Monthly Archives: luglio 2016

Comunicazioni di servizio

imageIL TESTO INTEGRALE
DEL PATTO PER LA SARDEGNA

Cliccando sul link che segue è possibile scaricare il testo integrale del “Patto per la Sardegna”, firmato il 29 luglio a Sassari dal presidente della Regione Francesco Pigliaru e dal presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi. http://goo.gl/jX4eX3
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L’immagine correlata non ha provenienza istituzionale.

Migranti domiciliati in piazza Matteotti. Che fare?

imageDai giochi della storia ai giochi della vita
di Roberto Paracchini
Racconta Erodoto che Ciro, il fondatore del’impero persiano mandò alcuni emissari a verificare come fossero fatte queste città greche che “osavano” contrastare l’egemonia del suo impero sulle coste dell’asia minore. Al ritorno – racconta sempre Erodoto – il resoconto tranquillizzo Ciro che, abituato alle grandi sgrutture intese anche come simbolo di potere, pensò non ci fosse nulla da temere “da un posto con un buco nel mezzo, in cui la gente si incontra per parlare”. Il valore dell’agorà (luogo anche delle assemblee e del teatro) non venne tenuta in alcun conto. Poi arrivarono le sconfitte di Maratona e Salamina. Le piazza, quindi, come punto di incontro e di scambio. Ognuna nata in occasioni e con funzioni differenti.
La piazza Matteotti, edificata nella seconda metà dell’Ottocento come giardino della stazione delle ferrovie Reali di Cagliari, voleva simbolicamente essere anche un luogo di incontro e, forse, benvenuto; di scambio tra chi arrivava e chi partiva. E le piazze, appunto, hanno, o dovrebbero avere proprio questa funzione, anche e – se si vuole – soprattutto in una città potenzialmente policentrica come Cagliari in cui le piazze possono assumere funzioni differenti, pur all’interno di un minimo comun denominatore di incontro, dialogo e scambio che, ovviamente, vanno sapute declinare in rapporto all’evolversi delle situazioni storiche.
Piazza Matteotti è oggi diventata quasi un simbolo di quel che sta avvenendo nel mondo, una cartina di tornasole per leggere di guerre per il controlle delle fonti energetiche e non solo; di scelte strategiche per lo più sbagliate dell’occidente (basti l’esempio dell’Isis che – sono parole di Hillary Clinton – è nata grazie agli americani) ; di un nuovo peso (pur contraddittorio) della Cina e della Russia; di devastazioni, espropriazioni (dell’acqua e delle terre, solo per dirne due); malattie devastanti; e di degrado. Quindi migrazioni: dei profughi e di chi fugge da degrado, fame e malattie (detti impropriamente migrant economici). Emigrazioni che rivestono il XXI secolo e che, viste le premesse, possono essere definite epocali e destinate ad prolungate nel tempo, almeno – così sostengono in molti – per i prossimi vent’anni. Allora che fare? I corni del dilemma (per chi trova in posizione di ospite) potrebbero (molto schematicamente) venir ridotti a due: da un lato c’è chi sfrutta e, soprattutto, alimenta l’economia della paura; dall’altro chi parla di solidarietà.
1 – Con un minimo di analisi è facile smontare le tesi dell’economia della paura, basata fondamentalmente sull’ignoranza e, in parte, la malafede; ma il problema è il rischio – se non si opera in tempo – che questa “economia della paura” colonizzi settori sempre più ampi di senso comune (ne è un esempio il forte dibattito ricco di proteste che si è sviluppato nella trasmissione radiofonica Fahrenheit di Rai3 alla notizia che il governo ha deciso di recuperare il traghetto affondato in mare con all’interno almeno trecento salme di migranti; protesta in cui, in sintesi, si chiedeva di investire quei soldi in altro modo). Sintomo, questo, di quanto il degrado di alcuni valori (come la pietas verso i morti da restituire ai parenti) stia investendo anche settori considerati più aperti come gli ascoltatori di questa storica trasmissione radiofonica.
2 – Il parlare di solidarietà è importante, ma non basta. —- segue -

Domenica 31 luglio 2016

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Sardegna quasi non conti niente

