Monthly Archives: febbraio 2017

Oggi domenica 19 febbraio 2017

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democraziaoggiCanfora: la schiavitù del capitale e la molla della fratellanza
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.

Rantantira casteddaia

Ratantira casteddaia

Ratantira casteddaiacarnevale 18 feb 2017

Il percorso verso le elezioni regionali sarde è ancora lungo. Come impiegare bene il tempo, da qui ad allora.

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di Antonio Dessì

Mentre il decorso del tempo ci avvicina rapidamente alle elezioni politiche generali, che, anticipate o meno, avverranno entro gli inizi della primavera del 2018, la politica sarda sembra aver cominciato i movimenti in vista delle prossime elezioni regionali, che però si terranno nel 2019.
La data della consultazione regionale è abbastanza lontana, a dire il vero e alcuni movimenti sono stati anticipati dai rumors di possibili dimissioni del Presidente della Regione, recentemente e, credo, definitivamente smentiti.
La XV legislatura regionale scorrerà, immagino, fino alla scadenza naturale: salute -sul piano personale, con sincerità, auspicabilmente- permettendo, carattere, orgoglio e senso di responsabilità di Francesco Pigliaru non mi hanno mai indotto a ritenerlo persona che getti facilmente la spugna.
Non prevedo tuttavia che conosceremo particolari colpi d’ala dell’esperienza in corso: il combustibile politico e programmatico, ma prima ancora l’humus culturale del centrosinistra-sovranista non era particolarmente innovativo in partenza e mi pare ormai francamente esausto.
Si può inoltre prevedere abbastanza facilmente che influiranno sulla politica sarda le vicende italiane: le dinamiche del PD, in particolare, non potranno non avere riflessi sulla maggiore forza politica della coalizione e quelle dinamiche sono strettamente collegate alle prospettive elettorali italiane, dal cui risultato a sua volta dipenderà il quadro politico di fine legislatura alla Regione.
Direi che specularmente il discorso può estendersi allo schieramento istituzionale di opposizione, quello di centro-destra.
Non è pertanto neppure da prevedersi a breve una modifica della contestatissima legge elettorale regionale: le forze politiche rappresentate nell’Assemblea legislativa la modificheranno soltanto quando sarà chiara l’articolazione dei soggetti in campo a ridosso delle elezioni. La legge vigente sarà modificata, per quanto riguarda premi e sbarramenti, a seconda di questa articolazione e dei possibili, eventuali “patti di sindacato”.
Viene da chiedersi se valga la pena -da parte di chi lo sta facendo- di avviare processi preelettorali così anticipatamente e, da parte di chi li osserva, di commentarli.
Se tuttavia, nel contesto di impotenza della politica e delle istituzioni regionali (non di recente né di meramente autoctona origine) a modificare le condizioni economiche e sociali della Sardegna, la politica stessa si avventurasse sull’unico campo che è di suo pieno dominio, quello delle riforme “istituzionali”, ecco, allora sì che varrebbe la pena di esercitare una vigilanza attenta, anzitutto da parte di chi ha sostenuto la campagna referendaria contro la revisione costituzionale e in specie di chi intende proseguirla in chiave di attuazione e sviluppo del progetto costituzionale.
Mentre non ritengo realistico l’avvio di una rinegoziazione dello Statuto speciale (non ve ne sono minimamente le condizioni interne sarde, nè se ne intravvedono le condizioni parlamentari), resterebbe infatti nella disponibilità regionale la partita interna, quella della cosiddetta “legge statutaria”, concernente, oltre alla materia elettorale, la forma di governo, l’organizzazione della Regione (e dell’ordinamento autonomistico complessivo) e le forme di partecipazione popolare ai processi istituzionali.
A parte il tema elettorale, altre contingenze potrebbero stimolare la politica sarda in questa direzione: in primo luogo la necessità di rivedere lo scombinato assetto delle autonomie locali, prodotto dalla cosiddetta riforma dell’anno scorso, alla luce del risultato referendario che ha confermato le Province tra le articolazioni territoriali della Repubblica.
Credo che sarebbe una distrazione imperdonabile, per quanti continuano a agire al di fuori dell’oligarchia partitica rappresentata in Consiglio, lasciar correre come routinaria qualunque discussione e decisione si sviluppassero eventualmente in sede istituzionale sui temi ordinamentali.
Ogni ipotesi di rifondazione della soggettività istituzionale della Sardegna (uso questo concetto ampio per non perdermi nelle differenziazioni ideali e progettuali che attraversano un campo di opinione e di formazioni d’ispirazione autonomista, sovranista, federalista, indipendentista) secondo me ha infatti come precondizione l’impronta che si vuol dare a quella seppur limitata forma di autogoverno della quale il quadro costituzionale e statutario, nella loro contingente materialità, ci consentono di disporre.
Le questioni da riassumere sono abbastanza note e, se devo immediatamente muovere una critica (mi piacerebbe fosse presa, almeno in questa sede, come mossa da sincero intento costruttivo), alle varie elaborazioni che leggo anche in queste settimane su giornali e social, è una critica alla confusione e alla reticenza proprio su tali questioni.
Recentemente ne ho sollevato una, senza la cui chiara definizione è difficile anche elaborare principi per una proposta di legge elettorale. Si resta nell’opzione di governo presidenzialista, oppure si riesamina la prospettiva di una forma di governo a fondamento parlamentare?
Non è cosa da poco. La forma di governo presidenziale, infatti, costituisce un confine materiale che limita , per esempio, una strutturazione proporzionalista della rappresentanza, postulando la presenza di un premio di maggioranza.
Solleverò in questa sede una questione ordinamentale di ancor maggiore portata.
La Regione che vorremmo (e in nuce la forma di soggettività eventualmente autonoma, distinta, federata o indipendente) che in molti diciamo di indicare come prospettiva, deve avere una struttura centralista, o deve connotarsi come un ordinamento nel quale il potere e le funzioni sono distribuiti fra tutte le articolazioni nelle quali si esprime la sovranità popolare?
Il tema del riassetto delle province, in particolare, torna ad essere cruciale. Perchè da questo dipende largamente la forma della Regione.
Lo Statuto indica programmaticamente, fin dall’origine (art. 44), che la Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole agli enti locali o valendosi dei loro uffici. La formula è abbastanza antiquata, ma non esclude affatto che anzichè di delega si possa parlare, in legge statutaria, di trasferimento o di attribuzione.
Sappiamo che uno dei maggiori tradimenti del programma statutario è consistito invece proprio nella realizzazione di una Regione centralistica (una brutta copia dello Stato italiano), con un apparato politico e burocratico ipertrofico, verticistico, rigido, lento, non trasparente.
