uguaglianza sostenibile redatto da una commissione indipendente su iniziativa dell’Alleanza progressista di socialisti e democratici al parlamento europeo, 30 ricercatori di università e istituzioni di tutta Europa. L’intreccio fra giustizia sociale e ambientale pervade tutte le oltre 100 proposte avanzate dal rapporto, e trova una sintesi istituzionale nella proposta finale di trasformare radicalmente il processo di formazione coordinata dei bilanci dei paesi dell’Unione, noto come “semestre europeo”. Di seguito, tratteggiamo l’impianto concettuale del rapporto e il contenuto delle cinque connesse tematiche con cui le proposte sono riassunte.
Si tratta di usare questa piattaforma come un terreno per discutere, per tornare a mettere al centro i contenuti con cui si intende trasformare la rabbia e il risentimento di questa fase in una spinta per l’emancipazione, per la giustizia sociale, e per la giustizia ambientale.
Nell’impianto concettuale e interpretativo del rapporto, indispensabile per ogni proposta di cambiamento che non sia estemporanea o tattica, oltre al punto centrale da cui abbiamo preso le mosse, ci sono quattro punti di forza. Primo, la consapevolezza della natura sistemica e radicale delle politiche da realizzare. Secondo, la convinzione che redistribuire sia necessario, e che si debba tornare a farlo soprattutto in ambito fiscale, ma che ciò non sia sufficiente: occorre intervenire nei meccanismi di formazione della ricchezza, prima di tutto nel cambiamento tecnologico e nel potere negoziale del lavoro e dei cittadini – sono i meccanismi su cui il Forum Disuguaglianze e Diversità ha messo i riflettori, assieme al passaggio generazionale. Terzo, l’opportunità di costruire la svolta guardando avanti, e in particolare mettendo a uso due profonde novità della fase che viviamo: il ruolo delle organizzazioni di cittadinanza attiva nella messa in opera di diritti, cura dei beni comuni e sostegno ai soggetti deboli; le comunità di innovatori che utilizzano la rete per produrre patrimoni di conoscenza aperta. Quarto, e non certo ultima, la realizzazione che se l’inversione radicale delle politiche è necessaria per ogni stato nazionale, da essa dipende l’esistenza stessa dell’Unione europea.
E veniamo alle 100 (anzi 110) politiche. Il primo gruppo di esse mira a dare potere alle persone. Comprende, in primo luogo, un blocco di misure volte a ridare potere negoziale al lavoro: promuovendo la partecipazione strategica dei lavoratori, riconoscendo al lavoro pseudo-autonomo (gig economy, partite Iva, lavoro sommerso che affianca l’automazione o l’intelligenza artificiale) diritti oggi negati, promuovendo il rafforzamento dei sindacati. A queste si accompagna un blocco di misure volte ad accrescere gli spazi di azione e il ruolo delle organizzazioni di cittadinanza attiva: diffondendo i metodi del Codice europeo di condotta del partenariato e definendo standard minimi di partecipazione.
Il secondo gruppo di proposte mira a dare una forma diversa al capitalismo.
C’è in questo obiettivo il rigetto di quell’assunto “non c’è alternativa” che ha dominato a lungo il pensiero di larga parte degli eredi del pensiero socialdemocratico. Le proposte avanzate spaziano dalla promozione di forme di impresa (esistenti) che non soggiacciono all’imperativo unico della massimizzazione del “valore patrimoniale”, incorporando obiettivi sociali e ambientali, a un vasto insieme di misure che blocchino l’elusione delle imposte sulle imprese, a cominciare dalla definizione in Europa di una base impositiva unica che includa l’economia digitale.
Il terzo gruppo affronta direttamente l’obiettivo della giustizia sociale. Comprende fra gli altri: una strategia contro la povertà e sulla casa che si dà carico di reperire i mezzi finanziari; la progressiva fissazione di standard minimi europei per salute e reddito minimo, da sottoporre a monitoraggio; misure per innalzare verso l’alto i salari minimi; interventi volti a rafforzare il potere – parola, anche questa, felicemente tornata al centro dell’analisi – delle donne. E poi, l’utilizzo della politica di coesione come strumento operativo per togliere alle politiche pubbliche la cecità alle persone nei territori, che tanto ha contribuito ad accrescere i divari fra aree interne e urbane, fra periferie e centri urbani. Manca – è uno dei due limiti seri del rapporto – la proposta di un’iniziativa europea sull’istruzione. E poi c’è l’obiettivo del progresso socio-ecologico, con cui si riassume l’idea che la transizione urgente verso la giustizia ambientale tenga sempre conto dei suoi effetti sociali, per evitare, come si scrive, che siano i vulnerabili a pagare i costi della transizione.
Le misure indicate riguardano, fra gli altri, il disegno della Politica agricola post-2020, dove le trasformazioni necessarie (specie per ridurre le emissioni di gas a effetto serra) devono tutelare il prezioso bene comune della popolazione impegnata in agricoltura; la necessità che le scelte di investimento per contrastare il cambiamento climatico – almeno il 25% del prossimo bilancio europeo post-2020 – siano davvero improntate a una logica di giustizia sociale, e a tale scopo la creazione di una vice-presidenza apposita della Commissione e di forme rafforzate di partecipazione a tali scelte del mondo del lavoro e dei cittadini. Infine, nella quinta parte, innescare il cambiamento, il rapporto si chiede come l’inversione di rotta configurata possa essere avviata. Il punto di forza di quest’ultima sezione sta nella proposta di cambiare radicalmente il meccanismo del cosiddetto “semestre europeo”, con cui le politiche di bilancio dei singoli paesi membri trovano un momento di coerenza e di rispondenza a indirizzi generali europei, finora dominati dall’obiettivo di evitare squilibri di bilancio. A tale obiettivo si affiancherebbe ora, con lo stesso rango, il mix di obiettivi ambientali e sociali fin qui richiamato. Ciò avverrebbe in una logica di mediolungo termine, dentro un “Patto di sviluppo sostenibile multi-annuale”, presidiato dalle direzioni competenti, riportate finalmente su un piano di parità rispetto alla Direzione affari economici e finanziari.
Nell’attuazione di questi indirizzi, la politica di coesione aiuterebbe a sospingere le politiche settoriali a tenere conto delle esigenze dei singoli territori. È un disegno che convince. Ma alla sua ambizione non corrisponde altrettanta ambizione nello scandire gli altri inneschi necessari, pure richiamati: quali la tutela degli investimenti pubblici nazionali dai tagli di bilancio e la previsione di strumenti anticiclici a livello europeo. Queste e altre misure richiederebbero scelte politiche che purtroppo non sono ancora mature fra i partiti del gruppo S&D che ha promosso l’analisi. Il che ci porta a rilevare, in conclusione, limite e forza del rapporto. Il limite di essere prodotto dentro una “famiglia politica” che procede, paese per paese, in modo non coeso. La forza, dovuta ai due brillanti co-presidenti della Commissione – Louka Katseli e Poul Nyrup Rasmussen, due politici di vaglia che hanno guardato oltre i piccoli orizzonti nazionali – di mettere sul tavolo una piattaforma radicale e di svolta, spingendosi fino ai limiti del possibile. Per questa ragione, non aiuta fermarsi alle singole proposte, rilevarne il gran numero, enfatizzare le mancanze o persino notare il “bruxellese” del linguaggio. Ciò che conta, il contributo del rapporto, sta nell’insieme di un disegno che rompe decisamente con i gravi errori dell’ultimo trentennio, commessi sotto l’egemonia neo- liberista. Si tratta di usare questa piattaforma come un terreno per discutere, per tornare a mettere al centro i contenuti con cui si intende trasformare la rabbia e il risentimento di questa fase in una spinta per l’emancipazione, per la giustizia sociale e per la giustizia ambientale.

[1] http://www.edizioniambiente.it/libri/1246/un-green-new-deal-per-l-europa/

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VOTO EUROPEO: Fabrizio Barca, “Non c’è ambientalismo senza giustizia sociale, ecco il vero green new deal per l’Europa” (linkiesta.it). Roberto D’Alimonte, “Europa e sovranisti, la vera partita si gioca dopo il voto” (Sole 24 ore). Piero Bevilacqua, “Il nucleo fondativo dell’Europa nella storia del Mediterraneo” (Manifesto).

Oggi 9 maggio Festa dell’Europa

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Noi con te. In Europa La Sinistra antirazzista, femminista, ecologista.

