Monthly Archives: dicembre 2017

Oggi mercoledì 27 dicembre 2017

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27 dicembre 1947 Settant’anni fa è nata la Costituzione.

Red su Democraziaoggi.

Roma – Palazzo Giustiniani – firma Costituzione.
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Ricordando Francesco Cocco: un vero Maestro

di Franco Meloni.
chicco-cocco-2Avevamo 19 anni nel 1969, qualcuno qualche anno in più, noi studenti della 5a B dell’Istituto Commerciale Martini di Cagliari. Io adoravo la Scuola. Non così tutti i miei compagni. Ma c’era un docente che tutti ci faceva riconciliare con essa. Ed era il prof. Francesco Cocco, che ci insegnava l’Economia e il Diritto. Lui era il nostro idolo e la nostra considerazione per la sua scienza e per il suo rapportarsi nei nostri confronti erano talmente alti che pretendevamo che ci insegnasse qualcosa di più dell’economia e del diritto. Lo convincemmo a spiegarci un po’ di storia, perché la docente titolare non godeva della nostra stima. Lui ovviamente si disse in un primo momento indisponibile: non poteva creare tensioni con una sua collega, proprio lui noto per la impeccabile correttezza di rapporti. Ma l’esame di maturità era alle porte e magari la storia poteva essere proprio materia d’esame. Ecco allora che acconsentì, a patto che la lezione di storia fosse “segreta” sotto la non pertinente disciplina dell’economia. Ricordo chiedemmo al professore di spiegarci i moti di Milano del ’48, cosa che fece con competenza e maestria, che accrebbe la nostra ammirazione. Degli esami di maturità all’esordio della riforma fu lui ad essere il nostro “commissario interno”: la miglior scelta possibile. I suoi insegnamenti io me li ricordo ancora oggi. Per esempio la sua spiegazione delle teorie keynesiane. Noi ragazzi rimanemmo affascinati dalla sua impostazione didattica. Sul piano dei comportamenti, cosa inconsueta per i tempi, ci trattava con il massimo rispetto, dandoci del lei. All’epoca lui aveva 33 anni. Ecco perché avendolo perso di vista pur conoscendo il suo impegno politico, rimasi sbalordito quando per caso lo incontrai di persona, credo alla fine degli anni 70, per il fatto che mi dette subito del tu e mi invitò a fare altrettanto: “siamo due compagni impegnati politicamente sullo stesso fronte – mi disse – anche se tu hai fatto scelte più radicali, che io apprezzo anche quando non le condivido”. Confesso che mi venne difficile adeguarmi (al tu), cosa che feci solo nel tempo. Ricordo di lui l’interesse che aveva per le espressioni della “democrazia di base”, di cui aveva massima considerazione. In questo era un Comunista gramsciano, lontano da impostazioni staliniane o comunque di integralismo comunista. Ricordo il massimo rispetto che portava dei valori religiosi e dell’impegno dei cattolici sul fronte della solidarietà e in generale della politica. Non è un caso che abbia da subito manifestato la propria ammirazione per Papa Francesco, di cui condivideva le scelte e i comportamenti, a prescindere dal credo religioso. Per noi Francesco Cocco era ed è sempre stato un sicuro riferimento. Ci faceva scoprire fatti storici, anche noti, ma a cui lui attribuiva speciale importanza: uno per tutti? La lettura dei moti cagliaritani del 1906, che affermarono – come lui diceva- la legittimità di Cagliari di essere riconosciuta capitale, soprattutto morale, della Sardegna. Di Francesco Cocco molti diranno su tutti i campi in cui ha autorevolmente spaziato nel passato e nel presente, non ultimi il suo apporto alle lotte per la difesa della Costituzione e per un nuovo sviluppo per la Sardegna, a partire dalla rivalutazione del passato illustre dell’Isola, non subordinato ai vincitori. Giusto pertanto valorizzare la sua scienza e la sua esperienza specie per quanto valgono per l’oggi, decisamente vitali e importantissime. È un impegno che possiamo e dobbiamo assumere in molti, ma in questa circostanza a me basta ricordare solo alcuni tratti, alcuni episodi, anche con pochi esempi, come ho fatto, per confermare la grandezza dell’uomo, soprattutto di un Maestro che continuerà ad esserci vicino e a sostenerci nel nostro cammino di impegno democratico e civile.
————-Domani il commiato——————————————–
Il funerale di Francesco Cocco si terrà domani mercoledì 27 dicembre ore 15.20 nella sala commiato del Cimitero di San Michele (dopo l’ingresso subito a destra).

Oggi martedì 26 dicembre 2017

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lampadadialadmicromicro133Su Aladinews.images
“You’ve Got A Friend”
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logo-officinadeisaperi-defLamezia 2.XII | Osservatorio per il Sud. Lettera programmatica di Piero Bevilacqua
su L’officina dei saperi.
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labsusI beni pubblici urbani nella prospettiva dei beni comuni
Redazione Labsus – 18 dicembre 2017
Si propone per la serie “Labsus Paper” il saggio di Paola Biondini: Beni pubblici e beni comuni: città, spazi pubblici e beni urbani a fruizione collettiva.
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luttoFrancesco Cocco ci ha salutato tutti ed ha preso sonno, sereno
25 Dicembre 2017

Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Diamo un senso al Natale che verrà

FMeloni palle rotantidi Raffaele Deidda.

Anche il Natale 2017 è passato. Lasciandosi dietro la domanda se gli elementi consumistici che caratterizzano la festività natalizia nella nostra società non abbiano sminuito il significato cristiano della festa, rendendola soprattutto un’opportunità di consumo. La tendenza degli ultimi anni, inoltre, di trasformare il Natale in “Festa delle feste” per non urtare la sensibilità di quanti provengono da altre culture e religioni, viene vista da molti come un paradosso in cui si è caduti: per non offendere l’identità degli altri si rinuncia alla propria. D’altronde il Natale trova origine dalla festa romana del “Sol Invictus”. Questo, afferma qualche studioso, può essere motivo di imbarazzo per i cristiani a cui vengono ricordate le origini pagane del Natale. Un decreto di Costantino del 330 ufficializzò infatti la festa della natività di Gesù, facendola coincidere con la festa pagana del “Dies Natalis Solis Invicti” nel giorno 25 dicembre.
La domanda è pertanto: ha senso ancora il Natale in un mondo che sembra avere perduto il senso dei valori più profondi, e fra questi quelli della fratellanza e della solidarietà? E’ poi vero che il senso cristiano della festività stia progressivamente venendo meno per una forma di rispetto per “l’altro”, aspetto che giustamente fa interrogare su quale mancanza di rispetto vi sia nel festeggiare una ricorrenza della propria religione? Non è forse più credibile che sia il sempre minor interesse verso il significato religioso che sta portando ad equiparare il Natale ad una festa pagana?
Inoltre, se per i cristiani il Natale è un messaggio di gioia, questo non può che essere universale, che condiviso con l’umanità intera. Le condizioni per gioire però, anche solo di beni di consumo, sono drammaticamente diverse: da continente a continente, da paese a paese, fra ricchi e poveri dello stesso paese. La gioia non può essere quella di un pranzo o di una cena con i parenti e gli amici o di un regalo desiderato e ricevuto. Il Natale non può essere la festa, la gioia di pochi che restano indifferenti al dolore di molti, all’indigenza di chi non ha neanche di che sfamarsi. La vera gioia non può che essere data dall’impegno a realizzare per tutti pari condizioni di vita libera e dignitosa. La gioia non può che essere dare speranza di riscatto da una condizione di sofferenza e disperazione di qualsiasi “altro”, di qualsiasi credo religioso egli sia.
Mentre nelle strade delle nostre città risplendono ancora le luminarie in attesa del nuovo anno, una riflessione fattiva sul Natale che verrà si rende necessaria ed urgente. Ce lo chiede la nostra stessa dignità di uomini, cristiani o di altre fedi. Credenti o non credenti.
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MESSAGGIO URBI ET ORBI
DEL SANTO PADRE FRANCESCO

NATALE 2017
Loggia Centrale della Basilica Vaticana
Lunedì, 25 dicembre 2017

Cari fratelli e sorelle, buon Natale!