Parlamento-in-duomo-Scrivania
di Antonio Dessì*
Ma non è la stessa cosa.
“Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3. Statuto speciale per la Sardegna.
Articolo 13.
Lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola.”.
Chi è cresciuto condividendo la mia formazione politica e professionale non può evitare di esprimere una insoddisfazione profonda per il contesto in cui si è svolto l’arrivo in Sardegna del Capo del Governo italiano, giunto ieri a Sassari per la consegna virtuale di una valigia di danaro statale, alla quale il Presidente della Regione ha apposto la propria firma per ricevuta su un documento solennemente definito “Patto per la Sardegna”.
Tutto, ieri, anche in termini di immagine istituzionale, sapeva di fuori posto.
Una cerimonia poco paritaria, i cui protagonisti locali son parsi più un codazzo di infeudati che non la rappresentanza di una corale e autonoma comunità regionale.
Anche la scelta di una sede lontana da quella dell’istituzione autonomistica, in particolare del suo Parlamento, è parsa più una collocazione nella marca politicamente più fedele, che non un fatto di riconoscimento istituzionalmente significativo della pluralità e della diffusione dei luoghi dell’identità sarda. – segue –

Auscwitz

imagesedia di VannitolaL’avvenimento più importante della visita del Papa ad Auscwitz, una visita silenziosa, nessun discorso, parlano le immagini e le espressioni del volto di Francesco. Ha lasciato una sola frase nel libro dei visitatori. Ha scritto, nella sua lingua: ” Signore, perdona tanta crudeltà”. Durante la giornata il Papa ha poi espresso altre considerazioni. – segue

LasciateCIEntrare

lasciarteci entrree rapprtolasciteci antrarte3 logoAccogliere: la vera emergenza
LasciateCIEntrare – Sarà presentato oggi sabato 30 luglio a Cagliari il rapporto nazionale della campagna LasciateCIEntrare sull’accoglienza dei migranti sul territorio nazionale. La rete di associazioni e attivisti, sostenuta anche dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana e da Usigrai, pubblica ogni anno un rapporto con tutte le relazioni sui centri di accoglienza e di detenzione degli stranieri presenti sul territorio nazionale.
- Tra il 10 gennaio e il 3 dicembre 2015 gli attivisti hanno visitato 80 strutture quali Cie, Cara, Cas, Hub, tendopoli e punti informali, 15 le visite negate.
– L’appuntamento è oggi sabato 30 luglio alle 18:00 nella sala A dell’Hostel Marina a Cagliari,scalette San Sepolcro. Intervengono: Yasmine Accardo, referente dei territori di LasciateCIEntrare, Francesca Cadeddu, operatrice legale per i minori stranieri non accompagnati, Giacomo Dessì del Presidio Piazzale Trento di Cagliari. Modera il dibattito Roberto Loddo, direttore de il Manifesto sardo.
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il popolo degli sfiduciati