57226432_2369128979777685_1638825981030432768_nMartedì 23 aprile alle ore 11.00 nell’Hostel Marina, alle scalette di San Sepolcro a Cagliari si svolgerà la conferenza stampa di presentazione con i candidati e le candidate della Sardegna alle europee per il collegio Isole della Lista “La Sinistra”.
La lista, promossa da Rifondazione Comunista e Sinistra Italiana, L’Altra Europa e altre forze politiche e movimenti sociali, si oppone al neoliberismo e al nazionalismo, con l’obiettivo di costruire un nuovo spazio politico, un’alternativa da progettare insieme ai cittadini/e, alla pari, e che promuova un forte progetto femminista, ecologista, antirazzista.
Durante la conferenza stampa interverranno i candidati e le candidate della Sardegna: l’insegnante e attivista femminista Maria Cristina Ibba, e l’ex operaio Alcoa e ingegnere ambientale Omar Tocco insieme al giornalista Corradino Mineo, capolista della lista nel collegio Isole. Interverranno inoltre Pierluigi Mulliri, segretario regionale di Rifondazione Comunista in Sardegna, Salvatore Multinu responsabile regionale di Sinistra Italiana e Roberto Loddo per il manifesto sardo e l’Altra Europa.

21 marzo Europa Europa

21 marzo: San Benedetto da Norcia
patrono d’Europa.
(Hans Memling).
La Regola di san Benedetto, completa, dice: Ora, lege et labora. Per questo, meritatamente, fu eletto patrono.
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Dalla pag, fb di Licia Lisei.
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[L'immagine è reperibile in rete: San Benedetto da Norcia patrono d'Europa. (Hans Memling)]

Oggi giovedì 21 marzo 2019

E’ Primavera! Europa, Europa!
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————–Avvenimenti&Dibattiti&Commenti&Appuntamenti—————

Mare Jonio sbarca i migranti a Lampedusa. La magistratura (finalmente) batte un colpo?
21 Marzo 2019
Red su Democraziaoggi.
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Europa

Europa_Bandiera_EuropeaMANIFESTO PER LA COSTITUZIONE DI UNA LISTA UNICA DELLE FORZE POLITICHE E CIVICHE EUROPEISTE ALLE ELEZIONI EUROPEE
L’Italia e l’Europa sono più forti di chi le vuole deboli!

Dibattito. Guai ad abbandonare l’Europa! Cambiamola in meglio!

poveraEuropa
La polemica rivelatrice sul Documento economico-finanziario del governo giallo-verde
di Guido Formigoni
19 ottobre 2018 by Forcesi, segnalato da C3dem.
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La vicenda del Def è istruttiva, sia sui comportamenti dell’attuale governo, sia sul modo di fare opposizione. Da una parte, sembra proprio che l’asse Salvini-Di Maio abbia fatto slittare il pedale nel proprio ormai tipico modo di far politica, tutto basato sull’annuncio e sulla costruzione mediatica di consenso. Mi spiego: non c’era nessuna necessità reale di mettere per iscritto il punto del 2,4% di deficit in un documento come il Def, che doveva solo indicare una stima. Per poi infatti ricorrere a un pietoso tira e molla (il 2,4% per tre anni, anzi no, per un anno e poi vedremo; 10 miliardi per le pensioni, anzi no di meno…). In sostanza, hanno scelto di amplificare l’effetto annuncio per porre una sfida di parole, che incassasse a breve un sostegno del proprio elettorato ansioso, ribollente e preoccupato per i vincoli europei. Occorreva insomma fissare un punto propagandistico, costruire la scena del balcone. Poi, si sarebbe visto… i fatti sono più complicati da gestire delle parole.
Intanto – forse hanno anche pensato – si poteva verificare la reazione europea e quella dei mercati. E qui è cascato mezzo asino, perché l’Europa è stata prudente e tutto sommato consapevole del contenuto modesto della sfida, senza offrire sponde a un innalzamento del conflitto verbale (qualcuno dice che non sarebbe spiaciuto soprattutto a Salvini inasprire lo scontro). I mercati, molto meno: lo spread salito a 300 significa una perdita secca di svariati miliardi in conto interessi sul debito (le stime variano per il solo 2019 a 4-6 miliardi, se si resta per un anno a questi livelli, cosa non garantita). Il che segna già da ora un autogol clamoroso del governo, quando di trippa per i gatti ancora non si è visto nemmeno il profumo. E poco serve dire che c’è il complotto degli speculatori, perché è ora che ci si accorga anche nel sospettoso popolo grillino che il meccanismo finanziario in cui siamo immersi e condizionati è talmente vasto e capillare, costituito di tanti molecolari interessi, che è assolutamente impossibile condizionarlo ad opera di un numero ristretto di operatori.
Altro si sarebbe potuto fare se la maggioranza fosse più seria e cioè non fautrice di una politica basata sugli annunci, ma capace di immaginare una correzione di rotta graduale e sensata della finanza pubblica. Tutti i governi passati hanno infatti sforato le cifre e cifrette indicate nel Def: ma senza dirlo prima con le grancasse (nel 2017 a cose fatte il deficit è stato del 2,3%). In quel modo un po’ surrettizio, la correzione attuale rispetto alle previsioni sarebbe stata molto più gestibile. Il problema è che questa classe di governo, nel suo palese dilettantismo, non sembra all’altezza della necessaria accorta gestione dei delicati equilibri della finanza pubblica.
Dicevo però che questo episodio rivela anche molto dell’opposizione attuale. E più in generale di come vengono criticate le scelte del nuovo governo da parte di una opinione pubblica mainstream come quella rappresentata da parte della grande stampa. Si è infatti aperto ampiamente da parte politica e mediatica il fronte della polemica sul rigore di bilancio, che ripete cose molto note sul fatto che non si può creare nuovo debito, dato che l’Italia è già al 130% del Pil, e che non si può fare assistenzialismo sulle pensioni e sul reddito di cittadinanza in deficit. Sì, ma… Il precedente ciclo di governi a trazione Pd non è che sul rientro del debito abbia costruito molto, anzi: la percentuale è sempre la stessa da sei anni. Semplicemente, si sono avvalsi in modo molto opportuno della difesa dell’euro compiuta da Draghi con la creazione enorme di liquidità monetaria, che ha sconfitto la speculazione sul debito pubblico dell’Italia e dei paesi più fragili che si era innescata nel 2011: cioè ha appunto abbattuto lo spread a livelli irrisori, facendo risparmiare al paese una cosa come 65 miliardi di euro in cinque-sei anni in interessi da pagare sullo stock di debito pregresso (lo 0,8 del Pil all’anno, mica noccioline). Al riparo del cospicuo scudo della Bce, tali governi hanno comunque ridotto di pochissimo il deficit, continuando a tagliare su alcuni capitoli come la pubblica amministrazione, riducendo di pochissimo la pressione fiscale e facendo la scommessa su modalità diverse di incentivo economico, rispetto a quelle oggi in discussione: dagli 80 euro erogati ai bassi redditi, fino ai molti miliardi messi nella riduzione contributiva del Jobs act. Con risultati discussi (e discutibili, non apriamo qui il capitolo): comunque non certo eclatanti, ci si concederà, in termini di occupazione e sviluppo. Siamo un paese in cui il Pil è ancora sotto del 5-6% rispetto al 2008.
Quindi, qual è il punto vero, a mio sommesso parere (non è farina del mio sacco, naturalmente, ma si basa su un dibattito non banale che su questi temi è avviato da tempo in Europa)? Il punto non è il mantra liberista del pareggio di bilancio o la discussione sulle percentuali del deficit, con il relativo braccio di ferro con l’Europa per sfangare un decimale in più. Nessuno è immune da critiche su queste dimensioni, e soprattutto non c’è nessun terreno sicuro in proposito. Paradossalmente, nemmeno un governo che avviasse veramente la riduzione della montagna di debito che attualmente abbiamo – cosa possibile solo a costi sociali drammatici, diciamocelo – sarebbe a rigore veramente al riparo dalla speculazione finanziaria: perché mai, infatti, il 110 o il 120% dovrebbe andare bene, invece del 130%? Se per qualche motivo gli investitori avessero sentore di una certa debolezza si appiglierebbero anche al 110 o al 120%. Il rischio speculazione rimarrebbe, soprattutto a causa del mero fatto che lo scudo della Bce si sta riducendo e ogni paese resterà progressivamente più esposto ai marosi.
Cosa significa questo discorso? Ovviamente non che siamo liberi di fare quello che vogliamo. È palese che ci siano compatibilità economiche sostanziali, cui nessuno sfugge a lungo andare. Chi parla di sospendere il pagamento del debito o di uscire dall’euro ciancia di cose insostenibili, o comunque a costi altissimi per la collettività. Ma è anche vero che le coerenze economiche non sono per definizione rigide, né assolute. Possono essere gestite nel tempo in modo diverso, a seconda della capacità strategica e della forza politica che ci sta dietro. La globalizzazione non ha spazzato via il ruolo degli Stati, come a volte si dice: ha però di certo molto ridimensionato il peso degli Stati piccoli e medi. Il punto quindi è che la sovranità vera sulla propria politica economica, oltre alla serietà necessaria su un discorso di strategia e di rapporto mezzi/obiettivi (che non guasta mai), richiede nel mondo attuale una dimensione tale da poter gestire (non del tutto eliminare) la sfida dei “mercati”, cioè dell’ansiosa ricerca di rendite da parte di masse di capitali finanziari enormi e potentissimi. L’Italia, diciamocelo chiaro, questa dimensione non ce l’ha.
Naturalmente oggi sono in pochissimi ad averla: gli Stati Uniti che si permettono di aumentare un debito accolto con indifferenza da tutti i mercati. La Cina, con il proprio sistema che (per ora efficacemente) combina dirigismo e liberismo. Il Giappone, che ha un debito al 250% del Pil e lo gestisce senza affanno alcuno (e non vale obiettare cose peraltro vere, cioè che per un terzo tale debito è in mano alla banca centrale o che molta parte è risparmio interno, perché questi elementi non mutano l’enormità della massa finanziaria coinvolta). L’unica altra alternativa sarebbe l’Europa. Già: qui si rivela il vero punto critico del sovranismo nostrano. Picconare l’Europa è segno di miopia assoluta, perché impedisce di costruire livelli di compartecipazione e corresponsabilità finanziaria che soli potrebbero essere in grado di sfidare gli altri soggetti globali e la forza generalizzata dei mercati. Certo, l’Europa attuale è del tutto inadempiente sul punto, data l’annosa polemica interna sull’austerity e l’interpretazione restrittiva della solidarietà causata dal peso del modello tedesco, che si crogiola nel proprio enorme surplus commerciale (ottenuto in buona parte anche grazie all’esistenza dell’euro) e lo gestisce pigramente senza utilizzarlo in chiave espansiva. Politicamente parlando, però, l’unico futuro immaginabile di una sovranità politica democratica che sfidi i vincoli dell’attuale sistema e allarghi le sue maglie si collocherebbe nella capacità di costruire un consenso in Europa su questo punto. Se c’è una battaglia vera da fare non è ottenere un decimale di deficit in più dai guardiani della commissione, ma cambiare pian piano questa logica perdente. Smuovendo la miope posizione tedesca, compito certo non semplice. Ma prima o poi anche a Berlino ci si renderà conto che da soli non vanno da nessuna parte nemmeno loro e che costruire un’Europa più solida politicamente e finanziariamente serve anche a loro.
Un soggetto europeo che cominci a mettere in comune non solo la moneta, ma anche la politica economica e finanziaria, con l’europeizzazione prudente e responsabile di una parte dei debiti nazionali, è cruciale per potere infatti porsi obiettivi di politica economica veramente incisivi. Solo l’Europa avrebbe infatti la forza di raccogliere risorse tali da avviare un nuovo ciclo di investimenti espansivi orientati dalla mano pubblica, che potrebbe essere all’altezza delle difficoltà attuali, contrastando gli effetti della grande stagnazione e bilanciando i limiti del sistema della globalizzazione. Solo un tipo di svolta epocale come questa sarebbe decisiva per potersi porre obiettivi non risibili e tutti solo apparenti, come quelli che si possono affannosamente gestire nel cortile di casa. Naturalmente poi occorrerebbe discutere della qualità di questa spesa: e potremmo tornare a ragionare se e come il reddito di cittadinanza sia meglio degli sgravi contributivi o di un grande piano di ristrutturazione delle città o delle infrastrutture. Laicamente e senza preconcetti, provando e magari sbagliando.
Non mi pare ci siano attualmente, né nella maggioranza né nell’opposizione (politica e intellettuale) molti ambienti disponibili a prendere sul serio questo ragionamento. E questo è il limite dell’attuale situazione. Se non facciamo fare al dibattito questo salto di qualità, non credo andremo lontano. Dopo i giorni dell’euforia del balcone, seguiranno le mezze promesse e le spese rimandate, i ritorni indietro e i contentini risibili, le riforme dilazionate e gli allarmi per i cattivi speculatori. Il tutto condito con un inarrestabile declino dell’apparato amministrativo e del nerbo pubblico del paese. Un balletto che nessuna società – tantomeno quella italiana così slabbrata e provata – può ancora reggere a lungo.