A Betlemme, dalla Vergine Maria, è nato Gesù. Non è nato per volontà umana, ma per il dono d’amore di Dio Padre, che «ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).

Questo evento si rinnova oggi nella Chiesa, pellegrina nel tempo: la fede del popolo cristiano rivive nella liturgia del Natale il mistero di Dio che viene, che assume la nostra carne mortale, che si fa piccolo e povero per salvarci. E questo ci riempie di commozione, perché troppo grande è la tenerezza del nostro Padre.

I primi a vedere la gloria umile del Salvatore, dopo Maria e Giuseppe, furono i pastori di Betlemme. Riconobbero il segno annunciato loro dagli angeli e adorarono il Bambino. Quegli uomini umili ma vigilanti sono esempio per i credenti di ogni tempo che, di fronte al mistero di Gesù, non si scandalizzano della sua povertà, ma, come Maria, si fidano della parola di Dio e contemplano con occhi semplici la sua gloria. Davanti al mistero del Verbo fatto carne, i cristiani di ogni luogo confessano, con le parole dell’evangelista Giovanni: «Abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (1,14).

Oggi, mentre sul mondo soffiano venti di guerra e un modello di sviluppo ormai superato continua a produrre degrado umano, sociale e ambientale, il Natale ci richiama al segno del Bambino, e a riconoscerlo nei volti dei bambini, specialmente di quelli per i quali, come per Gesù, «non c’è posto nell’alloggio» (Lc 2,7).

Vediamo Gesù nei bambini del Medio Oriente, che continuano a soffrire per l’acuirsi delle tensioni tra Israeliani e Palestinesi. In questo giorno di festa invochiamo dal Signore la pace per Gerusalemme e per tutta la Terra Santa; preghiamo perché tra le parti prevalga la volontà di riprendere il dialogo e si possa finalmente giungere a una soluzione negoziata che consenta la pacifica coesistenza di due Stati all’interno di confini concordati tra loro e internazionalmente riconosciuti. Il Signore sostenga anche lo sforzo di quanti nella Comunità internazionale sono animati dalla buona volontà di aiutare quella martoriata terra a trovare, nonostante i gravi ostacoli, la concordia, la giustizia e la sicurezza che da lungo tempo attende.

Vediamo Gesù nei volti dei bambini siriani, ancora segnati dalla guerra che ha insanguinato il Paese in questi anni. Possa l’amata Siria ritrovare finalmente il rispetto della dignità di ogni persona, attraverso un comune impegno a ricostruire il tessuto sociale indipendentemente dall’appartenenza etnica e religiosa. Vediamo Gesù nei bambini dell’Iraq, ancora ferito e diviso dalle ostilità che lo hanno interessato negli ultimi quindici anni, e nei bambini dello Yemen, dove è in corso un conflitto in gran parte dimenticato, con profonde implicazioni umanitarie sulla popolazione che subisce la fame e il diffondersi di malattie.

Vediamo Gesù nei bambini dell’Africa, soprattutto in quelli che soffrono in Sud Sudan, in Somalia, in Burundi, nella Repubblica Democratica del Congo, nella Repubblica Centroafricana e in Nigeria.

Vediamo Gesù nei bambini di tutto il mondo dove la pace e la sicurezza sono minacciate dal pericolo di tensioni e nuovi conflitti. Preghiamo che nella penisola coreana si possano superare le contrapposizioni e accrescere la fiducia reciproca nell’interesse del mondo intero. A Gesù Bambino affidiamo il Venezuela perché possa riprendere un confronto sereno tra le diverse componenti sociali a beneficio di tutto l’amato popolo venezuelano. Vediamo Gesù nei bambini che, insieme alle loro famiglie, patiscono le violenze del conflitto in Ucraina e le sue gravi ripercussioni umanitarie e preghiamo perché il Signore conceda al più presto la pace a quel caro Paese.

Vediamo Gesù nei bambini i cui genitori non hanno un lavoro e faticano a offrire ai figli un avvenire sicuro e sereno. E in quelli a cui è stata rubata l’infanzia, obbligati a lavorare fin da piccoli o arruolati come soldati da mercenari senza scrupoli.

Vediamo Gesù nei molti bambini costretti a lasciare i propri Paesi, a viaggiare da soli in condizioni disumane, facile preda dei trafficanti di esseri umani. Attraverso i loro occhi vediamo il dramma di tanti migranti forzati che mettono a rischio perfino la vita per affrontare viaggi estenuanti che talvolta finiscono in tragedia. Rivedo Gesù nei bambini che ho incontrato durante il mio ultimo viaggio in Myanmar e Bangladesh, e auspico che la Comunità internazionale non cessi di adoperarsi perché la dignità delle minoranze presenti nella Regione sia adeguatamente tutelata. Gesù conosce bene il dolore di non essere accolto e la fatica di non avere un luogo dove poter poggiare il capo. Il nostro cuore non sia chiuso come lo furono le case di Betlemme.

Cari fratelli e sorelle,

anche a noi è indicato il segno del Natale: «un bambino avvolto in fasce…» (Lc 2,12). Come la Vergine Maria e san Giuseppe, come i pastori di Betlemme, accogliamo nel Bambino Gesù l’amore di Dio fatto uomo per noi, e impegniamoci, con la sua grazia, a rendere il nostro mondo più umano, più degno dei bambini di oggi e di domani.

A voi, cari fratelli e sorelle, giunti da ogni parte del mondo in questa Piazza, e a quanti da diversi Paesi siete collegati attraverso la radio, la televisione e gli altri mezzi di comunicazione, rivolgo il mio cordiale augurio.

La nascita di Cristo Salvatore rinnovi i cuori, susciti il desiderio di costruire un futuro più fraterno e solidale, porti a tutti gioia e speranza. Buon Natale!
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Fonte

SENZA PRETE NÉ MESSA

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Addio a Vincenzo Pillai

Senza prete né messa. Così Vincenzo Pillai si è presentato davanti ai cancelli del cimitero di Selargius reclamando di essere tumulato. Si è presentato accompagnato da un corteo che innalzava striscioni e sventolava bandiere rosse, che scandiva slogan che ti facevano accapponare la pelle. Il megafono lo stringeva in mano Paolo Pisu. Al vecchio dirigente di Democrazia Proletaria sarda è toccato il compito di introdurre l’ennesima assemblea spontanea celebrata nello spiazzo del camposanto dinanzi ad un loculo ancora, provvisoriamente, vuoto.

Così, Vincenzo Pillai, ha partecipato all’ultima manifestazione della sua vita, senza poter prendere la parola, senza poter obiettare alle lacrime di compagni che, a fronte bassa, ripassavano commossi, davanti alla cassa, sessant’anni di storia.
Anche i compagni piangono, a dispetto dell’immagine di forza, di incrollabilità, che cercano di accreditare nelle manifestazioni. Come quando Gabriella mi ha sorriso lasciandomi nelle mani una rosa rossa.