disperazione AladinGENERAZIONE NEET
il popolo degli sfiduciati
di Pietro Greco*
Li chiamano «generazione Neet». Sono i giovani di età compresa tra 15 e 29 anni che né lavorano né studiano né si formano. Nessun Paese europeo, documenta il recente rapporto Bruegel, ne ha tanti quanto l’Italia di questi ragazzi costretti all’inedia: 2,4 milioni. Il fenomeno è in crescita. Tra il 2007 e il 2013 i Neet sono aumentati di sette punti percentuali, dal 16% al 23% dell’intera popolazione in quella fascia di età. Ma non sono generici «figli della crisi» economica innescata nel 2007 dal fallimento negli Stati Uniti della Lehman Brothers ed estesasi all’Europa. Perché in Germania, in questo stesso periodo, la «generazione Neet» è addirittura diminuita, passando dall’8,9% a un pressoché fisiologico 6,3%. Quanti, più o meno, ce ne sono anche in Danimarca o in Olanda.
ragazzi che vivono nell’inedia
I giovani Neet nel nostro paese sono figli di una crisi specifica, quella che interessa l’Italia da almeno trent’anni. Come dimostra il fatto che già prima della lunga crisi recessiva i Neet in Italia si distinguevano sia per numero assoluto sia per durata del periodo di inedia. Se in Norvegia il periodo Neet nel 2008 durava in media appena sessanta giorni, in Italia si allungava a 42 mesi: il 16% dei giovani costretti a poco meno di quattro anni di totale inattività. E tutto questo prima della crisi globale. Oggi i numeri che fotografano la situazione variano. Secondo il rapporto Noi Italia del nostro Istituto Nazionale di Statistica, in questo momento i Neet italiani sono 2,5 milioni, pari al 26% della popolazione giovanile. Ma quelle fornite da diversi istituti di ricerca sono statistiche che si differenziano per scarti tutto sommato piccoli. In ogni caso, qualunque sia il loro numero, restano i problemi a essi associati: quale sarà il loro futuro? E quale sarà il futuro dell’Italia con così tanti Neet?
A queste domande ha cercato di rispondere il gruppo di giovani ricercatori napoletani concedendo molte pagine della loro rivista, Futuri, a un vero esperto, Alessandro Rosina, nell’ambito di un numero monografico dedicato alla Rivoluzione demografica. Non è un caso che questi giovani ricercatori si interroghino sul futuro dei Neet. Perché, sostiene Alessandro Rosina, che è autore di un libro, Neet. Giovani che non studiano e non lavorano, pubblicato di recente, che propone il quadro più aggiornato sulla condizione di questi ragazzi, l’unica novità che negli ultimi anni è intervenuta in Italia rispetto ai Neet è che finalmente è aumentata la consapevolezza della loro esistenza.
L’acronimo Neet è stato coniato in Gran Bretagna piuttosto di recente, nel 1999, quando la Social Exclusion Unit – l’equivalente della Commissione d’Indagine sull’Esclusione Sociale in Italia – verificò la forte incidenza tra i giovanissimi inglesi di Not in Employment, Education or Training: di ragazzi che non lavoravano, non andavano a scuola o all’università e non si formavano in alcun modo. Vivevano nell’inedia. Ben presto ci si accorse che ragazzi in queste condizioni erano diffusi in tutto il mondo occidentale e, sia pure in forme affatto diverse, anche nei Paesi a economia emergente e in via di sviluppo. Si trattava (si tratta) di un fenomeno globale.
perché i Neet?
Non è semplice rispondere a questa domanda. Intanto perché, non bisogna mai dimenticarlo, ogni ragazzo è un caso a sé. Ha la sua individualità, la sua psicologia, la sua volontà, la sua libertà. Tuttavia la condizione di un ragazzo-individuo è frutto di una serie di concause esterne. I sociologi individuano tre tipologie di fattori che la determinano: micro (l’individualità del ragazzo, appunto, ma anche l’ambiente familiare), meso (l’ambiente scolastico) e macro (l’economia, la società).
Non c’è dubbio che le prime due tipologie di fattori sono di estrema importanza. Un ragazzo tende a chiudersi nell’inedia anche perché ha difficoltà di relazioni, scarsa autostima, scarsa volontà o perché vive in un ambiente familiare poco stimolante. Spesso perché non trova stimoli e integrazione neppure a scuola. Ma, poiché stiamo parlando di grandi numeri, focalizziamo qui l’attenzione sui fattori economici e sociali più generali.
la generazione della «non speranza» e quella dei «senza fiducia»
Lo ha dimostrato già qualche anno fa Anne Sonnet, un’esperta arruolata dall’Ocse, che ha studiato la «Japanese Economic Crisis» degli anni ’90 del secolo scorso: la generazione Neet nasce in Giappone con la recessione economica, l’aumento della disoccupazione e il reddito delle famiglie divenuto improvvisamente basso. L’economia frenata produce l’effetto del «lavoratore scoraggiato»: con minori prospettive di lavoro i giovani perdono ogni motivazione sia a cercarlo sia a studiare per raggiungere un’elevata qualificazione personale. Il che fornisce una spiegazione possibile al fatto che oggi in Italia i giovani Neet siano, in percentuale, il doppio che nel Nord d’Italia. In questi ultimi otto anni la recessione nel Mezzogiorno è stata più marcata, la disoccupazione è ormai dilagante, la fuga dalle università un fatto accertato.
Dunque ha ragione il giapponese Yuji Genda quando definisce la Neet come la generazione della «non speranza».