C’è voglia d’Europa

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Lo dice anche la riuscita (e oceanica) manifestazione di Londra.
[Da repubblica.it online] Brexit, folla oceanica a Londra chiede nuovo referendum. Da Ansa.it.

L’Europa che vogliamo!

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Per un’Europa dei diritti umani e della giustizia sociale!
Per una società solidale piuttosto che esclusione e razzismo!
Per il diritto alla protezione e all’asilo – contro l’isolamento dell’Europa!
Per una società libera e diversificata!
La solidarietà non conosce confini!

Berlino, 13 novembre 2018. Anche Berlino in marcia contro il razzismo e invocando la solidarietà contro l’ascesa dell’estrema destra in tutta la Germania e l’Europa. In un tratto di tre miglia, da Alexanderplatz alla Porta di Brandeburgo fino alla Colonna della Vittoria, migliaia di persone si sono riunite “Per una società aperta e libera: solidarietà, non esclusione!”

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Per una società aperta e libera: solidarietà, non esclusione!
Si sta verificando un drammatico cambiamento politico: razzismo e discriminazione stanno diventando socialmente accettabili. Ciò che ieri era considerato impensabile e indicibile, oggi è diventato realtà. Umanità e diritti umani, libertà religiosa e stato di diritto vengono apertamente attaccati. Questo è un attacco a tutti noi.
Non permetteremo che lo stato sociale venga messo in gioco contro l’asilo e la migrazione. Saremo resistenti quando i diritti e le libertà fondamentali rischiano di essere ulteriormente limitati.
Ci si aspetta che accettiamo la morte di coloro che cercano rifugio in Europa come “normali”. L’Europa è in preda a un’atmosfera di antagonismo ed esclusione nazionalistici. Tuttavia, ogni critica a queste condizioni disumane viene liquidata come non realistica.
Mentre lo Stato stringe le sue cosiddette “leggi sulla sicurezza” e estende la sorveglianza in uno spettacolo di forza, il sistema sociale è sempre più caratterizzato da debolezza: milioni subiscono l’impatto di un sottoinvestimento nell’assistenza di base, nell’assistenza sanitaria, nell’infanzia e nell’istruzione. Da “Agenda 2010″, la ridistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto è progredita ad un ritmo allarmante. I miliardi di profitto generati dagli incentivi fiscali sono in netto contrasto con uno dei più grandi settori settoriali a basso salario in Europa e il livello di persone povere e svantaggiate.
Siamo contrari – resisteremo!
Rappresentiamo una società aperta e attenta, in cui i diritti umani sono indivisibili e in cui stili di vita diversi e autodeterminati sono innegabilmente rispettati.
Siamo contro ogni forma di odio e discriminazione. Insieme, affrontiamo decisamente il razzismo anti-islamico, l’antisemitismo, l’antiziganismo, l’antifemminismo e la fobia LGBTIQ *.
Ci sono già molti di noi.
Che si tratti delle frontiere esterne dell’Europa o di organizzazioni di rifugiati e di iniziative gradite; in movimenti queer-femministi e antirazzisti, organizzazioni di migranti, sindacati, associazioni, ONG, comunità religiose, società e
quartieri; che si tratti della lotta contro i senzatetto, il dislocamento o la mancanza di servizi di assistenza, contro la sorveglianza e l’inasprimento delle leggi sulla sicurezza, o la spogliazione dei diritti dei rifugiati, in molti luoghi le persone difendono se stesse e gli altri da discriminazioni, criminalizzazioni ed esclusioni.
Insieme, renderemo visibile questa società premurosa. Il 13 ottobre verrà inviato un chiaro segnale da Berlino.
#unteilbar
Per una società aperta e libera: solidarietà, non esclusione!
Dimostrazione: 13 ottobre 2018 – Berlino
Per un’Europa dei diritti umani e della giustizia sociale!
Per una società solidale piuttosto che esclusione e razzismo!
Per il diritto alla protezione e all’asilo – contro l’isolamento dell’Europa!
Per una società libera e diversificata!
La solidarietà non conosce confini!