Una tendenza che negli ultimi dieci anni almeno, anzichè invertirsi, si è accentuata.
Vogliamo uscire dal generico e avanzare una proposta radicalmente riformista?
La proposta non può che essere la devoluzione pressochè totale della funzione amministrativa a Province, Città metropolitana e Comuni, accompagnata dal più ampio potere regolamentare, dalle risorse e dal personale occorrenti, che andrebbero corrispondentemente loro trasferiti dalla Regione. Questo presupporrebbe una ridefinizione delle circoscrizioni provinciali e un ritorno pieno alla loro elettività, nonchè una ridistribuzione delle funzioni normativa e amministrativa tale da non ingenerare una gerarchia fra enti intermedi e comuni, ma una cooperazione intersistemica e intersoggettiva orizzontale.
Alla Regione cosa resterebbe?
Intanto resterebbe la funzione di relazione bilaterale, intersoggettiva con lo Stato nell’ambito dell’ordinamento europeo e di quello della Repubblica.
Non è questa la sede per approfondire i contorni di questo amplissimo ambito relazionale. Basti dire, per comprenderne l’ampiezza, che vi rientrano questioni come la partecipazione alle decisioni governative (il Presidente della Regione in Consiglio dei Ministri, il potere della Regione di chiedere la sospensione con decreto legge dei provvedimenti statali lesivi dei propri interessi, la rappresentanza diretta della Regione nelle sedi di elaborazione dei trattati commerciali che incidano sugli scambi di interesse regionale), già oggi contemplate dallo Statuto, ma del tutto ignorate.
Vi rientrano, ancora, il potere di iniziativa legislativa nazionale costituzionale, statutaria, legislativa esercitabile dal Consiglio regionale, unitamente alla facoltà di rivolgere al Parlamento ordini del giorno chiedendone la discussione.
Vi rientrano il concorso con lo Stato per la predisposizione del Piano organico (di rinascita: si, è una terminologia antiquata, ma sempre restano i concetti di piano organico, di concorso, di solidarietà e di aggiuntività delle risorse), nonchè tutta la questione della definizione della partita delle entrate tributarie e dei poteri in materia fiscale, ordinaria e di vantaggio (zona franca).
Insomma, per una Regione che ambisse a “farsi Stato”, ce ne sarebbe d’avanzo, purchè liberata dalla sua compulsione bipolare a farsi invece ora grande e unico Comune, ora Prefettura periferica dell’amministrazione governativa centrale.
Resterebbero poi la potestà legislativa, quella di programmazione e quella di bilancio. Una ridefinizione dei compiti fra soggetti dell’ordinamento avrebbe ripercussioni dirette sulla rispettiva organizzazione, ma anche sulle rispettive competenze in materia di gestione delle risorse.
E’ chiaro anzitutto che una Regione a dimensione e prospettiva “statuale” dovrebbe avere una fisionomia estremamente concentrata sulle funzioni strategiche, che però si “ridurrebbero” alla promozione dello sviluppo economico e dell’occupazione, alla tutela ambientale e paesaggistica, alla pianificazione territoriale, al finanziamento e coordinamento del welfare (istruzione, formazione, sanità, interventi per superare gli squilibri sociali e le povertà).
Il che comporterebbe una struttura politico-amministrativa estremamente ridotta, altamente qualificata, non burocratica: immaginiamoci cinque-sei dicasteri regionali e due o tre agenzie in luogo dei dodici assessorati e della pletora di enti e agenzie attuali.
L’altra conseguenza si avrebbe sulla finanza e sul bilancio regionale. E’ vero che l’articolo 8 e seguenti dello Statuto attribuiscono le entrate erariali alla Regione, non a Province e Comuni, le cui fonti di finanziamento sono tuttora rimesse prevalentemente alle leggi dello Stato (con le conseguenze, in termini di restrizioni, che abbiamo progressivamente conosciuto e alle quali sopperisce solo in parte la Regione). Ma questo non toglie che la funzione della Regione sia quella di restituire le risorse al sistema economico e sociale dal quale sono prelevate. Insomma sono “sue”, le entrate, ma pur sempre in nome e per conto dei contribuenti sardi.
L’idea che mi son fatto è che il bilancio regionale dovrebbe essere riarticolato in sole quattro grandi voci: interventi strategici in economia (piccola e media impresa, agricoltura e zootecnia, attrazione, innovazione e ricerca), welfare (sanità, istruzione e politiche sociali a coordinamento regionale), reti di infrastrutture materiali e immateriali di livello regionale, finanziamento del sistema degli enti locali. Stop.
Non paia operazione concettuale di poco conto.
Una ristrutturazione strategica di tal fatta è la sola che potrebbe consentire, per esempio, di valutare la praticabilità di una misura di redistribuzione (che, ripeto, si configurerebbe pur sempre come una restituzione) delle entrate regionali in una forma non marginale, ma estesa di reddito di cittadinanza.
Mi vado sempre più convincendo che si tratterebbe di una misura utile non solo ai tradizionali fini sociali, di contrasto alla povertà, bensì anche ai fini economici, di rilancio dei consumi come stimolo all’economia e, ai fini territoriali, come contributo a invertire lo spopolamento dei centri interni e minori.
Tuttavia questo davvero comporterebbe una drastica rivisitazione e riconversione della finanza regionale. Chi ha avuto pratica non meramente contabile della materia finanziaria sa che ogni voce, ogni capitolo, ogni comma delle leggi di bilancio e di spesa afferisce a interessi di categorie sociali e di singoli e che questo ne implica una rigidità superabile solo in diretta conseguenza di grandi scelte politiche riformatrici dichiarate, trasparenti, democraticamente condivise, pena una resistenza corporativa o assistenzialistica che non consentirebbe alcuna modifica razionalizzatrice e ridistributiva.
A conclusione del lungo (eppure ancora sintetico) ragionamento, quello che voglio dire è che difficilmente la legislatura in corso affronterà con questo respiro, pur avendone tutti i poteri, le questioni in campo.
Ma se soggetti e movimenti i quali si stanno già predisponendo per contendere all’establishment la rappresentanza e il governo alla Regione non si porranno fin d’ora, anche da una collocazione esterna all’attuale rappresentanza istituzionale, all’altezza di questa sfida, e si avviassero a presentarsi come meri cartelli elettorali, più o meno verniciati di ideologie e più o meno caratterizzati dall’ennesima corsa al “posto al sole” di individui, di gruppi, di sigle, l’interesse, anche elettorale, dei sardi verso di loro, ad onta di ogni velleità, non sarà più alto di quello che progressivamente va scemando nei confronti della politica in generale e concetti quali autonomia, specialità, sovranismo, federalismo, indipendentismo appariranno sempre più vuoti, perfino strumentali e alla fin fine tali da suscitare, più che disinteresse, addirittura ripulsa.