Conservo, di Vincenzo, in qualche recondito angolo dell’encefalo, l’immagine fotografica della prima volta in cui l’ho incontrato. Ricordo il tempo ed il luogo. E’ stata una di quelle immagini che non si dimenticano. Ricordo che, in quel primo incontro ravvicinato, non ho neppure sospettato che saremmo stati accomunati, per lunghi anni, in un comune percorso di militanza e di lotta, nello stesso partito, nello stesso sindacato.

Allora, Vincenzo aveva già fatto scelte precise, mentre io ancora cercavo gli appigli giusti nell’improvvisa turbolenza di quegli anni. Provenienze diverse che, in tanti, abbiamo saputo fondere in quello straordinario crogiuolo rappresentato da Democrazia proletaria sarda e dai suoi dintorni.

Senza prete ne messa. Anzi, ostentando fieramente l’ateismo che lo ha accompagnato durante tutta la vita. Ma ecco che la morte incombe su quell’assemblea improvvisata. Il momento del distacco, quando s’innalza il muro che separa, definitivamente, la vita dalla morte, si abbatte sulla comunità e crea sgomento. Quale ultima parola? Quale segno, abbandonare al vuoto che incombe?

Ecco che un arcano segno di religiosità, non dichiarata, si affaccia spontaneo sull’improvvisata assemblea. Gli antichi erano usi deporre sulla tomba, per i futuri bisogni del defunto, alimenti ed oggetti della vita quotidiana. E’ stata proprio questa l’ultima attenzione che, istintivamente, la comunità riunita nel camposanto ha voluto riservagli, ignara, forse, della religiosità insita nell’atto.

Deporranno nel loculo le bandiere! Quella di Democrazia Proletaria Sarda, prima di tutto, quella che Vincenzo non ha mai smesso di rivendicare quale simbolo della sua lunga militanza politica. E poi quella dei quattro mori, quella che a partire dall’incontro prodottosi, alla fine degli anni 70, tra l’esperienza comunista e quella sardista, gli è appartenuta sino agli ultimi istanti. Ed infine la bandiera del movimento antimilitarista, altro simbolo della sua instancabile militanza.
Così, facciamo almeno finta di crederlo, potrà almeno continuare, da qualche parte, ad issare quelle bandiere per rivendicare pace, giustizia e libertà, lo farà nelle interminabili manifestazioni che, sicuramente, continuerà ad organizzare.

Infine una sciarpa, affettuosamente deposta sopra la cassa, a completamento del viatico. Un viatico, le bandiere e la sciarpa, imprescindibile ed indispensabile per un militante comunista e sardista che mai potrà cessare di esserlo.

Da ultimo, un rammarico, quasi un pentimento, da parte dell’ateo che, nel momento in cui viene meno, definitivamente, l’amata compagnia, si dispiace di non credere nell’aldilà. Avverte la mancanza di uno spazio che consentirebbe di mantenere un legame, foss’anche solo una corrispondenza d’amorosi sensi, con lo spirito di Vincenzo.

Che poi, cosa che non smetto di constatare, la sua morte è anche la nostra, di noi che rimaniamo orfani, che veniamo privati di una delle relazioni che compongono, come un mosaico, la nostra esistenza.

Una relazione, con Vincenzo, che aveva perso la quotidianità di un tempo, pur senza il rimorso di non continuare a trovarmi, materialmente, al suo fianco nelle infinite battaglie che non ha mai smesso di combattere. Piuttosto, l’improvvisa sensazione della sua assenza. Come se fosse la mancanza di una stampella alla quale potersi appoggiare. Perché Vincenzo, per me, ma immagino anche per altri, è stato soprattutto un compagno scomodo, difficile. E’ stato un compagno con il quale non potevano mancare le occasioni di attrito. Ma, allo tesso tempo, un compagno indispensabile.

Perché era il compagno che ti richiamava, in ogni momento, alla dimensione più radicale della militanza, restio al compromesso, indomito, mai stanco. Un compagno che, nonostante la sua intelaiatura fosse già provata da tempo, proseguiva, in equilibrio, al di là dei limiti della fatica sostenibile.

Era il compagno che se ti rilassavi soltanto per un momento, ti richiamava al dovere, a volte con parole docili, con un sorriso suadente e comprensivo ma che suonava come un rimprovero.
Un compagno scomodo perché voleva fare sempre di più e di meglio ed esigeva, da sé stesso e da quanti gli erano vicini, sempre il massimo.

Vincenzo Pillai è stato un prototipo di militanza comunista, un’icona dell’impegno sociale nell’ultimo mezzo secolo in Sardegna.

Ma non vorrei che la sua storia esemplare di militante finisca per offuscare il lato personale di un amico, capace di insegnarti i segreti del bosco, la raffinatezza di un gusto, di offrirti il piacere della compagnia, di farsi sentire la sua vicinanza.

Non mi ha mai convinto a raccogliere un’amanita, commestibile, ma pericolosamente simile alla mortale falloide. Ma la grande passione con la quale pretendeva di insegnarmi a riconoscere la differenza tra le due specie, ancora mi rimane impressa.

Vincenzo Pillai è stato un amico ed un compagno che, se l’aldilà non esiste, occorrerebbe inventarlo, per poter sperare di tornare, un giorno, in piazza assieme a lui.

Gianni Loy

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La foto è tratta dal servizio fotografico sulla pagina fb di Bustiano Cumpostu.

Addio a Francesco Cocco

luttoE’ morto Francesco Cocco
25 Dicembre 2017
Ai compagni e alle compagne, ai democratici sardi, un annuncio tristissimo: è morto improvvisamente Francesco Cocco.
Non so cosa dire, non trovo parole. Con più calma ricorderemo la sua figura di intellettuale rigorso, di uomo impegnato fin dalla giovinezza nel movimento per la democrazia e per l’eguaglianza. Una persona che, di fronte alla desgregazione del mondo della sinistra, con la sua compostezza e fermezza, ha costituito per tutti noi un punto di riferimento. E’ stato un maestro, ha aperto tante vie per la conoscenza di mondi estranei, come, per esempio. la storia del movimento democratico sardo, a partire dalla fine del ‘700. Uno studioso serio e profondo, quanto modesto, di Gramsci. Presente in tutte le battaglie culturali e politiche della sinistra sarda.
Per la sinistra democratica legata alla storia del Movimento operaio è una perdita incolmabile. Io non riesco ancora a capire cosa ho perduto.
(Andrea Pubusa su Democraziaoggi)
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lampadadialadmicromicroCi dispiace moltissimo. Di Francesco (Chicco) Cocco abbiamo sempre avuto una stima smisurata, fin da quando lo abbiamo conosciuto alla fine degli anni 60. Condoglianze e vicinanza ad Annamaria, ai suoi familiari e a tutti gli amici e compagni che hanno avuto modo di conoscerlo e apprezzarlo, noi tra questi. I suoi insegnamenti, resi sempre credibili dal suo esempio che ne specchiava la sua dirittura morale, dureranno e ci sosterranno nel tempo. Grazie Francesco per quanto ci hai dato (Franco Meloni su Aladinews).