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For an Open and Free Society: Solidarity, not Exclusion!
A dramatic political shift is taking place: racism and discrimination are becoming socially acceptable. What yesterday was considered unthinkable and unutterable, has today become a reality. Humanity and human rights, religious freedom, and the rule of law are being openly attacked. This is an attack on all of us.
We will not allow the welfare state to be played off against asylum and migration. We will stand in resistance when fundamental rights and freedoms are in danger of being further restricted.
We are expected to accept the deaths of those seeking refuge in Europe as ‘normal’. Europe is in a grip of an atmosphere of nationalistic antagonism and exclusion. However, any criticism of these inhumane conditions is dismissed as unrealistic.
While the State tightens its ‘so-called’ security laws and extends surveillance in a show of strength, the social system is increasingly characterised by weakness: millions suffer the impact of an underinvestment in basic care, healthcare, childcare, and education. Since ‘Agenda 2010’, the redistribution of wealth from below to above has advanced at an alarming rate. The billions in profit generated through tax incentives stand in stark contrast to one of the biggest low-wage sectors sectors in Europe and level of impoverished, disadvantaged people.
We are against this – we will resist!
We stand for an open and caring society, in which human rights are indivisible and in which diverse and self-determined ways of life,are undeniably respected.
We stand against all forms of hatred and discrimination. Together, we decidedly confront anti-Muslim racism, antisemitism, antiziganism, antifeminism and LGBTIQ*-phobia.
There are already many of us.
Whether it’s on Europe’s external borders, or here within refugee organisations and in welcome initiatives; in queer-feminist and antiracist movements, migrant organisations, trade unions, associations, NGO’s, religious communities, societies and
neighbourhoods; whether it’s through the fight against homelessness, displacement, or lack of care services, against surveillance and tightened security laws, or the stripping of rights from refugees — in many places, people are actively defending themselves and others against discrimination, criminalisation and exclusion.
Together, we will make this caring society visible. On 13 October, a clear signal will be sent from Berlin.
#unteilbar
For an Open and Free Society: Solidarity, not Exclusion!
Demonstration: 13 October 2018 – 13:00 Berlin
For a Europe of human rights and social justice!
For a solidarity-based society rather than exclusion and racism!
For the right to protection and asylum – against the isolation of Europe!
For a free and diverse society!
Solidarity knows no borders!

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#unteilbar
Für eine offene und freie Gesellschaft – Solidarität statt Ausgrenzung!
Es findet eine dramatische politische Verschiebung statt: Rassismus und Menschenverachtung werden gesellschaftsfähig. Was gestern noch undenkbar war und als unsagbar galt, ist kurz darauf Realität. Humanität und Menschenrechte, Religionsfreiheit und Rechtsstaat werden offen angegriffen. Es ist ein Angriff, der uns allen gilt.
Wir lassen nicht zu, dass Sozialstaat, Flucht und Migration gegeneinander ausgespielt werden. Wir halten dagegen, wenn Grund- und Freiheitsrechte weiter eingeschränkt werden sollen.
Das Sterben von Menschen auf der Flucht nach Europa darf nicht Teil unserer Normalität werden. Europa ist von einer nationalistischen Stimmung der Entsolidarisierung und Ausgrenzung erfasst. Kritik an diesen unmenschlichen Verhältnissen wird gezielt als realitätsfremd diffamiert.
Während der Staat sogenannte Sicherheitsgesetze verschärft, die Überwachung ausbaut und so Stärke markiert, ist das Sozialsystem von Schwäche gekennzeichnet: Millionen leiden darunter, dass viel zu wenig investiert wird, etwa in Pflege, Gesundheit, Kinderbetreuung und Bildung. Unzählige Menschen werden jährlich aus ihren Wohnungen vertrieben. Die Umverteilung von unten nach oben wurde seit der Agenda 2010 massiv vorangetrieben. Steuerlich begünstigte Milliardengewinne der Wirtschaft stehen einem der größten Niedriglohnsektoren Europas und der Verarmung benachteiligter Menschen gegenüber.
Nicht mit uns – Wir halten dagegen!
Wir treten für eine offene und solidarische Gesellschaft ein, in der Menschenrechte unteilbar, in der vielfältige und selbstbestimmte Lebensentwürfe selbstverständlich sind. Wir stellen uns gegen jegliche Form von Diskriminierung und Hetze. Gemeinsam treten wir antimuslimischem Rassismus, Antisemitismus, Antiziganismus, Antifeminismus und LGBTIQ*- Feindlichkeit entschieden entgegen.
Wir sind jetzt schon viele, die sich einsetzen:
Ob an den Außengrenzen Europas, ob vor Ort in Organisationen von Geflüchteten und in Willkommensinitiativen, ob in queer-feministischen, antirassistischen Bewegungen, in Migrant*innenorganisationen, in Gewerkschaften, in Verbänden, NGOs, Religionsgemeinschaften, Vereinen und Nachbarschaften, ob in dem Engagement gegen Wohnungsnot, Verdrängung, Pflegenotstand, gegen Überwachung und Gesetzesverschärfungen oder gegen die Entrechtung von Geflüchteten – an vielen Orten sind Menschen aktiv, die sich zur Wehr setzen gegen Diskriminierung, Kriminalisierung und Ausgrenzung.
Gemeinsam werden wir die solidarische Gesellschaft sichtbar machen! Am 13. Oktober wird von Berlin ein klares Signal ausgehen.
#unteilbar Für eine offene und freie Gesellschaft – Solidarität statt Ausgrenzung Demonstration: 13. Oktober 2018 – 13:00 Uhr Berlin
Für ein Europa der Menschenrechte und der sozialen Gerechtigkeit!
Für ein solidarisches und soziales Miteinander statt Ausgrenzung und Rassismus!
Für das Recht auf Schutz und Asyl – Gegen die Abschottung Europas!
Für eine freie und vielfältige Gesellschaft!
Solidarität kennt keine Grenzen!

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Qui il link al blog e all’appello.
Fonte: foto di Carsten Koall/Getty Images, presa dal sito Common Dreams, ripresa da eddyburg.

Europa Europa

Strasburgo condanna Orbán, ora decide il Consiglio Ue.
[Su repubblica.it] L’assemblea ha approvato la risoluzione di Judith Sargentini sulla situazione in Ungheria. Ora spetta ai capi di Stato e di governo decidere sulla procedura prevista dall’articolo 7 del Trattato.
judith-sargentini-portretSTRASBURGO. Alla sfida di Viktor Orbán all’Europa, Strasburgo ha risposto approvando la risoluzione dell’europarlamentare olandese dei Verdi Judith Sargentini che accusa l’Ungheria di violare i principi della democrazia. Il testo è stato approvato con 448 voti a favore, 197 contrari e 48 astenuti con 693 votanti. Ora spetta al Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Ue decidere se attivare la procedura dell’articolo 7 del Trattato dell’Unione Europea che, dopo una lunga procedura, potrebbe portare a sanzioni, come la sospensione del diritto di voto.
“Una votazione storica del Parlamento a favore dello stato di diritto”, ha commentato la relatrice del testo Sargentini. “Il governo di Viktor Orbàn ha minato i valori europei attaccando l’indipendenza dei media, dei giudici e del mondo accademico e le persone vicine al governo ei loro amici e familiari si sono arricchiti a spese di contribuenti ungheresi ed europei”, ha detto Sargentini. E aggiunge: “Il popolo ungherese merita di meglio. Gli ungheresi hanno anche il diritto alla libertà di espressione, alla non discriminazione, alla tolleranza e alla giustizia sanciti dai trattati europei”.
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conf-stampa-judithJudith Sargentini über alles. La conferenza stampa (con interprete italiano) diffusa da Radio Radicale: https://www.radioradicale.it/scheda/551517/conferenza-stampa-di-judith-sargentini
(segue)

Dibattito. Quale Europa a vantaggio di tutti gli europei? C’è un alternativa alla “dittatura dell’euro” che non sia la fuoriuscita dall’area-euro e dall’UE?

poveraEuropaCosa impedisce all’Italia di sottrarsi alla “dittatura eurista”?
di Gianfranco Sabattini*

Perché si continua ad auspicare l’avvento di un futuro europeo fondato sulla realizzazione di valori che, largamente condivisi nel passato, sono ora resi opachi, se non rimossi, dagli egoismi nazionali? Non sarebbe ora che ci si rendesse conto della situazione, anche per meglio contestare su basi più razionali quanto sostengono i critici radicali di quella che molti di loro chiamano “dittatura dell’euro”? E’ giusto contrastare il radicalismo euroscettico sul piano culturale e valoriale; ma è anche doveroso, per meglio controargomentare, se possibile, capire le ragioni che ne hanno causato la nascita ed ora la radicalizzazione.
Un libro contro la “dittatura dell’euro” è quello che Sergio Cesaratto ha pubblicato di recente, dal titolo apparentemente “buonista”, ma, profondamente critico nei contenuti e nella proposta. L’idea di uscire dall’Unione Europea e dall’area-euro potrà non essere condivisa; ciò non toglie che l’esposizione delle ragioni del perché la moneta unica e la logica sottostante il funzionamento delle istituzioni europee che la governano risultino penalizzanti per molti Paesi, tra i quali l’Italia, meritano d’essere attentamente considerate; non foss’altro che per trovare una “via di fuga” dalla situazione economica stagnante che la crisi del 2007/2008 ha fatto emergere in tutta la sua gravità, proprio a causa del malfunzionamento della moneta unica e delle istituzioni che la sorreggono.
Questo situazione negativa dell’Italia non è certo attribuibile soltanto ai meccanismi penalizzanti dell’euro; essa è anche il risultato di scelte effettuate nel passato dalla classe imprenditoriale e da quella politica nazionali; ma l’obbligo che incombe ora sul Paese, quello di rispettare le “regole del gioco” stabilite per il governo dell’euro, rappresenta un serio ostacolo al superamento della stagnazione. Ciò accade, non a causa delle “regole del gioco” in sé e per sé considerate, ma per via del fatto che esse non vengono rispettate da tutti i Paesi, soprattutto da parte del Paese (la Germania) che di fatto ha assunto (e, in parte, si è visto assegnare) il ruolo di leader tra i Paesi membri dell’Unione, a causa del pensiero politico-economico ordoliberista professato sacralmente dall’establishment tedesco.