Punta de billete. “Voucher: la frontiera del precariato”

Lavoro?Il Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria organizza il confronto pubblico dal titolo: “Voucher: la frontiera del precariato”. A Cagliari, Hostel Marina, Scalette S. Sepolcro, Venerdì 24 febbraio alle ore 17.30.
Presenta e coordina Roberto Mirasola
partecipano:
Lilli Pruna (sociologa del lavoro)
Paola Mazzeo (giudice del lavoro)
Elisabetta Perrier (segretaria Camera del lavoro)
Giacomo Meloni (segretario CSS)
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- La pagina fb dell’evento.

“Il bene comune è il principio ordinatore della Costituzione, che lo definisce come «interesse della collettività» (art. 32), «interesse generale» (artt. 35, 42, 43 e 118), «utilità sociale» e «fini sociali» (art. 41), «funzione sociale» (artt. 42, 45), «utilità generale» (art. 43), «pubblico interesse» (art. 82). Espressioni non coincidenti, ma convergenti, che si integrano l’una nell’altra in una coerente architettura di valori”.

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Le culture uniscono i popoli
di Salvatore Settis

Riprendiamo da SardegnaSoprattutto il testo della Lectio magistralis di Salvatore Settis che, assente lui per malattia, è stata letta al Convegno FAI Sardegna: “Arte ponte tra culture, Mediterraneo ponte tra popoli”, svoltosi il 6 febbraio 2017 al Teatro Massimo di Cagliari.

Sono molto grato al Fai, e in particolare alla mia cara amica Maria Antonietta Mongiu, di avermi invitato a parlare in questa giornata. Quel che vorrei offrirvi oggi può esser diviso in due parti. Nella prima farò, fondandomi sulla nostra Costituzione, qualche considerazione sulla cultura come bene comune; nella seconda parlerò invece della cultura come fattore essenziale di comunicazione fra i popoli e di pace.

Parlare di cultura come bene comune vuol dire parlare di Costituzione: un tema molto importante sempre, e ancor di più oggi, dopo che lo sconsiderato tentativo di modificare il testo della nostra Carta fondamentale ha prodotto l’opposto, generando un forte movimento di opinione in favore della Costituzione. Tuttavia, parlare di cultura e Costituzione oggi vuol dire riflettere su un orizzonte di valori che è quotidianamente sotto attacco, e anzi a rischio di demolizione. Nessun Paese al mondo ha una Costituzione che affermi il diritto alla cultura con tanta forza e coerenza come fa la nostra Carta fondamentale; eppure nessun Paese in Europa ha tagliato gli investimenti pubblici in questo settore quanto l’Italia.

Permettetemi di ricordare un episodio che può parere remoto ma è ancora attuale: otto anni fa, nel giugno 2008, il neo-ministro Sandro Bondi dichiarò a Camera e Senato che «l’Italia è agli ultimi posti in Europa per la percentuale della spesa in cultura sul bilancio dello stato (0,28% contro l’8,3% di Svezia e 3% di Francia)», aggiungendo «mi impegno ad invertire questa tendenza negativa» (ANSA, 3 giugno). Meno di un mese dopo, Bondi subì senza fiatare un taglio di 1 miliardo e 300 milioni, che dimezzava il bilancio del suo ministero falcidiandone la capacità di spesa.

A colpi di decine di milioni, lo stesso ministro e i suoi infelici successori Giancarlo Galan e Lorenzo Ornaghi hanno totalizzato ulteriori tagli per centinaia di milioni; e questa tendenza è stata solo in parte corretta dall’attuale ministro Dario Franceschini; ma la sua estesa riforma “a rate” del Ministero ha creato e sta creando più problemi di quanti non ne abbia saputo risolvere, ed è oggi ancor più vero che il basso livello degli investimenti impedisce di affrontare decentemente la quotidianità e l’ordinaria amministrazione, e dunque a maggior ragione vieta di rispondere adeguatamente alle emergenze, come si vede a ogni terremoto, a ogni slavina, a ogni alluvione.

Cambiare i direttori dei grandi musei non basta, e la mancanza pressoché assoluta di turnover negli ultimi vent’anni (le colpe sono equamente divise fra centro-destra, centro-sinistra e governo “tecnico”) ha portato a un drammatico invecchiamento del personale della tutela, mentre le università continuano a produrre a getto continuo laureati in beni culturali, archeologia, storia dell’arte, votati alla disoccupazione o all’emigrazione. Il concorso in atto per l’assunzione di 500 nuovi funzionari è inadeguato a colmare l’abisso aperto da una continua emorragia (pensionamenti o dimissioni volontarie) che è quasi 10 volte più grande.

E’ su questo sfondo che, in un Paese oggi affetto da una crisi collettiva di memoria, dobbiamo ricordare a noi stessi che la cultura, secondo la Costituzione, è un bene comune. Secondo il nostro ordinamento, i valori della cultura (per esempio la tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico) non sono un tema “di nicchia”, ma appartengono a una sapiente architettura di diritti che si lega strettamente agli orizzonti fondamentali della democrazia: eguaglianza, libertà, equità sociale, dignità della persona umana. Di tali orizzonti la nostra Costituzione è il perfetto manifesto, anche se, come diceva Calamandrei, essa è davvero “la grande incompiuta”: ma questa sua perenne, feconda incompiutezza non è affatto una ragione per cambiarla, bensì per esigere che venga finalmente messa in pratica.

Corre oggi nel Paese, prendendo talvolta i colori dell’indignazione, talaltra quelli della rassegnazione e della rinuncia, una domanda, questa : è ancora possibile progettare un futuro in cui abbiano cittadinanza valori come giustizia equità democrazia libertà? In cui il cuore della politica sia non la geometria variabile delle alleanze o delle “intese”, ma la forte trama dei diritti civili? Sarà possibile, io credo, solo se sapremo ricollocare il bene comune al centro di un nuovo discorso sulla cittadinanza. E in questo discorso, come proverò ora a dire, la cultura ha un ruolo essenziale, pienamente riconosciuto dalla Costituzione.

Questo ruolo non può essere inteso senza evocare, oltre che quello di bene comune, alcuni altri concetti-chiave: popolo, cittadino, lavoro, solidarietà.