E tuttavia non bastano i dati macroeconomici e i drammi del lavoro a spiegare come nasce un Neet. Secondo la psicoterapeuta María Eugenia Patlán una migliore definizione della generazione Neet è quella dei «senza fiducia»: nelle istituzioni, nella società, nelle ideologie, nella famiglia. Un ragazzo Neet spesso non ha fiducia in niente e nessuno.
Ma anche in questo caso non bisogna generalizzare. In Spagna, per esempio, la generazione Neet è aumentata non in un periodo di recessione, ma durante la «decade dorada» , ovvero negli anni del boom economico: molti giovani ispanici si sarebbero abituati all’idea di poter avere tutto senza nessuno sforzo. Dunque nello spingere all’inedia ci possono essere altri due fattori: i messaggi che vengono dal mondo degli adulti (consuma il più possibile; o sei il primo o sei un perdente) e quella crisi di valori che, secondo molti, caratterizza la società dominata dal pensiero unico neoliberista.
gli effetti Neet
Sospendiamo per un attimo l’analisi delle cause e cerchiamo di verificare gli effetti della generazione Neet. Gli economisti dicono che questi giovani che né studiano né lavorano costano all’Europa l’1,2% del Prodotto interno lordo (Pil). Per l’Italia il costo sale al 2%. Sono calcoli che, spiega Alessandro Rosina, tengono conto dei minori introiti fiscali, dei maggiori costi per il welfare e del malessere sociale. Ma sarebbe davvero riduttivo limitare l’analisi degli effetti della generazione Neet al mero conto economico. I danni di gran lunga maggiori riguardano la condizione, psicologica e sociale, di questi ragazzi, costretti all’inedia. Un danno che avrà riverberi anche sul futuro, loro e dell’intera società.
Uno degli effetti sociali più vistosi riguarda la ritardata uscita di casa dalle famiglie di origine. Ormai in Italia i ragazzi lasciano la casa nativa – perché «senza speranza» e/o «senza fiducia» e/o per comodità – quando sono già adulti: intorno ai 30 anni. Ben cinque anni dopo i ragazzi dei maggiori Paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito) e dei Paesi scandinavi, dove si lascia la casa dei genitori intorno ai 25 anni.
In questa situazione i giovani italiani formano famiglia più tardi, contribuendo in maniera decisiva alla diminuzione della natalità nel nostro Paese. Attenzione, dice Alessandro Rosina, perché la bassa natalità non è un desiderio dei giovani: non è una libera scelta, ma una condizione. Se infatti chiedi a un ventenne quale sia la loro famiglia ideale, rispondono che è composta da 2,1 figli. Ma se chiedete loro: tu quanti figli pensi di avere, rispondono 1,6 le donne e 1,5 gli uomini. Una piccola differenza tra i generi su cui incide la percezione maggiore che sembrano avere i maschi del rischio di disoccupazione.
Dunque la scarsa natalità è (anche) un effetto, indesiderato, della condizione giovanile. Ma generazione è un termine che indica attività, produzione, creazione. Quella dei giovani che non lavorano, non studiano non si formano è il contrario di una generazione. È una «non generazione». Una genera- zione che rischia di andare perduta. Quindi ai costi pagati della generazione Neet cui abbiamo appena accennato occorre aggiungere quello che, forse, è il principale: il rischio emarginazione. Questi ragazzi rischiano di percepirsi e di essere percepiti come «estranei» e di esserlo per l’intera vita. Di diventare, appunto una «generazione mancata».
crisi del welfare
Ciò detto ritorniamo alle cause, in vista di un insieme di possibili rimedi. A tutti i fattori finora indicati – condizioni di precarietà oggettiva, «non speranza», «non fiducia», crisi dei valori – occorre aggiungere la crisi del welfare state. Dello stato assistenziale. Lo Stato che interviene per ridistribuire la ricchezza, ridurre l’emarginazione, aumentare l’inclusione, assicurare i diritti essenziali.
Tempo fa Angela Merkel poteva a giusta ragione cantare le odi dell’Europa: abbiamo – diceva la signora che guida la Germania – il 7% della popolazione mondiale, produciamo il 25% del reddito e mettiamo a disposizione dei nostri cittadini il 40% del welfare planetario.
Ebbene, non solo l’Europa sta riducendo la quantità di risorse che mette a disposizione del welfare, ma queste risorse calanti non vanno a beneficio dei giovani. Certo questa mancanza di attenzione riguarda più l’Italia che la Germania. E tuttavia è un problema generale. Tra i tanti punti di crisi dell’Europa c’è anche quello che indica Alessandro Rosina: pensiamo «troppo individualmente per i figli e troppo poco collettivamente per le nuove generazioni».
Ora che stiamo finalmente acquisendo consapevolezza della presenza della generazione Neet, è da qui che dobbiamo partire: ripensare e rafforzare il welfare affinché gli attuali giovani diventino una generazione e siano messi in grado di costruire il loro futuro.
Come se ne esce. Agendo in due modi. Da un lato mettendo in atto politiche in grado di indirizzare o al lavoro o allo studio i Neet. Dall’altro facendo in modo che altri ragazzi non entrino in questa condizione di inedia.
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* Pietro Greco su Rocca n. 16-17 agosto/settembre 2016