“l’Italia – afferma Cesaratto – è in questi mesi coinvolta nel processo di revisione dell’assetto delle istituzioni economiche europee, processo che dovrebbe costituire una sorta di Maastrcht 2.0”. Ma di fronte al dissenso sulle “regole del gioco” poste a fondamento del funzionamento dell’area-euro, l’Italia e gli altri Paesi che soffrono degli stessi effetti negativi originati dal malfunzionamento di qull’area, devono necessariamente chiedersi, come osserva Cesaratto, se le “regole adottate” non hanno funzionato, perché sono sbagliate, o perché non sono state rispettate. A parere di Cesaratto, il processo di revisione dell’assetto delle istituzioni economiche europee ora in corso sembra orientato a basarsi sulla seconda tesi; ciò perché la strenua difesa ordoliberista degli interessi tedeschi risulta essere incompatibile con il rispetto delle “regole del gioco”, quale esso (il rispetto), alla luce dell’analisi e della storia economica, dovrebbe essere praticato per il corretto funzionamento dell’area valutaria dell’Unione

Secondo l’analisi economica, un gruppo di Paesi, sufficientemente integrati tra loro sul piano degli scambi e del movimento dei fattori produttivi, può avere interesse a creare un’unione monetaria, che risulta ottimale quando eventuali squilibri delle bilance commerciali vengono corretti automaticamente attraverso l’agire delle forze del mercato. L’umanità si era illusa di potersi avvalere, con l’adozione, a livello mondiale, delle “regole del gioco” del sistema aureo classico, il “gold-sandard”, col quale i Paesi partecipanti al commercio internazionale regolavano i loro reciproci rapporti di debito e credito, utilizzando monete nazionali che consistevano di oro o erano liberamente convertibili in oro. Con questo sistema, l’automatismo attivato dal mercato comportava che i Paesi in disavanzo subissero un deflusso di oro (dovendo pagare per le importazioni più di quanto ricevevano a compenso delle esportazioni) e quelli in avanzo, per ragioni opposte, un afflusso netto di oro. La diminuzione dell’oro nei Paesi in disavanzo causava al loro interno una diminuzione di prezzi e un aumento all’interno di quelli in avanzo; i primi Paesi guadagnavano in competitività, mentre i secondi la perdevano, per cui il risultato finale era che gli squilibri della bilancia verso l’estero venissero rimossi.

Un automatismo del tipo descritto può essere esteso anche ad un’area monetaria integrata, all’interno della quale circoli una moneta unica, com’è il caso dell’area-euro: il Paese che perde euro, in seguito a un disavanzo della propria bilancia commerciale andrebbe incontro a una caduta dei prezzi interni, mentre quello con una bilancia in avanzo dovrebbe accettare di subire il fenomeno contrario. Sennonché, com’è stato messo in evidenza da Robert Alexander Mundell, le “regole del gioco”, sia nel caso del sistema aureo classico, che in quello dell’area valutaria dell’euro, non sono state rispettate, in quanto, in entrambi i casi, i Paesi in surplus non hanno accettato il fatto che una loro maggiore inflazione, secondo l’automatismo attivato dalle forze del mercato, favorisse il riequilibrio verso l’esterno delle loro bilance commerciali.

E’ stato così che, nel caso del gold standard, il mancato rispetto delle “regole del gioco”, poste a presidio degli equilibri delle bilance nazionali, ha prodotto, prima, la crisi del mercato internazionale, poi, l’avvento delle dittature e tutto il resto; la mancata osservanza delle stesse “regole del gioco” all’interno dell’area valutaria dell’euro ha sinora prodotto, oltre agli squilibri nelle posizioni debitorie e creditorie dei singoli Stati membri, anche squilibri nelle loro economie reali, determinando sul piano politico, almeno per il momento, solo il diffondersi del fenomeno del populismo; il quale, invece d’essere considerato dagli establishment prevalenti come effetto del mancato funzionamento ottimale dell’area-euro, ne viene ritenuto, irresponsabilmente, la causa.

Da tempo gli economisti hanno avvertito che l’area-euro non poteva dare origine ad un’area valutaria ottimale, in quanto le differenze istituzionali esistenti, proprie dei diversi Paesi membri, giustificavano che ad essi fosse conservata la flessibilità del cambio per aggiustare gli squilibri delle loro bilance; per contrastare la deflazione, gli economisti hanno anche osservato che la mancata trasgressione delle “regole del gioco” da parte dei Paesi in surplus, in particolare da parte della Germania, ha costretto, come sottolinea Cesaratto, i Paesi in deficit a “stringere la cinghia, inducendo una generale tendenza deflazionistica all’economia dell’Unione”, in conseguenza delle politiche di austerità cui quei Paesi sarebbero stati costretti.

Per contrastare la deflazione, gli economisti hanno proposto che gli eventuali surplus delle bilance commerciali “fossero riciclati attraverso trasferimenti fiscali verso i Paesi in disavanzo”. Questa forma di solidarietà, che sarebbe servita anche a supportare la domanda aggregata dell’intera area monetaria europea, implicava un’unione politica, che però non è mai stato possibile realizzare; ciò, perché, i Paesi con bilance in surplus, a partire dalla Germania, smentendo il sogno di buona parte delle forze di sinistra (sorde alle istanze populiste) hanno preferito optare per un’Unione Europea basata su istituzioni minime, volte a fare rispettare il funzionamento di un mercato rigidamente ispirato a principi “laissezfairistici”, senza il vincolo dell’osservanza delle regole implicanti l’ottimalità dell’area valutaria dell’euro.

Perché proprio la Germania, al di là delle esternazioni favorevoli al processo di unificazione politica dell’Europa comunitaria di molti esponenti della sua classe politica e di molti suoi intellettuali, è il Paese che si trova ad essere interessato di fatto ad un’”Europa Minima”? La risposta è da rinvenirsi nel fatto che, oltre all’ideologia ordoliberista che pervade l’intero establishment tedesco, sono le scelte che la Germania è obbligata ad assumere a renderla “ostile” all’unificazione politica dell’Unione, a causa dalla natura strutturale dei suoi surplus di bilancia verso l’esterno (in particolare, verso alcuni Paesi membri dell’Unione).

Si tratta di scelte alle quali la Germania non può sottrarsi, per via del modo in cui la sua ricostruzione economica postbellica è stata impostata, ovvero in funzione delle esportazioni. Su questa base – afferma Cesaratto – le esportazioni e i surplus commerciali sono diventati per l’economia tedesca “uno sbocco inevitabile”. In prospettiva, secondo Cesaratto, l’irrevesibilità della sua struttura produttiva “apre problemi drammatici per l’area euro”, in quanto l’orientamento alle esportazioni “destabilizza le altre economie”, condannandole a “un’eterna deflazione per evitare di essere sommerse dalle esportazioni tedesche e dai conseguenti debiti”. Stando così le cose, “il problema diventa politico, e riguarda la sopravvivenza dell’unione monetaria come area di cooperazione e sviluppo”. Quali opzioni – si chiede Cesaratto – ha a propria disposizione il governo italiano, a fronte di posizioni delle istituzioni europee che concepiscono che le possibili riforme per un “Maastricht 2.0” devono essere solo dirette a rendere sempre più cogente l’obbligo di osservare “regole” che sinora si sono rivelate penalizzati per l’Italia?