Il bene comune è il principio ordinatore della Costituzione, che lo definisce come «interesse della collettività» (art. 32), «interesse generale» (artt. 35, 42, 43 e 118), «utilità sociale» e «fini sociali» (art. 41), «funzione sociale» (artt. 42, 45), «utilità generale» (art. 43), «pubblico interesse» (art. 82). Espressioni non coincidenti, ma convergenti, che si integrano l’una nell’altra in una coerente architettura di valori.
Popolo è la parola più pregnante per designare il soggetto collettivo che è il protagonista della Costituzione: ad esso appartiene la sovranità (art. 1), e perciò in suo nome viene amministrata la giustizia (art. 101).
Al popolo come soggetto collettivo corrisponde una parola altrettanto ricca di senso, cittadino. Il cittadino è per definizione membro del popolo, e dunque titolare della sovranità. Perciò «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge», ed «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3). Ai cittadini spettano diritti inviolabili come la libertà (artt. 13, 15, 16), e in particolare la libertà di riunione (art. 17), di associazione (artt. 18 e 49), di culto (art. 19), di parola, di pensiero e di stampa (art. 21): diritti, tutti, connnessi strettamente con la libertà della cultura.
Un altro grande tema della Costituzione, il lavoro, ricorre sin dall’incisiva definizione dell’art. 1: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»; ed è al cittadino-lavoratore che l’art. 36 assicura una «esistenza libera e dignitosa». Perciò, recita l’art. 4, «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto».
Infine, i valori del bene comune e l’etica del lavoro e della cittadinanza determinano nella Costituzione i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» richiesti ai cittadini (art. 2).
Ma il cittadino-lavoratore non può essere consapevole protagonista della vita economica e sociale del Paese senza un ingrediente essenziale: il diritto alla cultura. Mirata al bene comune è infatti anche la centralità della cultura scolpita nell’art. 9, «il piú originale della nostra Costituzione» (Ciampi): «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Cultura, ricerca, tutela contribuiscono al «progresso spirituale della società» (art. 4) e allo sviluppo della personalità individuale (art. 3), legandosi strettamente alla libertà di pensiero (art. 21) e di insegnamento ed esercizio delle arti (art. 33), all’autonomia delle università, alla centralità della scuola pubblica statale, al diritto allo studio (art. 34).

Inoltre la Corte costituzionale, ragionando sulla convergenza fra tutela del paesaggio (art. 9) e diritto alla salute (art. 32) ha stabilito che anche la tutela dell’ambiente è un «valore costituzionale primario e assoluto» in quanto espressione di un interesse diffuso dei cittadini, che esige un identico livello di tutela in tutta Italia, come mostra nell’art. 9 il cruciale termine Nazione.

La creazione in via interpretativa di questa avanzatissima nozione costituzionale di “ambiente” è la prova provata, se ce ne fosse mai bisogno, di quanto la Costituzione sia lungimirante; e che essa, dunque, non va cambiata, ma interpretata e soprattutto applicata. Ora, secondo la nostra Costituzione il diritto al lavoro e la dignità della persona si legano alla stessa concezione secondo cui ambiente, paesaggio, beni culturali formano un insieme unitario e inscindibile la cui estensione corrisponde al territorio nazionale; fanno tutt’uno con la cultura, l’arte, la scuola, l’università e la ricerca.

Con esse, concorrono in misura determinante al principio di uguaglianza fra i cittadini, alla loro «pari dignità sociale» (art. 3), alla libertà e alla democrazia: perciò la loro funzione è costituzionalmente garantita. Il noto adagio di Calamandrei («La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale“») può perciò applicarsi anche alle altre istituzioni culturali, dalle università alle accademie ai musei ai teatri, agli enti di ricerca.

Questi principi costituzionali configurano quel che si può chiamare a buon diritto il diritto alla cultura che la Costituzione italiana, caso rarissimo nel panorama mondiale delle Costituzioni, assicura ai propri cittadini. La cultura fa parte dello stesso identico orizzonte di valori costituzionali che include il diritto al lavoro, la tutela della salute, la libertà personale, la democrazia. Perciò dobbiamo, è vero, rilanciare l’etica della cittadinanza, puntando su mete necessarie come giustizia sociale, tutela dell’ambiente, diritto al lavoro, priorità del bene comune sul profitto del singolo, democrazia, uguaglianza. Ma perché queste mete siano praticabili e concrete è altrettanto necessaria la piena centralità della cultura.

Se concepiamo la cultura come il cuore e il lievito dei diritti costituzionali della persona e insieme il legante della comunità, capiremo che essa è funzionale alla libertà, alla democrazia, all’eguaglianza, alla dignità della persona. Che difendere il diritto alla cultura è difendere l’intero orizzonte dei nostri diritti: perché i diritti, se non li difendi, li perdi. Ma se non li conosci, non saprai difenderli. La funzione della cultura è anche questa: farci conoscere i nostri diritti, lo spessore storico, filosofico, etico, religioso dal quale essi provengono. Il futuro che ci permettono di costruire, e per converso il buio in cui precipiteremo se rinuceremo a difenderli.

Anche questo è il compito di chi pratica le scienze storiche: ricordarsi e ricordare che la storia non è evasione, non è una via di fuga dal presente, una sorta di tranquillante che ci allontana dalle urgenze dell’oggi. Al contrario, la storia può aiutarci a interpretare le radici delle nostre urgenze e dei nostri problemi: per dar corpo e ragione ai nostri disagi.

Secondo un detto famoso, «la storia è maestra della vita». Ma proviamo a capovolgerlo, quel detto: possiamo dire infatti, a ragion veduta, che la vita è maestra della storia: sono le urgenze del presente che ci spingono a rileggere le vicende del passato non come mero accumulo di dati eruditi, non come polveroso archivio, ma come memoria vivente delle comunità umane.

Solo questa concezione degli studi storici può trasformare la consapevolezza del passato in lievito per il presente, in serbatoio di energie e di idee per costruire il futuro. E’ infatti dovere, anzi mestiere, degli storici coltivare uno sguardo lungo, una visione delle cose e degli uomini che riguarda tanto il passato quanto l’avvenire, premessa necessaria per provare a costruire un futuro diverso e migliore.

La centralità della cultura nella Costituzione italiana è un buon punto di partenza per riflettere sulla funzione possibile della cultura nell’interscambio fra i popoli. L’Unione Europea, che oggi vacilla non solo e non tanto come conseguenza dell’uscita imminente della Gran Bretagna, ma di una crisi economica e politica senza fine, deve la propria debolezza non – come spesso si dice, al fatto di non essersi ancora tradotta in un comune esercito e in un’unione politica più forte, ma al fatto di essere stata concepita sin dall’inizio come una progressiva fusione di economie, non di culture.

L’idea da cui si partì all’altezza dei Trattati (in particolare quelli di Maastricht e di Lisbona) fu che, una volta assicurata una solida unione economica, tutti gli altri aspetti ne sarebbero seguiri per naturale evoluzione. Non è stato affatto così, e continua a mancare in Europa una riflessione istituzionale adeguata su un assetto di valori fondamentali che possa servira da legante ai Paesi della comunità, diversissimi l’uno dall’altro per lingua, compagine sociale e tradizioni culturali, eppure unificati non solo dalla geografia, ma dalla storia.