E’ morto Francesco Cocco

luttochicco-cocco-2Questo triste 2017, che ancora non ci lascia, ha portato via oggi un altro grande compagno, Francesco Cocco.
Ne ha annunciato la morte improvvisa poco fa Andrea Pubusa su Democraziaoggi
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PER UNA CIVILTÀ SENZA GENOCIDIO

logo76L’alternativa indicata dalla “ragione laica” alle politiche che rischiano di portare l’umanità all’autodistruzione non è diversa, nella sostanza, da quella suggerita dal pensiero credente. Il felice quadriennio costituente 1945-1949 e l’attuale capovolgimento. Quattro genocidi in atto. Ma non c’è mai stata tanta speranza

di Luigi Ferrajoli*

1. Un ribaltamento del costituzionalismo novecentesco – Stiamo vivendo, ha detto nella sua introduzione Raniero La Valle, un cambiamento d’epoca. Per la prima volta nella storia, l’umanità ha nel suo orizzonte la sua possibile auto-distruzione, generata dalle guerre nucleari o dalle catastrofi ecologiche. L’alternativa, ha aggiunto, è un nuovo principio attraverso le quattro alternative da lui indicate.
Io non sono un credente. Ma anche i non credenti sono evidentemente inclusi tra i “tutti” ai quali si rivolge la “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” che ha convocato questa assemblea. E’ questa, a me pare, un’assoluta novità, nella storia della Chiesa: la disponibilità di un’assemblea di credenti all’ascolto di tutti, inclusi perfino i non credenti. C’è poi un’altra novità, che in altri tempi sarebbe stata considerata un’eresia: è la tesi sostenuta da Raniero, secondo la quale uno dei mutamenti dirompenti dell’attuale cambiamento d’epoca sarebbe quella che ha chiamato “la fine della cristianità”, cui egli auspica che segua, come nuovo “principio”, l’affermazione e lo sviluppo del cristianesimo. “Fine della cristianità” vuol dire infatti fine della cristianità come identità escludente, superiore, privilegiata, che pretende di affermarsi contro, e al di sopra, di qualunque altra identità diversa. E questo, a me pare, è davvero il primo passo per il riconoscimento dell’uguaglianza, cioè del rispetto e dell’uguale valore e dignità di tutte le differenze – di lingua, di sesso, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, come dice l’articolo 3 della nostra Costituzione – che fanno di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli altri, ma anche di ciascun individuo una persona come tutte le altre.
Ebbene, ciò che intendo mostrare in questo intervento è che l’alternativa indicata dalla laica “ragione” alle politiche genocide che rischiano di portare l’umanità all’autodistruzione non è diversa, nella sostanza, da quella di cui ha parlato Raniero. Essa consiste nella rifondazione del diritto e della politica sulla base del rinnovamento della scelta che fu compiuta dall’umanità nel secolo scorso, all’indomani degli orrori dei totalitarismi e delle guerre mondiali, e che oggi, come dicono il documento introduttivo a questa assemblea e l’appello al katécon, cioè alla resistenza, che abbiamo sottoscritto, è stata, da quelle politiche, negata e rovesciata. Quella scelta, operata nel quadriennio 1945-1949, fu la rifondazione del patto di convivenza delle persone e dei popoli – nelle Costituzioni nazionali, nella Carta dell’Onu e nelle tante dichiarazioni e Convenzioni internazionali sui diritti umani – sull’imperativo della pace, sul principio di uguaglianza, sulla dignità delle persone solo perché persone e sui diritti fondamentali di tutti, dalle libertà fondamentali ai diritti sociali alla salute, all’istruzione e alla sopravvivenza.

Due conquiste del Novecento

1.1. Il processo costituente della pace e della democrazia all’indomani delle guerre mondiali – Si trattò di una scelta di ragione, oltre che una scelta morale. Si comprese che la sopravvivenza stessa dell’umanità non è compatibile con la sovranità selvaggia degli Stati e dei mercati, e si stipularono perciò limiti e vincoli ai poteri politici ed economici, equivalenti ad altrettanti “mai più” alla loro potenza e alle loro capacità distruttive. Fu sulla base di quella scelta che nacquero le odierne democrazie costituzionali e fu rifondato il diritto internazionale, trasformato da sistema di relazioni pattizie tra Stati sovrani in un ordinamento giuridico nel quale tutti gli Stati sono sottoposti al divieto della guerra e al rispetto dei diritti umani.
All’indomani delle tragedie della prima metà del secolo, l’umanità fu dunque capace di fermarsi e di riflettere sul proprio futuro. C’è infatti un nesso che lega tra loro le ombre e le luci, gli orrori e le conquiste di quel nostro passato. Le luci e le conquiste si sono affermate per negazione e rifiuto delle ombre e degli orrori che con esse si è voluto condannare e bandire dal futuro. Queste conquiste sono state essenzialmente due: la rifondazione del diritto a livello internazionale e della democrazia a livello statale, generata dalle dure lezioni impartite dalle tragedie delle guerre mondiali e dei totalitarismi. Ricordiamolo, l’incipit solenne della Carta dell’Onu: “Noi, popoli delle Nazioni unite, decisi a salvare le generazioni future dal flagello della guerra che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità e a riaffermare la fede nei diritti umani… abbiamo risoluto di unire i nostri sforzi per il raggiungimento di tali fini”.
Ma così è stato anche per la rifondazione della democrazia in Europa: la costruzione, nei paesi liberati dai totalitarismi, dello Stato costituzionale di diritto quale sistema rigido di principi e diritti fondamentali vincolanti per tutti i pubblici poteri e, per altro verso, il processo di integrazione avviato, dopo secoli di guerre e nazionalismi aggressivi, con la costruzione dell’Unione Europea.
C’è quindi un elemento che accomuna queste grandi eredità del secolo, conquistate a prezzo di tante terribili sofferenze. Queste conquiste sono state ottenute con una medesima operazione: la costituzionalizzazione del progetto giuridico della pace e dei diritti umani, inclusi quei diritti alla sopravvivenza che sono i diritti sociali. Si è insomma manifestato in quel felice quadriennio 1945-1949, sia a livello statale che a livello internazionale, un potere e un processo costituente di un nuovo ordine, interno e internazionale, basato sul diritto alla vita e alla sopravvivenza di tutti. Rispetto agli orrori del passato, la garanzia di questo diritto equivale a un “mai più”, cioè a una limitazione dei poteri altrimenti assoluti e selvaggi. Rispetto alle prospettive del futuro, esso equivale a un “dover essere”, imposto all’esercizio di qualunque potere quale fonte e condizione della sua legittimità giuridica e politica.