Cesaratto conclude affermando che, in vista della prosecuzione dei lavori per la riforma delle istituzioni europee, il Paese farebbe bene a tracciare una “linea del Piave”, intorno alla quale realizzare una vasta coesione di forze politiche, per sancire che un ulteriore proseguimento della governance dell’area valutaria europea secondo le linee sin qui seguite, “sarebbe inaccettabile, e da ultimo fallimentare, per l’Italia e per la stessa Europa”; in altri termini, se le cose non dovessero cambiare, s’imporrebbe per l’Italia l’uscita dall’area-euro e dall’Europa!

E’ questa l’unica via di fuga dalla “schiavitù dell’euro”? Secondo altri critici dello status quo europeo, la fuoriuscita da un’area di cooperazione sovrannazionale sarebbe negativa per l’Italia, per cui la ricerca di un’alternativa meno radicale dovrebbe essere oggetto di attenta riflessione da parte dell’establishment italiano dominante; tale ricerca dovrebbe essere perseguita, tenendo conto che l’abbandono del gold standard da parte dell’economia mondiale è stato reso possibile dagli sconvolgimenti internazionali che si erano determinati, mentre la fuoriuscita dell’Italia (e non solo di essa) dall’euro, come molti sostengono, sarebbe ostacolata, non solo perché molti italiani sono ancora legati alla conservazione degli ideali europeisti, ma anche e soprattutto perché si opporrebbe quella parte del sistema produttivo nazionale che risulta ormai integrato irreversibilmente con il sistema economico del Paese europeo egemone, la Germania.

Tenendo conto di questi ostacoli e dell’impossibilità che l’Italia possa superare da sola la stagnazione che la affligge, lo sganciamento dalla “dittatura dell’euro” dovrebbe, più convenientemente, essere intesa come “mossa tattica”, volta e creare le condizioni per far ripartire rapidamente il processo di unificazione politica europea. Se la “minaccia” di tale mossa non dovesse sortire alcun effetto, un’alternativa all’uscita dall’euro e dall’Unione potrebbe consistere in un’iniziativa che l’Italia potrebbe assumere, pur continuando a fare parte dell’Unione e dell’area valutaria dell’euro, per coinvolgere su basi democratiche, sociali e solidaristiche, i Paesi del Sud dell’Europa, inclusa la Francia, e tentare con essi di convenire una politica di cooperazione sopranazionale affrancata il più possibile dall’influenza, negativa sulle loro economie, dell’Europa minima voluta dalla Germania.

Si tratterebbe di un’alternativa all’uscita dall’euro e dall’Unione che non metterebbe in dubbio la fedeltà al progetto europeo dell’Italia e degli altri Paesi che dovessero aderire alla proposta di cooperazione. Sarebbe comunque un’iniziativa volta ad attenuare la stretta della “dittatura dell’euro” sulle loro economie, ad imitazione di comportamenti che altri Paesi comunitari hanno intrapreso per la tutela dei loro interessi settoriali, giudicati prioritari per la crescita delle loro economie: gli esempi sono il Patto del Trimarium, col quale 12 Paesi dell’Europa orientale hanno deciso di cooperare nel campo delle infrastrutture e dell’energia; oppure l’alleanza di Visegrad, col quale 4 Paesi, sempre dell’Unione Europea, hanno concordato di portare avanti una politica comune riguardo ai problemi dell’immigrazione.

Come nei casi del patto del Trimarium e dell’alleanza di Visegrád, l’Italia, avviando assieme ad altri Paesi membri dell’Unione una cooperazione volta solo ad attenuare gli effetti della “dittatura dell’euro”, in luogo di una fuoriuscita unilaterale dall’Unione, si limiterebbe a perseguire una cooperazione sopranazionale finalizzata alla promozione di iniziative economiche comuni, che da sola non sarebbe in grado di intraprendere.
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* anche su Democraziaoggi.
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http://www.limesonline.com/progetti-infrastrutturali-nel-trimarium/103949

Europa Europa non consegnarti all’inciviltà!

Félix Vallotton (Losanna 1865-1925) il ratto d' Europa
EUROPA
giocando a scaricabarile

di Roberta Carlini su Rocca

Facce stravolte, cravatte allentate, tailleur stropicciati. Il copione degli accordi raggiunti a notte fonda, di solito riservato alle trattative sindacali, è utile alla retorica del salvataggio in extremis, del duro lavoro fatto per evitare il baratro, dei leader volenterosi. Ma la sostanza arriva poi con la luce del giorno, e il tanto atteso e temuto Consiglio europeo di fine giugno si è concluso, all’alba del 30, con scarsa sostanza. Quella bastevole a evitare la rottura. A scongiurare il pericolo che l’Europa, nata sulla moneta, morisse sui profughi. Ma mentre decine e decine di persone morivano di morte non simbolica, nel mar Mediterraneo, la vita dell’Unione continuava senza un messaggio di salvezza per loro. L’accordo è presto detto: si farà di tutto per evitare gli sbarchi, dando pieni poteri a una Guardia costiera libica alla cui efficacia e umanità non crede nessuno (anzi, ci sono prove di una sua complicità passata con gli scafisti); e per chiudere chi riesca a sbarcare in centri controllati – eufemismo per dire «prigioni» – chiamati ora «piattaforme di disimbarco». In queste, che dovranno sorgere ai bordi del Mediterraneo, dunque anche in Italia, si scremeranno gli aventi diritto all’asilo e si ributteranno indietro tutti gli altri. Questi gli impegni, la cui attuazione pratica è ancora tutta da scrivere e finanziare.
L’inizio estate del 2018, l’anno che ha portato nel cuore dell’Unione il vento partito dagli Stati Uniti con l’elezione di Trump, ci ha consegnato questo scenario. Si è temuto che il nuovo governo italiano rompesse i patti sull’euro, invece è sui migranti che si è aperta la crisi nell’Unione. E l’Italia è al centro, non solo perché primo grande Paese europeo nel quale la destra xenofoba ha preso il
governo, ma anche per motivi puramente geografici, come piattaforma necessaria di arrivo. Il linguaggio diretto dei nuovi governanti, senza le mediazioni né le formalità rassicuranti legate alla diplomazia, ma an- che a regole istituzionali finora rispettate anche nei momenti più drammatici, ci met- te davanti a una verità nuda: è l’Italia l’anello debole sul quale si può spezzare la catena lentamente costruita dagli anni Cinquanta del secolo scorso, quell’unione che i fondatori volevano come antidoto al veleno della guerra e dei nazionalismi e che i popoli, o gran parte di essi, sente come nuovo veleno, come una catena essa stessa, rompendo la quale si potrà tornare a un passato migliore.

il morbo incubato
Questa è la caratteristica che unisce la nuova destra che governa gli Stati Uniti, che ha spinto per la Brexit in Gran Bretagna, che è stata respinta in Francia, che governa il «gruppo di Visegrad» (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) e che incalza la Cancelliera Merkel in Germania: il sogno è ambientato nel passato, non nel futuro. Solo pochi anni fa Obama salutava la sua rielezione con un bellissimo discorso e una frase memorabile: il meglio deve ancora venire. Eravamo nel 2012, il primo presidente nero della storia statunitense veniva rieletto nonostante lo sconquasso della crisi del 2008 che aveva salutato il suo insediamento; o forse proprio per questo, dato che la pragmatica risposta del piano Arra di Obama aveva attutito i colpi durissimi della crisi, e avviato una ripresa piena di limiti e difetti ma pur sempre con il segno positivo.
Negli stessi mesi, l’Europa si ammalava della malattia che – forse, insieme ad altre cause – l’ha portata fin qui. Contrastava la crisi a colpi di austerità, comprimeva o negava i principi stessi scritti nella sua carta oltre che nel suo dna: solidarietà, in primo luogo. Al punto di arrivare sull’orlo del baratro, a un passo dal collasso finanziario e poi anche po- litico, su una questione che, dal punto di vista numerico e sostanziale, era minima: il debito della Grecia, enorme per quel Paese ma microscopico in confronto alla potenza e alla ricchezza dell’Unione europea, e anche solo della zona dell’euro. Una crisi che si sarebbe potuta risolvere in pochi mesi e minor sacrificio fu lasciata a bagnomaria, per non compromettere l’immagine e il ruolo di ‘falco’ della cancelliera Merkel che doveva affrontare un voto politico interno. Poi, il tentativo del popolo greco di autodeterminarsi, in presenza di un indebitamento estero enorme e conseguenti vincoli dei mercati finanziari, fu respinto. Se ne uscì, con costi sociali maggiori di quelli che avrebbe comportato un’Unione coesa e pragmatica – se avesse fatto politiche anticicliche come quelle del liberal Obama, senza bisogno di evocare ricette socialdemocratiche su cui pure il modello europeo è nato; ma soprattutto con costi politici non limitati alla sola Grecia (nella quale anzi il governo Tsipras è riuscito a ge- stire e sopravvivere a una crisi terribile). Ovunque, nei Paesi più ricchi e a basso tasso di disoccupazione come in quelli più indebi- tati e disoccupati, ai margini dell’Unione – tra i quali purtroppo anche l’Italia – il morbo incubato tra il 2011 e il 2012 ha continuato a dilagare. E l’Europa è diventata, nella perce- zione comune, l’untore, la responsabile del male. Soprattutto presso il popolo italiano, che primeggiava in europeismo e che solo pochi anni fa (era il 1997) accettò di pagare una «tassa per l’Europa», un’addizionale sulle
imposte sul reddito per entrare nell’euro (poi fu restituita, fu parte del ‘dividendo dell’euro’ per la riduzione dei tassi di interesse che ne seguì). E se al di sotto delle Alpi si incolpava e si incolpa l’Europa dei disastri del passato e delle paure per il futuro, insomma per essere diventati o poter diventare più poveri, al di là dei valichi la si incolpa di non tenere a dovuta distanza la povertà, quella che arriva dal mare.