Ma questo discorso va allargato ben oltre i confini dell’Europa. Il tema di questo convegno, Mediterraneo ponte tra i popoli, è oggi molto opportuno perché cade in un momento storico la cui drammaticità, dovuta alle ondate di migranti con le tragedie personali e sociali che comportano, è destinata a crescere negli anni che ci aspettano. Tendiamo oggi a vedere il Mediterraneo come un baratro che si apre tra una sponda Nord prospera e cristiana e una sponda Sud povera e mussulmana. Ma, se la vita è maestra della storia, guardiamo alla storia con lo sguardo di oggi per trarne insegnamento e ispirazione per il futuro.

Nei lunghi secoli dell’impero romano, il Mediterraneo fu mare di pace, fu un incrocio di strade più che una barriera, fu luogo di incontro e di dialogo più che di conflitto. Gli archeologi studiano oggi relitti di navi romane dove si trovano fianco a fianco ceramiche anatoliche, monete coniate in Italia, olio prodotto in Spagna: una globalizzazione ante litteram che somiglia moltissimo a quella che viviamo, e da cui dovremmo imparare (ma in quel mondo la convergenza culturale era assicurata dalla diffusione universale delle due lingue-guida, il greco e il latino, e dal dominio incontrastato della civiltà giuridica romana).

Ma anche nel Medio Evo, e proprio mentre si svolgevano le Crociate e altri scontri fra le due sponde del Mediterraneo, si svolse –non contraddicendo, ma integrando le conflittualità che pure insorgevano a ogni passo– un intenso scambio di idee, di progetti culturali, di saperi. Basti ricordare velocemente qualche punto. Fu alla corte di Bagdad, e non in Europa, che numerosissimi testi greci di filosofia, astronomia, medicina, matematica vennero sistematicamente tradotti e studiati; e anche dopo la riscoperta di molti testi nel Rinascimento ci sono ancora numerosi testi greci perduti in originale, e conservati solo in traduzione araba o siriaca.

Gli stessi “numeri arabi” che usiamo ogni giorno sono in realtà di invenzione indiana, ed entrarono in Europa, con la mediazione araba, grazie a un matematico pisano, Leonardo Fibonacci, che il padre (un mercante) aveva mandato da ragazzo a studiare in una città araba (che si trovava nell’odierna Algeria).

Ma ci sarebbe di più: uno studioso svizzero ha dimostrato che due monumenti famosissimi di Pisa, la Torre pendente e il Battistero, furono progettati sulla base di formule matematiche molto complesse, che presuppongono la conoscenza di teoremi dell’antica matematica greca, allora noti solo alla scienza araba e non in Europa: è dunque necessario presupporre un apporto arabo anche all’architettura di un’icona dell’Italia e dell’Europa come la Torre di Pisa. Un tale apporto passava attraverso i rapporti commerciali (la matematica veniva studiata prevalentemente dai mercanti, in quanto funzionale ai loro commerci), ma si traduceva in rapporti artistici e culturali.

Eppure i Pisani combatterono guerre crudeli contro gli Arabi, durante le quali conquistarono anche le Baleari trascinando a Pisa molti prigionieri fra cui una regina (poi sepolta nel Duomo anche se non cristiana). Guerra, economia e cultura sono sempre stati elementi capaci di convivere nel rapporto fra culture. L’uno non esclude l’altro.

Basti questo esempio a ricordare come la cultura possa essere un legante fra i popoli, e non qualcosa che divide. Come ha argomentato Maurizio Bettini in un piccolo e prezioso libro Contro le radici, tendiamo oggi a concepire le identità in senso atomistico ed esclusivistico. Come se l’identità di ogni individuo non dovesse presupporre la comunità di cui fa parte. Come se l’identità di un popolo potesse mai essersi formata a prescindere dai popoli con cui è stato ed è a contatto. I temi identitarii sono oggi straordinariamente importanti, ma è altrettanto importante considerare le identità non come il prodotto della razza, del sangue e del suolo, bensì come il risultato di molteplici e stratificati apporti, che per loro natura sono sempre bidirezionali.

Il concetto di “osmosi” è in questo senso il più adeguato a descrivere questi processi: l’Italia, ad esempio, non sarebbe quello che è senza l’apporto delle diversissime popolazioni che ne formano l’ossatura storica, dai Greci di Sicilia e di Magna Grecia ai Celti della pianura padana, dagli Etruschi ai Sardi, dai Fenici ai Veneti. E anche le epoche di dominio straniero (francesi, aragonesi, spagnoli, austriaci…..), che pure hanno suscitato tanta opposizione e finalmente le Guerre d’indipendenza, hanno lasciato tracce considerevolissime delle diverse culture giuridiche, filosofiche, artistiche, letterarie. Questa è dunque la concezione da promuovere, interamente coerente con quella della cultura come bene comune consacrata dalla Costituzione.

Nel Mediterraneo, le isole, e in particolare le Grandi Isole (Sicilia, Sardegna e Corsica; ma anche Cipro, Creta, Baleari) hanno in questo senso una funzione ancor più evidente, perché più si prestano a fungere da crocevia tra i vari popoli. Secondo la teoria “delle quattro penisole” del mio maestro Silvio Ferri, le ondate di migrazione culturale che dall’Oriente hanno progressivamente raggiunto l’Atlantico si sarebbero sviluppate passando da una “penisola” all’altra: prima la penisola balcanica, poi l’Italia, poi (prima di arrivare alla penisola iberica) quella che Ferri chiamava, con voluta improprietà, la “terza penisola”, costituita dall’insieme di Sardegna e Corsica: vissute, egli sosteneva, come approdi e luoghi di sosta e di interscambio intermedi fra l’Italia e le coste della Francia e della Spagna.

E’ a partire da idee, nozioni e memorie come queste che dovremmo saper costruire una nuova concezione del Mediterraneo come ponte e non barriera, come strada e non muraglia, come luogo dove tendersi la mano e provare a dialogare pur non negando le diversità e i conflitti. La cultura, infatti, è l’unica moneta di scambio che non è soggetta a date di scadenza, che non conosce inflazioni e deflazioni, se solo sappiamo usarla per quel che è stata, che è, che può ancora essere.

Per finire ricordo, perché sempre attuale, il forte ammonimento di Bertolt Brecht «per la difesa della cultura» al I e al II congresso internazionale degli scrittori: «Si abbia pietà della cultura, ma prima di tutto si abbia pietà degli uomini! La cultura è salva quando sono salvi gli uomini. Non lasciamoci trascinare dall’affermazione che gli uomini esistono per la cultura, e non la cultura per gli uomini. (…) Riflettiamo sulle radici del male! (…) scendiamo sempre più in profondo, attraverso un inferno di atrocità, fino a giungere là dove una piccola parte dell’umanità ha ancorato il suo spietato dominio, sfruttando il prossimo a prezzo dell’abbandono delle leggi della convivenza umana (…), sferrando un attacco generale contro ogni forma di cultura. Ma la cultura non si può separare dal complesso dell’attività produttiva di un popolo, tanto più quando un unico assalto violento sottrae al popolo il pane e la poesia».