Sabato 30 luglio 2016

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Il Patto è servito

pigliaru si fa cdaricodi Vito Biolchini, su vitobiolchini.it
Il Patto per la Sardegna firmato a Sassari da Matteo Renzi e Francesco Pigliaru non è né quell’atto “storico” evocato dal rettore dell’Università di Sassari Massimo Carpinelli né quell’”imbroglio” di cui parla l’ex presidente della Regione Ugo Cappellacci. Probabilmente è un buon risultato per l’isola, perché un miliardo e mezzo di risorse aggiuntive (il resto sono fondi ordinari che sarebbero arrivati comunque, a prescindere dai due presidenti) di questi tempi non sono da buttare via.

Dato atto a Pigliaru il merito di questo successo (uno dei pochi di questi suoi primi due anni e mezzo di governo) e preso e portato a casa questo miliardo e mezzo, si tratta di capire come verrà investito:

Salviamo i bambini

imagesedia di VannitolaLe vicenda della bambina “dimenticata” in macchina dalla madre rappresenta un aspetto non marginale per comprendere che società “civile” ci siamo realizzati attorno. Siamo soltanto dei produttori di lavoro e dei consumatori ai quali vendere i prodotti. Siamo sempre meno individui, persone con bisogni, con sentimenti, con diritti naturali inalienabili. Persone che meritano di vivere una vita in condizioni dignitose e gratificanti per la nostra stessa natura umana. Le donne sono costrette a lavorare durante la gravidanza (quando non vengono discriminate o allontanate dal lavoro per questa loro condizione). Le donne devono tornare a lavorare immediatamente dopo il parto pur non essendoci servizi sociali adeguati a sostenere la cura dei bambini. Al mattino è facile vedere in città bambini anche molto piccoli, ancora assonnati, sballottati da una parte all’altra, in cerca di “parcheggio” da genitori pressati dall’esigenza di raggiungere rapidamente il posto di lavoro. E i luoghi di “parcheggio”, mancando quasi totalmente i servizi sociali, sono solitamente le case dei nonni (quando possibile) e, raramente, asili nido o servizi analoghi. Poi tutti a piangere sul calo delle nascite e sulle conseguenza negative che si riversano su giovani vite necessariamente “trascurate” nella fase più importante e delicata della propria esistenza, quale è la primissima infanzia. Pubblichiamo una riflessione dell’amica Claudia Crabuzza che condividiamo interamente. (V. T)
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L’incidente capitato pochi giorni fa, di nuovo, a una mamma che è andata a lavorare dimenticando la bimba di un anno e mezzo in auto, è spiegabile molto semplicemente. Non c’è nulla di misterioso né di raro. È una tragica evidenza di come la vita che abbiamo costruito e che inseguiamo e che insegniamo sia del tutto sbagliata. Da ripensare completamente.
Bisogna avere il coraggio di dire che non è giusto trovarsi a correre subito dopo la nascita di un figlio, per non perdere il lavoro o per paura di trovarsi scavalcate, o lasciate indietro. Non è un paese civile questo che non offre altra scelta che mettere un bambino di pochi mesi al nido per tutta la giornata. Bisogna pretendere che questo non sia necessario.
Ma bisogna anche smuovere profondamente la nostra coscienza di donne, bisogna che smettiamo di raccontarci che partorire e tornare al lavoro nel giro di pochi mesi sia giusto e necessario. Conosco molte donne e amiche che l’hanno fatto, sostenute da una cultura comune che dice che non ci sia niente di sbagliato, pure obbligate da condizioni che non prevedono alternative. Hanno rinunciato ad allattare perché tornando al lavoro sarebbe impossibile, e ancora molti pediatri sostengono che non cambia nulla, anzi forse è meglio il latte artificiale, è più completo, dicono.
Quando si ha un figlio invece l’unica cosa che si deve fare è andare al suo ritmo, fare in modo che altri si occupino di questioni meno importanti, come la casa e la spesa. Recuperare la forma e le forze col tempo che ci vuole, e spesso non è una cosa rapida perché un bambino magari non dorme di notte e ti sembra di impazzire, o perché i tuoi ormoni non vogliono rimettersi in ordine e la stanchezza non passa. Bisogna lasciare che il piccolo inizi a mangiare quando ha il desiderio di farlo, lasciandogli a disposizione il seno materno per tutto il tempo che gli serve.
L’idea che le donne debbano disporre del proprio corpo è valida sino a che un bambino non arriva ed impone il suo di corpo e di bisogno. Certo, ogni madre può scegliere quanto dare, ma è la percezione che non cambi nulla che è sbagliata. Dovrebbe fare le proprie scelte, ogni donna, valutando quale sia la soluzione più adatta a se stessa, però mantenendo la consapevolezza di quanto sta togliendo al proprio figlio.