Asimmetria del potere, mercificazione del mondo, antipolitica

1.2. I processi decostituenti in atto. Un capovolgimento della gerarchia democratica dei poteri – Oggi quelle conquiste, unitamente al contratto sociale della pacifica convivenza sulla base della garanzia della vita e della sopravvivenza di tutti, sono entrate in crisi. Quel patto, quel “mai più” alle politiche genocide che avevano portato l’umanità nel baratro, era nato, quale imperativo di ragione, dalla consapevolezza della potenza distruttiva e illimitata assunta dalle guerre e più in generale dalla tecnologia genocida. Il paradosso è che quel patto, espresso dal paradigma costituzionale delle nostre democrazie, viene oggi dimenticato e travolto proprio quando la tecnologia genocida – le armi nucleari, le centrali nucleari, le devastazioni dell’ambiente ad opera dello sviluppo industriale insostenibile – hanno raggiunto una capacità e una potenza distruttiva enormemente più devastanti di 70 anni fa.
Alle origini di questa crisi del paradigma costituzionale c’è stato un capovolgimento dei rapporti tra società e rappresentanza politica, tra Parlamenti e governi e tra politica ed economia. Non sono più le forze sociali organizzate nei partiti che indirizzano dal basso la politica delle istituzioni rappresentative, ma è il ceto politico che gestisce i partiti, politicamente neutralizzati dal loro sradicamento sociale. Non sono più i Parlamenti rappresentativi che controllano i governi ancorandoli alla loro fiducia, ma sono i governi che controllano i Parlamenti attraverso le loro maggioranze parlamentari rigidamente subordinate alla volontà dei capi. Non è più la politica, con le sue istituzioni di governo politicamente rappresentative, che disciplina l’economia e la finanza, ma sono sempre più i poteri economici e finanziari globali che impongono ai governi, in difesa dei loro interessi e grazie all’assenza di una sfera pubblica alla loro altezza, regole e politiche antisociali legittimate dalle leggi del mercato pur se incompatibili con i limiti e i vincoli costituzionali.
Si è insomma determinato un capovolgimento di quella che possiamo chiamare la gerarchia democratica dei poteri; la quale vorrebbe al vertice i poteri delle forze sociali organizzate nei partiti come titolari delle funzioni di indirizzo politico, poi i poteri della sfera pubblica legittimati dalla rappresentatività politica dei Parlamenti e dal rapporto di fiducia che lega a questi i governi, infine i poteri economici e finanziari che dovrebbero sottostare alle regole e ai controlli dettati dai pubblici poteri. Oggi, al contrario, il primato del mercato sulla politica e della politica sulla società è stato provocato dalla smobilitazione sociale dei partiti: la comunicazione politica è sempre più dall’alto verso il basso e sempre meno dal basso verso l’alto; sempre più propaganda diretta a ottenere il consenso e sempre meno mandato popolare.
A questa ristrutturazione in senso antidemocratico del sistema dei poteri e al passo indietro della sfera pubblica dalle sue classiche funzioni di governo dell’economia concorrono altri tre potenti fattori. Il primo fattore è l’asimmetria tra il carattere globale dell’economia e della finanza, determinato dalla liberalizzazione della circolazione delle merci e dei capitali, e i confini ancora prevalentemente statali sia del diritto che della politica; con il conseguente vuoto di diritto pubblico colmato da un pieno di diritto privato prodotto autonomamente, per via negoziale, dagli stessi attori e poteri del mercato, inevitabilmente selvaggi.
Il secondo fattore di questo ribaltamento della gerarchia democratica dei poteri è di carattere culturale. Consiste nel potente sostegno ad esso prestato, negli anni in cui è stata proclamata la fine delle ideologie, dall’ideologia liberista, cui ha fatto riscontro il vuoto politico, intellettuale e morale della sinistra, da anni totalmente subalterna all’egemonia di questo nuovo e aggressivo pensiero unico. Consiste, precisamente, nella generale mercificazione del mondo e di tutti i valori: nell’idea che ha valore tutto e solo ciò che ha un prezzo. Che è esattamente il contrario della classica tesi kantiana secondo la quale ciò che ha dignità non ha prezzo e ciò che ha un prezzo non ha dignità. Un’opposizione, a sua volta, sulla quale possiamo fondare la differenza e l’opposizione tra diritti fondamentali e diritti patrimoniali, tra sfera dell’uguaglianza e sfera del mercato e della disuguaglianza: ciò che ha dignità è la persona e i suoi diritti fondamentali, i quali perciò non hanno prezzo, essendo inalienabili e indisponibili; mentre hanno un prezzo, ma non hanno dignità, le cose, che formano oggetto dei diritti patrimoniali, i quali sono perciò alienabili e disponibili sul mercato.
Infine il terzo fattore della crisi della democrazia politica e del ribaltamento dei rapporti tra sfera pubblica e sfera privata è stato il processo di spoliticizzazione e disgregazione delle nostre società. La perdita di senso della politica e la crescita delle disuguaglianze, in contraddizione con le promesse costituzionali di uguaglianza e garanzia dei diritti, retroagiscono infatti sulla società, alimentando la sfiducia e il disprezzo dei cittadini per il ceto politico, per la sfera pubblica e per le stesse istituzioni democratiche, frustrandone l’impegno civile e orientandoli alla cura dei loro interessi personali, fino a favorire i fenomeni della illegalità diffusa e della corruzione. Ne conseguono il crollo dello spirito civico e lo sviluppo della paura, dell’aggressività e degli egoismi sociali che formano il terreno di coltura di due perversioni della rappresentanza politica che accomunano sia le politiche anti-sociali liberiste che l’anti-politica populista, sia il populismo governativo dall’alto che quello antigovernativo dal basso.
E’ su questa base che si sviluppano infatti tutti i populismi, caratterizzati dalla sostituzione delle tradizionali mediazioni svolte da partiti radicati nella società con il rapporto diretto, organico, tra capi e popolo, inteso il popolo come un tutto indifferenziato. E’ questo rapporto organico e immediato tra capo e popolo che consente un’operazione demagogica di sicura efficacia nella conquista del consenso, sperimentata con successo da Donald Trump: fomentare la guerra tra poveri, alimentandone e mobilitandone gli istinti peggiori – la paura, l’egoismo, il razzismo – contro i soggetti più deboli ed emarginati della società; rompere i legami sociali; scatenare la rabbia e l’odio contro le minoranze e i “diversi”; mettere i penultimi contro gli ultimi e gli ultimi contro i penultimi, i poveri e gli emarginati contro i migranti, i non garantiti contro i garantiti, i maschi contro le donne, in generale gli emarginati e gli esclusi contro quanti sono ancora più esclusi; ribaltare insomma la direzione del conflitto sociale: non più la lotta di classe di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma al contrario la lotta di chi sta in basso verso chi sta ancora più in basso, a totale beneficio di chi sta in alto.

La democrazia non è più sostanziale

1.3. Tre processi decostituenti – Questo ribaltamento del rapporto tra politica ed economia sta producendo, ai diversi livelli del diritto e dei poteri, una profonda crisi istituzionale e molteplici processi decostituenti: a) al livello delle democrazie nazionali; b) al livello del diritto comunitario europeo; c) al livello del diritto e delle relazioni internazionali.
Il primo processo decostituente ha investito le nostre democrazie nazionali. E’ in crisi, anzitutto, la dimensione formale o rappresentativa della democrazia, a causa della dislocazione dei poteri che contano, sia politici che economici, fuori dei confini nazionali, la subalternità della politica ai poteri economici e finanziari globali e perciò il crollo della rappresentatività dei nostri sistemi politici. E’ in crisi, conseguentemente, il progetto costituzionale e perciò la dimensione sostanziale della democrazia, quella espressa dai diritti sociali e del lavoro costituzionalmente stabiliti. Che sono due crisi tra loro connesse: l’impotenza della politica rispetto ai mercati richiede infatti la sua onnipotenza nei confronti della società e la perdita della sua rappresentatività e del suo radicamento sociale. Di qui l’aggressione diritti sociali – alla salute, all’istruzione, alla previdenza e all’assistenza – con i tagli alla spesa pubblica. Di qui, soprattutto, l’aggressione al diritto del lavoro, dissolto, in Italia e in Europa, da una lunga serie di controriforme: l’abbandono del vecchio modello del rapporto di lavoro a tempo indeterminato in favore di una molteplicità di rapporti di lavoro individuali, atipici, flessibili, saltuari, precari e perciò privi di garanzie; la sostituzione della contrattazione collettiva nazionale con quella aziendale o individuale; l’abbassamento generalizzato dei salari reali in nome della competitività; la neutralizzazione del conflitto sociale e la rottura dell’unità dei lavoratori, divisi, umiliati e messi in competizione tra loro dalla pluralità dei contratti di lavoro e dall’imposizione della rinuncia ai loro diritti sotto il ricatto dei licenziamenti. Il risultato è stato un generale declino dei nostri paesi. Le spese sociali, infatti, non soltanto riducono le disuguaglianze economiche, ma sono l’investimento economicamente più produttivo, dato che la salute, l’istruzione e la sussistenza da esse finanziate sono le condizioni necessarie per la produttiva sia individuale che collettiva e perciò un fattore insostituibile dello sviluppo economico.