Sabato 18 febbraio 2017

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A-GramscidemocraziaoggiGramsci cagliaritano
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
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Le culture uniscono i popoli
di Salvatore Settis su SardegnaSoprattutto
Segnaliamo da SardegnaSoprattutto il testo della Lectio magistralis di Salvatore Settis, che è stata letta al Convegno FAI Sardegna (Arte ponte tra culture, Mediterraneo ponte tra popoli), svoltosi il 6 febbraio al Teatro Massimo di Cagliari.
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Punta de billeteFrancesco Casula a Sassari: La pagina fb dell’evento.
Casula a SS 9 3 17

E’ online il manifesto sardo duecentotrentadue

pintor il manifesto sardo
Il numero 232 del 16 febbraio 2017
Il sommario
Questa volta due SI (Marco Ligas), Comitati per cambiare lo stato delle cose presenti (Graziano Pintori), Voucher. L’ultima frontiera del precariato (Roberto Mirasola), Gli esiti nefasti della tendenza dell’uomo a non conservare nella sua memoria l’esperienza del passato (Gianfranco Sabattini), Eurallumina, fiera delle balle (Stefano Deliperi), Il sogno ingenuo della riscrittura dello Statuto Speciale Sardo (Claudia Zuncheddu), Passeggiata nuorese al tempo della crisi (Amedeo Spagnuolo), Il discorso economico del militarismo italiano in Sardegna (Andrìa Pili).

Al via l’Osservatorio dei Beni Comuni della Sardegna. Ecco il Documento base del Comitato di Cagliari

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Osservatorio beni comuni Sardegna
Documento base del Comitato di Cagliari, che sarà discusso nella prossima riunione di lunedì 20 febbraio, alle ore 17.30, nella sede della Confederazione Sindacale Sarda (CSS), che sostiene il progetto dell’Osservatorio.

L’Osservatorio dei Beni Comuni della Sardegna – che promuoviamo partendo da un piccolo gruppo, con l’ambizione di ingrossare le fila in misura consistente e in tempi rapidi - si propone di approfondire e diffondere il concetto di “beni comuni”, da individuare concretamente nelle “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona (…) che devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future” (1) e dei quali favorire la fruibilità e la gestione da parte dei cittadini attivi e organizzati in accordo con le Pubbliche amministrazioni. La categoria dei “beni comuni” è immensa, posto che comprende “i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate” (1). E l’elencazione non è affatto esauriente. Risulta pertanto necessario da parte di un Gruppo ristretto quale è il nostro, sia pure ambiziosamente destinato a crescere, selezionare il proprio campo di azione. Non facciamo però tale scelta “a priori”, decidendo invece di modellare il programma da portare avanti rispetto alle persone che formano ora e che formeranno nel tempo l’Osservatorio, articolato in diverse “sezioni” per “filoni di intervento”. Anche la dimensione territoriale, tendenzialmente riferita a tutto il territorio regionale, nella pratica riguarderà solo parziali articolazioni dello stesso. In questo quadro allo stato attuale dichiariamo che ci occuperemo immediatamente solo di “beni comuni urbani”, limitandoci a quelli che insistono nel territorio comunale di Cagliari. Almeno da qui cominciamo, poi si vedrà.
Il nostro operare sarà pertanto su due diversi ambiti:
- quello di carattere generale, per definire concettualmente i “beni comuni”, partendo dallo stato dell’arte nei diversi ambiti disciplinari;
- quello specifico, di concreto intervento sul territorio, con particolare attenzione al riuso sociale delle ex servitù militari e delle altre strutture pubbliche dismesse o in dismissione o già nella piena disponibilità delle amministrazioni pubbliche.
A noi ovviamente interessa che nella gestione di questi “beni comuni” intervengano direttamente i cittadini, nella pratica attuazione del principio costituzionale della sussidiarietà orizzontale, di cui all’art. 118, ultimo comma della Costituzione: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Detta norma, allo stato attuale largamente disattesa, riconosce ai cittadini – e dunque alle loro organizzazioni/associazioni nelle più diverse espressioni – la capacità di attivarsi autonomamente nell’interesse generale e dispone che le istituzioni debbano sostenerne le coerenti iniziative.

Unendo il generale al particolare puntiamo allora a individuare gli strumenti per praticare con tutta la possibile urgenza tali obbiettivi. Per esempio aiutando il Comune di Cagliari a dotarsi di un buon “Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni”, magari da copiare, adattandolo, dai migliori regolamenti tra quelli attualmente vigenti in più di 100 Comuni italiani, e, operativamente, per rendere concreto e tangibile il rapporto tra amministrazione e cittadini, invitando il Comune a dotarsi di un ufficio per l’amministrazione condivisa, uno “sportello unico per i cittadini attivi”, che faciliti e semplifichi al massimo il rapporto fra i cittadini che portano risorse preziose per il bene della comunità e le strutture amministrative

Non lo nascondiamo: contiamo nell’immediato di aiutare le entità dell’associazionismo socio-culturale della città (e non solo) a reperire spazi adeguati per le loro benemerite attività. Tra queste ci siamo anche noi dell’Osservatorio, allo stato ospitato nella sede della CSS, che ringraziamo per la consueta disponibilità.

Contiamo evidentemente di attivare tutte le possibili collaborazioni e, di più, di “fare integrazione” con altri soggetti che si propongono come noi la pratica della “democrazia partecipata”.
Ci collegheremo poi agli Organismi simili ai nostri a livello italiano, europeo e internazionale, a partire dal Laboratorio sulla Sussidiarietà fondato e diretto dal prof. Gregorio Arena (www.labsus.it).
In questa direzione stiamo anche lavorando per uno o più Convegni sulla tematica “Costituzione, Beni comuni e Sussidiarietà” da organizzare a Cagliari tra il mese di giugno e quello di novembre 2017, in collaborazione con il “Comitato d’iniziativa Costituzionale e Statutaria”, che veda/no la partecipazione di illustri relatori come Paolo Maddalena, Ugo Mattei, Stefano Rodotà, Gregorio Arena ed altri. Ed ancora stiamo lavorando per attivare uno stretto rapporto con i Dipartimenti e i singoli docenti dell’Università della Sardegna (Cagliari e Sassari) di diversi ambiti disciplinari, interessati alle tematiche dei “beni comuni” per iniziative di ricerca, didattica, diffusione di buone pratiche.