sogno del passato
Paure che diventano terrori, in gran parte alimentate come fantasmi dal buio e destinate a sparire alla luce del giorno e della ragione. Ma anche, almeno in parte, fondate su fatti reali e sofferenze vive: gli ultimi dati dell’Istat certificano che la povertà assoluta, in Italia, coinvolge adesso 5 milioni di famiglie. Far cambiare rotta all’Europa si rivelò impossibile, anche perché nessuno ci ha seriamente provato; di fronte al successo dilagante del movimento opposto: tornare indietro, sfasciare quel progetto fallito, rompere il brutto giocattolo e le sue istituzioni destinate a non reggersi in piedi se non per finta. Di qui il sogno del passato, la «retrotopia» per dirla con Bauman. Che trae alimento, più che dalla nostalgia di un’effettiva età dell’oro, dalla sua semplicità: ecco un nemico, individuato e conosciuto, con cui prendersela. Poco importa che, a ragionarci un po’, la chiusura delle frontiere commerciali con la Germania, la limitazione della nostra emigrazione di studenti e operai, il collocamento del nostro debito su un mercato solo italiano, non ci avvantaggerebbero né aiuterebbero affatto. In mancanza di fiducia sul «meglio» che deve venire, rivivono i miti di quello che è già stato e se n’è andato.

la triarchia italiana
Senonché, tornare indietro è impossibile. Se ne sono accorti anche i nuovi governanti, che hanno dovuto dare rassicurazioni sulla volontà dell’Italia di restare nell’euro: è già nata, nel governo, una triarchia, che affianca lo sconosciuto «tecnico» Tria alla famosa coppia Salvini-Di Maio. I due vicepresidenti del consiglio hanno i voti e il peso politico, ma Tria ha i cordoni della cassa e per ora li tiene stretti, rinviando l’attuazione delle mirabolanti promesse elettorali. Così, non potendo se non in minima parte procedere con il pacchetto economico, ossia la flat tax da un lato e il reddito di dignità dall’altro, si procede sulle misure «a costo zero». Un nuovo intervento sulle regole del mercato del lavoro, che forse ridurrà un po’ l’abuso dei contratti a termine senza però intervenire sulle cause che portano le imprese a elargire solo «lavoretti», di pochi mesi o poche ore, e pochissimi lavori buoni. Ma soprat- tutto, interventi contro l’immigrazione: non potendo procedere contro quelli che, a torto o a ragione, vengono individuati come i nemici potenti (l’euro, la Germania, Bruxelles), si procede contro chi non può reagire, protestare, togliere il voto. Gli immigrati e il popolo dei barconi. Che, dice Salvini, vengono qui a portarci la miseria.

vecchi e nuovi poveri
In parte è vero: sono poveri, perché hanno perso o abbandonato tutto, o non l’hanno mai avuto. Ed è vero anche per i fortunati, coloro che in Italia sono riusciti a entrare e a vivere: oltre un terzo di quelli che l’Istat certifica come «poveri assoluti», cioè sopravvivono al di sotto della soglia di povertà, sono stranieri. Ma è anche vero che, senza i vecchi e nuovi poveri che sono arrivati in Italia, molti settori della nostra economia e del nostro welfare non esisterebbero: i piccoli imprenditori di Padova – nel cuore del Veneto leghista – hanno detto che se rumeni e bulgari tornassero a casa le loro fabbriche chiuderebbero, piene come sono di operai non italiani, ormai integrati e stipendiati; i calcoli dell’Inps mostrano che il sistema previdenziale si regge sui contributi pagati dagli stranieri; in molte scuole le classi si formano grazie ai loro figli, mentre in loro assenza dovrebbero chiudere e ci sarebbero insegnanti in esubero; senza contare l’economia nera dello sfruttamento dei braccianti, dalla pianura pontina a Rosarno, fino alle stalle delle preziose mucche da parmigiano della pianura padana.
E qui cominciano le distinzioni, che complicano il messaggio semplicistico della campagna elettorale. Si sente ripetere: quelli che lavorano li vogliamo, gli altri, quelli sui barconi, no. Ma si dimentica di dire che un modo legale per entrare a lavorare in Italia non c’è, essendo ridotto al minimo il sistema dei flussi. Altra distinzione usuale: sì ai profughi «veri», in fuga da guerre e persecuzioni, no ai migranti economici. Salvo poi voler tracciare questa distinzione fuori dai nostri confini, esattamente in quelle terre dove il diritto non c’è e affidando la cernita a quegli aguzzini dai quali i profughi fuggono.
Anche l’Europa civile partecipa a questa ipocrisia, cercando di delegare e spingere il problema più a sud possibile. Ne ha un vitale bisogno la cancelliera Merkel, incalzata all’interno dal suo ministro degli interni, che viene dalla regione più ricca d’Europa ed è un campione della linea dura all’interno della Germania, che ancora incolpa Angela Merkel per aver salvato dalla guerra e dalla morte i rifugiati siriani, iracheni e afghani. Voleva dagli alleati un impegno a non far muovere i profughi nel loro sogno di raggiungere la Germania, Paese nel quale ci sono parenti, amici, lavoro, benessere. Lo ha ottenuto, ma solo sulla carta: forse non sarà neanche sufficiente a placare la sua opinione pubblica, spaventata assurdamente da un’emergenza che non c’è più: chiusa la rotta dell’est, gli sbarchi da Sud si sono notevolmente ridotti negli ultimi mesi.

il compromesso
I governanti europei, il moderno Macron come la saggia Merkel come i populisti italiani, hanno la responsabilità di non aver saputo governare le paure, aiutare i propri elettori a cercare un rifugio e una rassicurazione veri e non solamente lo sfogo di un capro espiatorio con cui prendersela. Molti di loro hanno anzi alimentato queste paure, e ne hanno fatto la propria base elettorale. Ma un problema epocale come quello delle migrazioni – di tutti i tipi – non si risolve giocando a scaricabarile. Così la discussione e il fragile accordo europeo si sono concentrati su dove collocare la frontiera: appena al di sotto delle Alpi o oltre il Mediterraneo? In ciascuno dei due casi, non c’è stata nessuna volontà e disponibilità reale dei potenti e ricchi Paesi europei a farsi carico della propria quota di migranti e profughi: in questo rifiuto eccellono proprio i governi considerati dai nostri attuali leader più vicini e affini, quelli del blocco di Visegrad. Ne è venuto fuori un compromesso, la «redistribuzione dei profughi su base volontaria», che è un ossimoro dato che la volontà di prendersi una parte pur minima delle sofferenze del mondo non ce l’ha nessuno. Cooperazione tra i popoli e solidarietà con i più deboli dovrebbero essere scelti per principio, per tendenza naturale, almeno a sinistra; ma sono anche, in un mondo globalizzato e interconnesso, una strada obbligata. In questo momento, purtroppo, chiusa.