L’Europa da sogno a incubo

Il secondo processo decostituente ha investito l’Unione Europea. E’ infatti in crisi quel grande progetto che è stato il processo di integrazione europea, a causa dell’assurda architettura istituzionale dell’Unione e delle politiche miopi e autolesioniste dei suoi organi di governo, trasformatisi in tramiti delle direttive dei mercati. A causa di questa miope subalternità ai mercati globali, gli organi comunitari dell’Unione hanno fronteggiato la crisi economica con l’imposizione ai Paesi membri di politiche recessive che sono esattamente l’opposto delle politiche pubbliche del New deal con cui negli Stati Uniti fu affrontata e superata la crisi economica del ’29. Hanno perciò indebolito, fino al rischio del collasso, il processo di integrazione europea, trasformato, per masse crescenti, da sogno in incubo. Queste politiche, ostinatamente imposte dalle istituzioni comunitarie e solo per questo accreditate come europeiste, stanno provocando l’impoverimento dei paesi maggiormente indebitati, la demolizione dei loro sistemi di Welfare, l’aumento della disoccupazione, la crescita delle disuguaglianze tra i paesi dell’Unione e la progressiva riduzione del consenso popolare al processo, sempre più deludente ed iniquo, della cosiddetta “integrazione” europea.

I poteri globali come poteri selvaggi

Ma è soprattutto a livello internazionale che si è manifestato il processo decostituente e, con esso, il crollo della capacità regolativa del diritto. E’ in crisi, anzitutto, la legalità internazionale, essendo stata riesumata, con le guerre della Nato, la dottrina della “guerra giusta”. A livello internazionale, inoltre, la globalizzazione si è affermata e risolta in un vuoto di diritto pubblico, cioè di regole, di limiti e vincoli a garanzia dei diritti umani nei confronti dei nuovi poteri economici e finanziari transnazionali, sottrattisi al ruolo di governo e di controllo dei vecchi poteri statali. In assenza di una sfera pubblica alla loro altezza, e perciò di limiti giuridici e politici, i poteri privati globali si sono infatti sviluppati come poteri selvaggi, di fatto dotati di una sovranità assoluta, impersonale, anonima, invisibile e irresponsabile, che hanno sostituito, alle forme tradizionali della normazione eteronoma, generale ed astratta da parte degli Stati, un diritto di produzione contrattuale che inevitabilmente riflette la legge del più forte. La crisi degli Stati, e perciò del ruolo garantista delle Costituzioni e delle sfere pubbliche nazionali, non è stata insomma compensata dalla costruzione di una sfera pubblica minimamente all’altezza dei processi di globalizzazione. La Carta dell’Onu, la Dichiarazione universale del 1948, i Patti del 1966 e le tante carte regionali dei diritti, che nel loro insieme for¬mano una specie di Costituzione embrionale del mondo, proclamano le libertà fondamentali e i diritti sociali in capo a tutti gli abitanti del pianeta. Ma mancano totalmente le loro norme di attuazione, cioè le garanzie internazionali dei diritti proclamati e le relative funzioni e istituzioni di garanzia, in assenza delle quali il processo decostituente è destinato a svilupparsi nella forma di una crescente distanza tra le promesse normative e la realtà delle loro smentite e violazioni.

Quattro emergenze planetarie

2. Gli effetti dell’anomia e della crisi della capacità regolativa del diritto. Quattro emergenze catastrofiche planetarie – Gli effetti di questi processi decostituenti e del crollo dei patti costituzionali stipulati 70 anni fa, sia all’interno degli Stati che a livello internazionale, sono quattro emergenze planetarie catastrofiche, provocate da altrettante politiche genocide e destinate ad aggravarsi se non ci sarà una svolta radicale nell’economia, nella politica e nel diritto. Si tratta di quattro genocidi che stanno consumandosi silenziosamente sotto i nostri occhi a causa dell’inerzia della politica e del progressivo dissesto del paradigma costituzionale.

La ricchezza cresce, ma l’umanità è incomparabilmente più povera

2.1. Un’economia e una politica globale genocida: l’emergenza umanitaria – Il primo, gigantesco genocidio è determinato dalla crescita esponenziale della disuguaglianza, segno di un nuovo razzismo che dà per scontate, nei Paesi poveri, la miseria, la fame, le malattie e la morte di milioni di esseri umani senza valore. Secondo il rapporto Oxfam del gennaio 2017, l’1% della popolazione mondiale possiede la metà dell’intera ricchezza globale e le otto persone più ricche del mondo hanno la stessa ricchezza della metà più povera dell’intera popolazione mondiale, cioè di circa 3 miliardi e 600 milioni di persone. Il numero di questi ultra-miliardari si è enormemente ridotto in pochi anni: nel 2015 erano 62 e nel 2005 erano 258; nel 1999 erano 500 e possedevano la ricchezza solo di mezzo miliardo di persone. Non solo. Grazie alla crisi economica della quale hanno ampiamente beneficiato, la ricchezza di questi super-ricchi è aumentata negli ultimi sette anni del 44%, mentre quella della metà più povera del mondo è diminuita del 41%. I ricchi, in breve, diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Siamo di fronte a una disuguaglianza che non ha precedenti nella storia. L’umanità è oggi, nel suo insieme, incomparabilmente più ricca che in passato. Ma è anche, se si ha riguardo a masse sterminate e crescenti di persone, incomparabilmente più povera. Gli esseri umani sono, sul piano giuridico, più uguali che in qualunque altra epoca grazie alle tante Carte, Costituzioni e dichiarazioni dei diritti. Ma sono anche, di fatto, assai più disuguali in concreto.
Di qui il genocidio, prodotto da quattro flagelli: la fame, la sete, le malattie non curate e l’analfabetismo. A causa dei crescenti squilibri economici, circa 870 milioni di persone soffrono la fame e la sete, 771 milioni, in prevalenza donne, sono analfabeti e oltre 2 miliardi di persone non hanno accesso ai farmaci essenziali o salva-vita. Le conseguenze di questi flagelli sono spaventose: più di 8 milioni di persone – 24.000 persone al giorno – in gran parte bambini, muoiono ogni anno per la mancanza dell’acqua e dell’alimentazione di base, e più di 10 milioni muoiono ogni anno per la non disponibilità dei farmaci salva-vita, vittime del mercato ancor più che delle malattie. L’acqua potabile è infatti sempre più scarsa e perciò oggetto di appropriazione privata; mentre i farmaci essenziali o sono brevettati, o peggio non sono distribuiti e neppure prodotti, benché non costino quasi nulla, per difetto di domanda nei Paesi ricchi, riguardando malattie infettive – infezioni respiratorie, tubercolosi, Aids, malaria e simili – in questi Paesi debellate e scomparse. “La povertà nel mondo”, ha scritto Thomas Pogge a conclusione del suo libro Povertà mondiale e diritti umani del 2008 “è molto più grande, ma anche molto più piccola di quanto pensiamo. Uccide un terzo di tutti gli esseri umani che vengono al mondo e la sua eliminazione non richiederebbe più dell’1% del prodotto globale”: precisamente l’1,13% del Pil mondiale – circa 500 miliardi di dollari l’anno, meno del bilancio annuale della difesa dei soli Stati Uniti – che basterebbe a fare uscire dalla miseria più di tre miliardi di persone.