Buon lavoro!
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1. Proposta di articolato Commissione Rodotà – elaborazione dei principi e criteri direttivi di uno schema di disegno di legge delega al Governo per la novellazione del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile nonché di altre parti dello stesso Libro ad esso collegate per le quali si presentino simili necessità di recupero della funzione ordinante del diritto della proprietà e dei beni (14 giugno 2007).
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Cagliari OBCCONTATTI
- La pagina fb dell’Osservatorio.
- La mail dell’Osservatorio: benicomunisardegna@gmail.com

Oggi venerdì 17 febbraio 2017

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democraziaoggiPD: la segreteria regionale e nazionale giocatevela a strumpas
Amsicora su Democraziaoggi.
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Costituito l’Osservatorio Beni Comuni Saredegna

Sardegna universitaria_2Mercoledì 15 febbraio nella sede della Confederazione Sindacale Sarda, CSS, in via Roma 72, il Gruppo promotore formato dalle persone sottoindicate, ha costituito l’Osservatorio Beni Comuni della Sardegna. Si tratta di un primo nucleo che immediatamente propone a tutte le persone interessate di entrare a far parte dell’Associazione, che per ora agirà sul territorio cagliaritano, in considerazione delle forze attualmente disponibili.
Gruppo promotore Osservatorio Beni Comuni della Sardegna.
- Carmen Campus
- Gaetano Lauta
- Paolo Erasmo
- Franco Meloni
- Gianni Pisanu
- La pagina fb dell’Osservatorio.
- La mail dell’Osservatorio: benicomunisardegna@gmail.com
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IL DOCUMENTO PROGRAMMATICO
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Osservatorio beni comuni Sardegna

Documentazione. Pubblicato l’Atlante Demografico 2016 della città di Cagliari

Ca atlante demo 2016 fto aereaPubblicato sul sito comunale l’Atlante Demografico 2016 della città di Cagliari. Tutti i dati demografici aggiornati al 31 dicembre 2016.
- L’ATLANTE.

Carnasciali timpiesu

Tempio Aldo Lino

Tempio Aldo Lino
Poteva mancare Tempio? Di Aldo Lino.
- Carnevale tempiese – Carnasciali timpiesu.

“Punta de billete” per un evento importante

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Focolari. Il realismo politico di un’economia disarmata
di Carlo Cefaloni

Poli industriali, Eurallumina e dintorni Un piano straordinario per lavoro, a partire dalle bonifiche e dalla messa in sicurezza del territorio sardo, dedicato soprattutto alle giovani generazioni

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di Fernando Codonesu
Certo una riflessione a giochi ormai fatti sul progetto recentemente approvato dall’ultima Conferenza dei Servizi decisoria dell’otto marzo sul progetto di rilancio dello stabilimento sulcitano di Eurallumina, va fatta.
Detto in termini manzoniani, con riferimento voluto alla Regione nel suo complesso, possiamo dire che alla richiesta di autorizzazione del progetto della Rusal “la sciagurata rispose”, con tutto ciò che ne conseguì nel libro del grande lombardo e che ne consegue per la nostra martoriata regione, cioè per tutti noi.
Bene ha fatto Giacomo Meloni della CSS a rimarcare tutte le criticità del progetto presentato da Eurallumina-Rusal per il suo rilancio produttivo, un progetto basato dal punto di vista energetico sull’uso del carbone e sulla riproposizione della produzione di allumina, con lo stabilimento Alcoa chiuso da anni. Così come altrettanto bene hanno fatto associazioni e gruppi ambientalisti come Legambiente, il GrIg e numerosi altri che si sono pacatamente e motivatamente opposti all’autorizzazione del progetto.
Intanto va osservato che venuta meno la presenza di Alcoa nell’area, la ripresa della produzione di Eurallumina, a differenza del periodo di piena attività del polo industriale, vede ora l’operatività di un solo segmento della filiera, anzi di un singolo “punto produttivo” che non costituisce filiera per definizione, che sarà alimentato con materia prima proveniente via nave, così come avverrà via nave l’approvvigionamento del carbone, essendo venuta meno la produzione di carbone nella vicina miniera. Quindi una filiera inesistente e un rilancio produttivo che fa solo gli interessi temporanei della Rusal che a tempo debito (tre anni, forse cinque), dopo aver realizzato la centrale, confezionerà un “pacco” da mettere sul mercato rifilandolo a qualche altro operatore.
E allora riprenderà la trafila per richiedere ancora qualche intervento basato sull’assistenzialismo di industrie decotte e non in grado di stare sul mercato?
Una cosa è la protezione dei lavoratori in aree e periodi di crisi, altro è finanziare attraverso la collettività industrie esogene che nulla hanno a che vedere con le vocazioni territoriali della Sardegna, obsolete in quanto ferme da ben otto anni, inquinanti come ampiamente noto e non in grado di stare sul mercato.
Altro sarebbe stato creare un polo produttivo di riciclo dell’alluminio come suggerito dal GrIG che avrebbe avuto anche il merito di emissioni ridotte del 90% rispetto alla produzione di alluminio da minerale.
Il progetto, in sintesi, prevede la realizzazione di una caldaia di cogenerazione di energia elettrica e vapore, l’adeguamento della raffineria per utilizzare bauxiti tri-idrate come materia prima per la produzione dell’allumina e l’ampliamento del bacino dei fanghi rossi ancora sotto sequestro della magistratura, con investimenti di circa 170 milioni e un impatto occupazionale tra diretti e indotto di circa 500 lavoratori.
Siamo sicuri sia questa la via più efficace per la salvaguardia dell’occupazione e lo sviluppo del già martoriato Sulcis?
A giudicare dalla situazione di grave inquinamento ambientale, come sottolineato efficacemente da Legambiente, la risposta è totalmente negativa: si immette ulteriore inquinamento ambientale che si somma a quello esistente a fronte di profitti certi per un breve periodo per la multinazionale di turno e futuro molto incerto per i lavoratori di cui si vedrà a breve termine l’esito.