Un bambino di un anno e mezzo, per come la vedo io, dovrebbe stare ancora a casa con sua mamma. Sopratutto sinché la mamma non si sente completamente pronta.
La mia non è una critica a quella madre, che avrà già dolore a sufficienza per il resto dei suoi giorni anche con tutta la mia comprensione, né alle donne che non hanno tenuto con sé i figli per almeno due o tre anni. La mia è una critica al sistema sociale che non protegge chi fa alla società il dono più grande, i propri figli. Mentre in molti paesi europei non solo la maternità è coperta sino a tre anni e le facilitazioni sono numerose e permettono di lavorare un numero di ore adatto a chi ha messo al mondo dei bambini, ma il proprio valore lavorativo non viene messo in discussione dalla quantità di assenza dal posto di lavoro.
La mia è una critica alla cultura imperante che trasforma i bambini in un ingranaggio del mercato da quando nascono, sotto il segno della fretta, in nome di una malintesa libertà femminile che non rende libere ma semmai schiave. Perché togliere attenzione e tempo al momento in cui si costruiscono le fondamenta dell’esistenza dei bambini significa crescere ragazzi meno stabili, più bisognosi quando invece dovrebbero diventare indipendenti, prolungando all’infinito il momento dell’emancipazione dalla madre e della madre dai figli. Senza contare il danno emotivo e di salute nell’accorciare il tempo dell’allattamento, o non cominciarlo nemmeno.

Basterebbe guardare agli animali per tornare a una visione più umana e più compatibile con le nostre possibilità. Siamo animali, siamo fragili, non possiamo fare finta di essere altro. Di certo non siamo macchine, e non lo sono i bambini.

SAVE THE CHILDREN

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13 «Punti Luce» contro la povertà educativa

di Fiorella Farinelli, su Rocca*

Marta, 15 anni, racconta felice della gita scolastica a Trento, «non avevo mai visto niente fuori da Bari». Anche perché andarci non era scontato. Da quando il padre non ha più il suo lavoro e si arrangia come può raccogliendo rottami – «se va bene, sono tra 20 e 30 Euro al giorno, e come si fa con moglie e tre figli?» – anche una visita d’istruzione da pochi soldi può essere troppo. Come la scuola di musica, il corso di inglese, lo sport, il cinema, un libro. Serviva che qualcuno capisse che anche un piccolo viaggio con i compagni di scuola può far sentire un po’ più uguali, e magari scatenare immagini e speranze di un futuro migliore. «Voglio fare lo chef, non importa dove, basta che lavoro, che riesco a fare bene e da sola». – segue -

NO!

No a Gonnesa 29 7 16

Venerdì 29 luglio 2016

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LasciateCIEntrare

Accogliere: la vera emergenza
LasciateCIEntrare

Sarà presentato sabato 30 luglio a Cagliari il rapporto nazionale della campagna LasciateCIEntrare sull’accoglienza dei migranti sul territorio nazionale. La rete di associazioni e attivisti, sostenuta anche dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana e da Usigrai, pubblica ogni anno un rapporto con tutte le relazioni sui centri di accoglienza e di detenzione degli stranieri presenti sul territorio nazionale.

Tra il 10 gennaio e il 3 dicembre 2015 gli attivisti hanno visitato 80 strutture quali Cie, Cara, Cas, Hub, tendopoli e punti informali, 15 le visite negate.

L’appuntamento è sabato 30 luglio alle 18:00 nella sala A dell’Hostel Marina a Cagliari,scalette San Sepolcro. Intervengono: Yasmine Accardo, referente dei territori di LasciateCIEntrare, Francesca Cadeddu, operatrice legale per i minori stranieri non accompagnati, Giacomo Dessì del Presidio Piazzale Trento di Cagliari. Modera il dibattito Roberto Loddo, direttore de il Manifesto sardo.

Nel corso della tavola rotonda gli attivisti sardi di LasciateCIEntrare racconteranno quanto osservato nel mese di giugno nei Centri di Accoglienza Straordinaria del nord Sardegna in occasione delle visite per la giornata mondiale del rifugiato.
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Domani a Gonnesa per il NO!

No a Gonnesa 29 7 16
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democraziaoggi loghetto- I pasdaran del SI’ rinculano… ora invitano alla lettura. Amsicora su Democraziaoggi.