Con i migranti si torna all’ ancien régime

2.2. Il genocidio dei migranti – Il secondo genocidio è quello che colpisce il popolo dei migranti. Per effetto della crescita della disuguaglianza e della povertà, e per altro verso delle guerre e delle persecuzioni politiche o religiose, masse crescenti di persone sono costrette a fuggire dai loro Paesi. Il vecchio diritto di emigrare, che da cinque secoli fa parte del diritto internazionale ed è tuttora stipulato nell’art.13 cpv della Dichiarazione universale dei diritti umani, è stato negato e penalizzato dalle leggi contro l’immigrazione dei nostri Paesi. L’immigrazione è divenuta così il fenomeno, prevalentemente illegale e clandestino, nel quale si manifestano nella maniera più vistosa le violazioni del principio di uguaglianza, dei diritti umani e della dignità della persona su cui si fondano le nostre democrazie costituzionali.
All’emarginazione sociale, di cui sempre i migranti sono stati vittime, quelle leggi aggiungono infatti l’emarginazione giuridica, che li espone alle forme più incontrollate di sfruttamento e di oppressione. Si sono in questo modo riprodotte le differenziazioni giuridiche di status, per ragioni di nascita, che furono proprie dell’ancien régime. Ma il dato più drammatico è il silenzioso massacro prodotto dalla negazione di quel diritto ad avere diritti che è il diritto, appunto di emigrare. Solo nel 2016 il numero dei morti in mare nel tentativo di approdare in Italia è stato di 4.733, mai così alto da quando l’UNHCR, nel 2008, ha iniziato a contarli (http://data2.unhcr.org/en/situations/mediterranean). Negli ultimi 15 anni sono morte, nel tentativo di penetrare nella fortezza Europa, più di 30.000 persone, di cui 4.273 nel 2015 e 3.507 nel 2014: affogate nel Canale di Sicilia, o nel mar Egeo, o nell’Adriatico, o lungo le rotte che dal Marocco, dall’Algeria, dal Sahara occidentale, dalla Mauritania e dal Senegal vanno verso le isole Canarie e la Spagna; o morte di fame o di sete attraversando il deserto del Sahara in direzione del Mediterraneo; oppure soffocate o assiderate o schiacciate dalle merci viaggiando nascosti nei TIR; oppure annegate attraversando i fiumi frontalieri; oppure morti per il freddo percorrendo a piedi i valichi delle frontiere; oppure, infine, ammazzati dagli spari delle polizie di frontiera.

Un capitalismo spensierato manda il pianeta alla malora

2.3. Il genocidio ecologico – Il terzo genocidio è quello ecologico, provocato da una terza emergenza: quella ambientale. La nostra generazione ha recato danni irreversibili e crescenti al nostro ambiente naturale. Abbiamo massacrato inte¬re specie anima¬li, avvelenato il mare, inquinato l’aria e l’acqua, deforestato e desertificato milioni di ettari di terra. L’attuale sviluppo sregolato del capitalismo, insostenibile sul piano ecologico ancor più che su quello economico, sta avvolgendo come una metastasi il nostro pianeta mettendone a rischio, in tempi non lunghissimi, la stessa abitabilità. Nell’ultimo mezzo secolo, mentre la popolazione mondiale si è più che triplicata, il processo di alterazione e distruzione della natura – le cementificazioni, lo scioglimento delle calotte di ghiaccio in Groenlandia e in Antartide, il riscaldamento globale, gli inquinamenti dell’aria e dei mari, la riduzione della biodiversità, le esplosioni nucleari – si è sviluppato in maniera esponenziale. Contemporaneamente si stanno estinguendo le risorse energetiche non rinnovabili – il petrolio, il carbone e i gas naturali – accumulate in milioni di anni e dissipate in pochi decenni. Lo sviluppo insostenibile sta insomma dilapidando i beni comuni naturali. C’è uno slogan movimentista – “questo è il solo pianeta che abbiamo” – che denuncia in termini drammatici questa corsa insensata verso la catastrofe.
Questo sviluppo sregolato e spensierato del capitalismo sta mettendo a rischio la stessa abitabilità del pianeta e la sopravvivenza dell’umanità, distruggendo risorse naturali non rinnovabili e beni comuni come se fossimo le ultime generazioni che vivono sulla terra. Non si tratta soltanto di un genocidio potenziale, cioè di una minaccia per il futuro dell’umanità. I cambiamenti climatici hanno già prodotto devastazioni e catastrofi che, benché provocate quasi interamente dai Paesi ricchi – in grado di fronteggiarli regolando i termostati e accrescendo gli approvvigionamenti – hanno colpito soprattutto le popolazioni più povere del mondo, come quelle dell’Africa e delle sue zone costiere. Siccità, alluvioni, smottamenti, uragani e cicloni tropicali colpiscono infatti soprattutto i Paesi più poveri, i cui abitanti vivono di agricoltura con meno di un dollaro al giorno, provocandone la riduzione delle disponibilità idriche e alimentari, distruggendone le povere baraccopoli e compromettendone irreversibilmente le capacità produttive e le possibilità di sviluppo. Ed è chiaro che questi danni ai beni comuni sono destinati ad aggravarsi di giorno in giorno e in maniera esponenziale se si continuerà a non fare nulla per prevenirli: e che potremmo non fare in tempo a formulare nei loro confronti un altro “mai più”, dato che rischiamo di prendere coscienza della loro portata distruttiva quando sarà ormai troppo tardi.

Vendi le armi, avrai mezzo milione di omicidi

2.4. Il genocidio provocato dalle armi, sia nucleari che convenzionali – Il quarto genocidio è quello provocato dalle armi. In primo luogo il genocidio potenziale provocato dalle armi nucleari. Negli anni del secondo dopoguerra i blocchi contrapposti hanno accumulato giganteschi arsenali di armi nucleari in grado di distruggere più volte l’intero pianeta. La fine della guerra fredda e del bipolarismo non ha affatto segnato la fine di questo pericolo, che torna anzi ad affacciarsi in forme ancor più minacciose. La moltiplicazione dei Paesi dotati di armamenti nucleari, chimici e batteriologici rischiano così di rigettare l’umanità nel bellum omnium ipotizzato da Thomas Hobbes. Con una differenza: diversamente dalla guerra di tutti contro tutti propria del primitivo stato di natura, quella prospettata dagli odierni poteri selvaggi nel ben più devastante stato di natura tecnologico sarebbe un bellum nucleare senza nessun vincitore.
Dobbiamo peraltro riconoscere che solo per un miracolo, in un mondo popolato da più di 10.000 testate nucleari, taluna di queste non è ancora caduta nelle mani di una banda terroristica o criminale, e in qualcuno degli Stati che ne sono in possesso non è ancora accaduto che un pazzo al potere ne abbia fatto uso. E questo miracolo rischia proprio in questi mesi di cessare, a seguito degli esperimenti nucleari della Corea del Nord e dello scambio irresponsabile di invettive e minacce tra il presidente nordcoreano e il presidente degli Stati Uniti.
D’altro canto, se il genocidio nucleare, che produrrebbe la fine dell’umanità, è solo potenziale, c’è un altro genocidio che è in atto nel mondo per effetto della diffusione delle armi. Ogni anno, nel mondo, si consumano centinaia di migliaia di omicidi: esattamente 437.000 nel solo 2012, per la maggior parte con armi da fuoco; senza contare i morti ben più numerosi – si calcola circa due milioni ogni anno – provocati dalle tante guerre, quasi tutte guerre civili, che infestano il pianeta. Le statistiche ci dicono che più di un terzo di questi omicidi, esattamente 157.000, sono stati commessi nei Paesi delle Americhe, nei quali sono massimi il libero commercio e la diffusione delle armi, con una media di 16,3 persone uccise ogni 100.000 abitanti: quasi il triplo della media globale che è di 6 persone ogni 100.000 abitanti e 16 o 17 volte più che in Europa, per esempio in Italia, dove il medesimo tasso, nonostante le mafie, le camorre e i femminicidi, è solo dello 0,9 ogni 100.000 abitanti. Esiste insomma una differenza abissale tra il numero degli omicidi all’anno in Paesi nei quali le armi sono più diffuse e quello in cui quasi nessuno va in giro armato: più di 50.000 omicidi in Brasile e tra i 20.000 e i 30.000 negli Stati Uniti, in Messico e in Colombia, dove il possesso di armi è generalizzato e tutti si armano per paura, e solo 475 in Italia, nel 2015, e quantità analoghe negli altri Paesi europei dove quasi nessuno è in possesso di armi.