Come in tanti, troppi altri casi, è il coraggio delle scelte che manca e l’epilogo di questa vicenda ne costituisce l’ulteriore riprova.
E’ stato appurato fin dai primi anni ’90 che l’attività industriale attraverso le emissioni gassose e polverulente, gli scarichi idrici e le discariche di rifiuti ha rappresentato la principale sorgente di rischio per la popolazione residente e per la qualità dell’ambiente, al punto di aver definito un piano di disinquinamento e incluso tutta l’area nella nella perimetrazione del SIN (Sito di interesse nazionale per le bonifiche) ‘Sulcis-Iglesiente-Guspinese’ nell’anno 2003 .
E veniamo ad alcuni dati attuali sull’inquinamento ambientale che dovrebbero essere al centro dell’agenda della Regione, così come del sistema sanitario e di tutta la popolazione non solo del Sulcis, ma dell’intera Sardegna.
L’inquinamento è così diffuso che si fa fatica ad immaginare quante risorse finanziarie dovranno essere trovate per bonificare e ripristinare le zone individuate.
Trascuriamo per il momento i dati dell’inquinamento del suolo della zona industriale di Portovesme, su cui spesso sono intervenute le ordinanze di divieto del consumi di ortaggi, latte, formaggi e altro da parte del sindaco di Portoscuso, e concentriamo l’attenzione sull’inquinamento della falda acquifera. A tale riguardo, in data 27 gennaio 2013 sul quotidiano l’Unione Sarda è stato pubblicato un articolo con i dati di fonte ministeriale riportati nelle due tabelle che seguono:

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Tab. 1: Inquinamento falda acquifera superficiale area industriale Portovesme. Fonte: Ministero dell’Ambiente
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Tab. 2: Inquinamento falda acquifera profonda area industriale Portovesme. Fonte: Ministero dell’Ambiente

Non risulta che in questi anni si sia proceduto a bonifiche sistematiche dei suoli e della falda perché l’unica attività realmente operativa in capo alle poche aziende produttive dell’area consiste in interventi di “pump and treat”,ovvero niente più di un semplice monitoraggio con piezometri a diverse profondità. Per tale motivo è ragionevole supporre che la situazione non sia affatto migliorata, salvo auspicabile smentita documentata.
Si osserva che sull’inquinamento e sulle aziende alle quali addebitarne i costi e gli oneri continua ad esserci un rimpallo delle responsabilità, ovvero chi ha inquinato, da quando e fin dove: lo Stato prima, Alcoa, Eurallumina e le altre aziende dopo, per cui chi deve pagare? Anche per tali motivi il piano di disinquinamento dopo oltre vent’anni dalla sua prima stesura è ancora fermo al palo: si fa il monitoraggio, ma nessun reale passo avanti concreto verso la messa in sicurezza permanente, la bonifica, il ripristino e il riuso.
Parlare di bonifiche, con i valori su indicati, è pressoché impossibile: se si applicassero rigorosamente le norme bisognerebbe far cessare anche le poche produzioni rimaste in funzione nell’area industriale. Infatti, i valori di inquinamento sono così alti che solo con un periodo di qualche decennio di bonifiche profonde dei suoli è ipotizzabile un’azione di riconversione, riqualificazione, recupero e ripristino dell’area in esame.
E questo, purtroppo, vale anche per numerosi altri siti industriali presenti nell’isola.
E’ appunto il coraggio delle scelte che sembra mancare.
E per tornare al linguaggio manzoniano, quando si è vasi di coccio tra vasi di ferro lo si può anche capire, ma in questo caso c’è solo un vaso di ferro, Rusal, e tanti, troppi vasi di coccio che corresponsabilmente, con le loro decisioni e le loro azioni, alimentano i già gravi danni ambientali, economici e sociali presenti nella nostra regione.
Non vale prendersela con i tecnici che analizzano i progetti e portano avanti le procedure di valutazione ambientale. Spesso fanno il loro lavoro in condizioni di accerchiamento quasi fossero “nemici o avversari”, mentre si tratta di personale competente che, oltre alle pressioni della piazza, si deve adattare a cambiamenti repentini della normativa che cambia in continuazione al punto di non considerare come “rifiuti pericolosi” i fanghi rossi che finiscono nel bacino ancora sotto sequestro della magistratura e le indebite intrusioni della “politica” che, incapace di individuare percorsi alternativi di sviluppo, ha difeso la declassificazione della pericolosità dei fanghi rossi e sposato la possibilità di un’autorizzazione di 25 anni, quando normalmente le autorizzazioni sulle discariche durano 10 anni.
Nello specifico della Conferenza dei Servizi del progetto Eurallumina va dato atto al Mibact, ovvero al soprintendente Martino, di essere stata l’unica voce istituzionale contraria al progetto: tutti gli altri Enti hanno contribuito alla “sciagurata risposta” di Gertrude/Regione.
I lavoratori sotto il ricatto della disoccupazione e della disperazione e privati di qualunque altra prospettiva appaiono non preoccuparsi né dell’ambiente in cui vivono né della salute di se stessi e della popolazione. L’unica preoccupazione sembra essere la difesa con le unghie e con i denti delle poche attività lavorative rimaste, anche con i dati drammatici dell’inquinamento che sono stati evidenziati e quando il lavoro proposto confligge amaramente con la salute.
La politica, infine, è sotto ricatto dal basso (i lavoratori e i sindacati) e dall’alto, la multinazionale di turno e lo Stato, per cui è la rappresentazione plastica del nostro Don Abbondio manzoniano.
Ma ci si può accontentare del fatto che o il coraggio uno ce l’ha o non c’è niente da fare?
Insomma, comunque la si guardi questa vicenda vede solo perdenti ad esclusione della multinazionale Rusal.
In definitiva una brutta pagina per tutti, talmente brutta che si sono registrati anche casi di intimidazioni e gravi minacce ad alcuni esponenti di associazioni e gruppi contrari al progetto.
Per voltare definitivamente pagina è necessario ripensare collettivamente al nostro futuro.
Va individuato un nuovo modello di sviluppo sostenibile a partire dalla considerazione che il lavoro è cambiato e niente più sarà come prima.
Per quanto ci riguarda, anche la grave situazione di compromissione dei suoli inquinati della Sardegna che, con la nuova perimetrazione partita nel 2011 e finalmente conclusa e ratificata dal Ministero dell’Ambiente, ammonta a circa 22 mila ettari, da quel grave problema che è va trasformato in opportunità.
Nella nostra isola abbiamo tutti i tipi di inquinamento ambientale di origine industriale, minerario e militare. Anche a partire da qui abbiamo il dovere di delineare idee e progetti sostenibili finalizzati alla proposta di un piano straordinario per il lavoro che dia prospettive di sviluppo e benessere soprattutto ai nostri giovani, senza costringerli ad emigrare per l’inadeguatezza generalizzata delle classi dirigenti, perché senza i giovani la Sardegna sarà definitivamente senza futuro.
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1 μg = un microgrammo = un milionesimo di grammo

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democraziaoggiAnche su Democraziaoggi.
Poli industriali, Eurallumina e dintorni
Un piano straordinario per lavoro, a partire dalle bonifiche e dalla messa in sicurezza del territorio sardo, dedicato soprattutto alle giovani generazioni
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Oggi giovedì 16 febbraio 2017

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CSS loghettoSi è riacceso il dibattito sull’Euroallumina a seguito dell’approvazione del progetto Rusal. Oggi la CSS, a partire dalle 10, nella sua sede di via Roma 72 – p. 1° – a Cagliari, tiene una conferenza stampa. In argomento nell’editoriale di oggi un qualificato contributo al dibattito di Fernando Codonesu, esperto e profondo conoscitore della materia.