Roberta Carlini
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Foto in testa Ratto dell’Europa, Félix Vallotton (Losanna 1865-1925).
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DOCUMENTAZIONE&DIVULGAZIONE. Reddito di cittadinanza? (forse no). Reddito di inclusione sociale? (meglio) Reddito minimo garantito? (va pure bene). Le differenziate esperienze, su basi regionali, della Spagna.

reddito-minimo-ue-1Reddito di cittadinanza, come funziona in Spagna (dove esiste davvero)

Zonaeuro | 12 marzo 2018 su IlFattoQuotidiano

aplupimorena-thumbdi Andrea Lupi e Pierluigi Morena,
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avvocati internazionalisti
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Varia la denominazione, da regione e regione, cambia anche la sostanza. La Spagna ha introdotto da qualche anno l’istituto del reddito di cittadinanza, tuttavia lo Stato centrale ha demandato alle regioni (las comunidades autónomas) la facoltà di riconoscere e disciplinare la misura sociale. (segue)

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toro zeus rapisce europa
La marginalità dell’Europa nel mondo “multipolare”.

di Gianfranco Sabattini*

Pietro Rossi, noto filosofo, in un suo recente articolo apparso su “Il Mulino” n. 5/2017 (“L’Europa in un mondo plurale”) illustra i motivi per cui, allo stato attuale, l’Europa, dopo aver affermato la propria egemonia sul mondo intero, in particolare per il ruolo svolto dai Paesi che si affacciano sull’Atlantico, nel corso del XX secolo ha perso il suo primato, con conseguente spostamento del centro di gravità del pianeta dall’Atlantico al Pacifico; ciò a seguito delle due guerre mondiali e della Guerra fredda che, nella seconda metà del secolo, ha visto contrapposti gli Stati Uniti e la Russia sovietica. Pertanto, “la partita per la leadership internazionale” si gioca ora – afferma Rossi – “in larga misura non più tra le regioni industriali europee e quelle della costa orientale degli Stati Uniti, quanto tra la California e l’Estremo Oriente”.
(Segue)

Unione Europea: le eredità del 2017

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di Umberto Allegretti su Rocca
Un bilancio dell’anno appena trascorso per quanto riguarda l’Unione Europea non può esser pieno di molte ombre e di qualche luce, ombre e luci talora fra loro commiste. Le questioni si affollano e qui sceglieremo di accennare solo ad alcune che riteniamo particolarmente importanti.
La tela di fondo di tali questioni è data dal problema delle istituzioni europee come tali, che hanno certamente bisogno di pro- fonde ristrutturazioni. Un’Europa «sociale», un completamento dell’Unione sui vari aspetti del problema economico, una sua incisività sulla politica mondiale, rappresentano i settori, o alcuni dei settori, che avrebbero necessità, nell’attuale quadro mondiale, di una struttura dell’Unione più democratica, più efficace, meno «sovranista» più capace di affrontare i problemi gravissimi posti dalla situazione del pianeta in un’età di squilibrio e di guerra. Il problema istituzionale è affrontabile, come è stato notato, su due piani: con una migliore applicazione delle possibilità che già il Trattato di Lisbona prevede, e con una revisione di aspetti importanti del Trattato.

le cose da cambiare
Nella prima direzione, oggetto di importanti proposte nel discorso sullo stato dell’Unione pronunciato il 13 settembre davanti al Parlamento europeo dal Presidente della Commissione Juncker – la cui azione complessiva appare tuttora, salvo errore, rispetto ad altri organi europei quella più incisiva sulle proposte e i comportamenti dell’Unione –, si dovrebbe pensare di attuare una serie di passaggi dell’Unione a politiche più efficaci previste dal Trattato ma finora scartate. Per esempio, sarebbe possibile già ora applicare le possibilità di cosiddette «passerelle», che consentirebbero di passare in seno al Consiglio dalla necessità dell’unanimità degli Stati al voto a maggioranza qualificata, come nei settori della politica estera e delle politiche fiscali. Come pure di passare, per quanto riguarda il ruolo del Parlamento, dalla procedura di semplice parere a quella codecisionale.

problemi istituzionali
Altre variazioni rispetto alle pratiche attuali richiederebbero peraltro – come notato in un articolo dell’autorevole Paolo Ponzano, già alto funzionario europeo e ora, oltre a una forte esperienza all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, docente al Collegio europeo di Parma – elementi di modifica dei Trattati e sono perciò più difficili da attuare. Anche se bisogna tenere conto della forte azione propulsiva del Presidente francese Macron, che si è inoltrato nei suoi discorsi nella delineazione di solidi irrobustimenti del lato in qualche misura «federalista» rispetto a quello «sovranista» che ora prevale in seno all’Unione, ma il cui seguito avrebbe bisogno dell’intesa prima di tutto con una Germania attualmente in una per lei inconsueta difficoltà di
governabilità.

oltre le divisioni socio-economiche
È sempre più chiaro che esistono attualmente in seno all’Unione differenze di linea considerevoli tra gli Stati membri favorevoli ad avanzamenti o suscettibili di divenirlo e altri, tra cui quelli del Nord-Europa ma soprattutto quelli dell’area ex-socialista. Se questo spinge alcuni ad auspicare una netta delimitazione nel futuro fra due Europe, altri, forse a ragione, preferiscono in nome di un’unificazione del Continente decisa a cavallo del secolo XX e del XXI, tollerare le attuali differenze e lavorare pazientemente per superare le divisioni. Purché lo si faccia con la decisione necessaria, per esempio non esitando ulteriormente (alcuni segni sembrano ora esserci) ad adottare sanzioni previste dal Trattato nei confronti di quei paesi – Ungheria, gli altri paesi di Visegrad e ora in maniera particolarmente preoccupante la più vasta Polonia – che mostrano di alterare al loro interno, ma con effetti debordanti i loro confini, i fondamentali principi dello stato di diritto, come l’indipendenza della magistratura e della giurisdizione costituzionale e che rifiutano di accettare la loro pur tenue porzione di accoglienza dei migranti.

le diverse politiche sociali e fiscali
Non si tratta però di meri problemi «istituzionali». Bisogna che ci si decida ad avanzare – in questo favoriti dall’uscita dall’Unione, ancora peraltro a mezza strada, della Gran Bretagna – verso politiche sociali valide per tutta l’Unione e verso politiche fiscali comuni, essendo ormai più che palese l’impossibilità e l’ingiustizia di fiscalità così diverse tra gli Stati membri, quali quelle che fra l’altro hanno permesso finora – anche qui qualche segno positivo si sta aprendo – all’Irlanda e allo stesso Lussemburgo già governato da Juncker di offrire possibilità di elusione delle tasse a grandi multinazionali, come quelle agenti nel campo informatico o alla Ryanair o a evasori singoli o societari dei nostri stessi paesi. Potrebbe la ripetuta proposta di un Ministro delle finanze europeo quanto meno per la zona euro, fornire uno strumento per andare in una direzione di contenimento di queste disparità?

Europa Africa
L’autorevolezza della politica dell’Unione verso l’esterno, finora scarsissimamente esistente come politica unitaria, dipende anche dalla capacità dell’Unione di governare le sue tensioni interne. Un esempio clamoroso e tra i più preoccupanti è quello della politica verso il continente africano. Che un compito di aiuto all’Africa da parte dell’Europa sia doveroso e opportuno per la stessa Europa è assolutamente evidente. Ma si sono fatti in questo anno dei veri passi avanti in questa direzione? Da tempo si parla di un cosiddetto Piano Marshall per l’Africa. Ma l’aiuto finanziario ai paesi della fame come quelli del Sahel, che poi generano le massicce migrazioni cui assistiamo ormai da anni, ha veramente decollato? I poco più di tre miliardi di euro promessi e, per quel che si può sapere, non ancora erogati a pro’ di questi paesi – e che certo hanno bisogno di garanzie di corretta spesa, per la quale si son fatte peraltro buone proposte di vigilanza da parte di organismi Onu – non sono certo una misura sufficiente. Meno ancora lo è il puntare primariamente sull’azione contro il fattore, preoccupante ma derivato, di lotta contro il terrorismo che può alimentarsi in quei paesi, preoccupazione che ci pare abbia malamente dominato il recente vertice Europa-Africa di Abidjan. E come vantarsi, in questa situazione, di esser riusciti a contenere il numero degli sbarchi in Italia – a parte lo scandalo dei «campi» in Libia – come fanno il pur ben disposto governo italiano attuale e il suo ministro? In sintesi, un’Europa della solidarietà e della pace non può limitarsi ai problemi interni dell’Unione, ma deve sboccare in una capacità di azione internazionale che avrebbe in Africa, oltre che in Medio Oriente, il suo campo di prova più necessario.

unione monetaria
In presenza di questi e altri problemi, e in attesa fra l’altro della conclusione delle trattative per un nuovo governo tedesco, la Commissione ha elaborato un pacchetto di proposte sul rafforzamento dell’unione monetaria nel quale ha cercato di accontentare un po’ tutti: inserzione del Fiscal Compact nel diritto europeo ma con la fles- sibilità già concessa all’Italia e ad altri paesi, completamento dell’unione bancaria ma con la riduzione dei rischi nei paesi dove le banche hanno troppi titoli di Stato nel loro portafoglio, creazione di fondi di stabilizzazione macro-economica ma con impegni paralleli di convergenza, e altro. Queste, per ora, le prospettive per il nuovo anno, piene anch’esse di luci e di ombre.
Umberto Allegretti
UNIONE EUROPEA
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