Una democrazia dei piccoli spazi e dei tempi brevi

3. Due aporie dell’odierna democrazia politica: gli spazi ristretti e i tempi brevi della politica. Per un costituzionalismo oltre lo Stato – C’è una terribile novità nei problemi e nelle crisi odierne rispetto a tutti i problemi e le crisi del passato: il carattere irreversibile delle catastrofi che minacciano il futuro dell’umanità ove non si sviluppi, a livello globale, un sistema adeguato di garanzie contro quelli che dovremmo chiamare beni illeciti e a tutela dei diritti fondamentali e di quelli che possiamo chiamare beni fondamentali. Le minacce di queste possibili catastrofi sono largamente ignorate dall’opinione pubblica mondiale e dai governi nazionali, e non entrano se non marginalmente nella loro agenda politica, interamente ancorata ai ristretti orizzonti nazionali disegnati dalle competizioni elettorali. E la politica rischia perciò di comprenderle – quanto meno quelle che riguardano la catastrofe ecologica e quella nucleare –, quando non farà più in tempo a porvi rimedio. E’ sorprendente l’indifferenza con cui è stata accolta, o peggio ignorata dal ceto politico e dai media la notizia dell’approvazione il 7 luglio di quest’anno, da parte di 122 Paesi, cioè dai due terzi dei Paesi membri dell’Onu, di un Trattato sulla radicale messa al bando delle armi nucleari. Ed è sconcertante il silenzio della politica e del dibattito pubblico intorno alle crescenti minacce alla pace e all’ambiente. Eppure è anche dalle guerre e dal riscaldamento globale, che ha già trasformato interi Paesi come il Ciad in un immenso deserto, che fuggono le masse di migranti che le nostre inutili leggi e le nostre frontiere militarizzate non sono in grado di arrestare.
Certamente questa inadeguatezza della politica dipende dalla sua subalternità, di cui ho già detto, all’economia. Ma dipende anche da due gravi aporie che investono la democrazia politica e sono legate l’una al rapporto tra democrazia e spazio, l’altra al rapporto tra democrazia e tempo. La prima aporia consiste negli spazi ristretti dei territori nazionali, ai quali è limitato l’orizzonte della politica in democrazia, e perciò nella rimozione dei grandi problemi della fame e della miseria nel mondo, nella sottovalutazione dei pericoli che possono provenirne alla pace e alla sicurezza e nell’illusione che l’economia globale possa autoregolarsi e fare a meno di una sfera pubblica internazionale. La seconda aporia consiste nella perdita da parte della politica, a causa della pratica dei sondaggi in vista soltanto delle scadenze elettorali, anche delle dimensioni del tempo: sia della memoria del passato che della prospettiva del futuro. Da un lato, dunque, l’amnesia, cioè la perdita della memoria delle guerre mondiali, dei fascismi e dei “mai più” da cui sono nate le Costituzioni e le Carte del secondo dopoguerra. Dall’altro la miopia e l’irresponsabilità per il futuro non immediato e per i problemi globali: solo così si spiega l’indifferenza spensierata per le distruzioni in atto dell’ambiente e per le prognosi infauste intorno al futuro del nostro pianeta. La democrazia odierna conosce insomma solo tempi brevi e spazi ristretti: non ricorda e rimuove il passato e non si fa carico del futuro, ossia di ciò che accadrà oltre i tempi brevi e i confini nazionali. E’ affetta da localismo e da presentismo. Entra così in conflitto con la razionalità politica, ossia con gli interessi di lungo periodo degli stessi Paesi democratici che riguardano la loro sicurezza e la loro stessa sopravvivenza futura.
È un pericolo gravissimo. Per questo sono oggi indispensabili una rifondazione della politica all’altezza dei problemi globali e lo sviluppo di una dimensione nuova e ormai inderogabile della democrazia e del costituzionalismo, allargato ai diritti e ai beni fondamentali, ai tempi lunghi e agli spazi globali, al di là della sola logica individualistica e mercantile dei diritti patrimoniali e della miopia e dell’angusto localismo della politica delle democrazie nazionali. Nella nostra tradizione il solo potere che è stato concepito come oggetto di limiti e vincoli legali è stato il potere politico statale: ‘Stato di diritto’, non a caso, è l’espressione che designa, nel nostro lessico giuridico, la soggezione del potere al diritto. Ne sono restati esclusi due tipi di potere, entrambi non statali, che sono proprio quelli maggiormente responsabili delle catastrofi ecologiche e nei cui confronti soprattutto si richiede perciò la creazione di un costituzionalismo oltre lo Stato: da un lato i poteri economici privati, tradizionalmente accreditati come libertà naturali; dall’altro i poteri extra- o sovra-statali, sia politici che economici, che si sono sviluppati fuori dei confini statali nel mondo globalizzato.

Occorre aggiungere un nuovo costituzionalismo privato e internazionale

Un costituzionalismo futuro all’altezza delle sfide globali alla democrazia e ai diritti e ai beni fondamentali di tutti, deve allargarsi a questi due tipi di poteri ed imporre una politica globale dell’uguaglianza. È in primo luogo necessario – sulla base del riconoscimento del carattere di poteri, anziché di libertà, dei diritti di autonomia imprenditoriale – lo sviluppo, a garanzia dei beni comuni, dei diritti fondamentali di tutti e perciò dell’interesse generale dell’umanità, di un costituzionalismo di diritto privato, cioè di un sistema costituzionale di regole, limiti, vincoli e controlli nei confronti dei poteri economici privati, oltre che dei poteri politici pubblici. Ed è necessario, in secondo luogo, lo sviluppo di un costituzionalismo di diritto internazionale: le aggressioni ai beni comuni ecologici – il riscaldamento climatico, l’inquinamento, la riduzione della biodiversità – hanno infatti assunto un carattere planetario e richiedono perciò l’introduzione di divieti, controlli, funzioni e istituzioni di garanzia a loro volta di livello planetario. Si richiede, in breve, una costituzionalizzazione della globalizzazione che ponga fine, per il tramite di istituzioni planetarie di garanzia, alle minacce sempre più gravi di catastrofi ambientali o nucleari e, insieme, a quel terribile apartheid che condanna un terzo del genere umano a condizioni di vita disumane.

È questo e non altro il tempo della svolta

È difficile prevedere se una simile espansione del costituzionalismo e della democrazia oltre lo Stato riuscirà a svilupparsi, o se invece continueranno a prevalere la miopia e l’irresponsabilità dei governi. Due cose sono tuttavia certe. La prima è che questa espansione, contrariamente allo scetticismo dominante, non è affatto impossibile. Dobbiamo infatti distinguere la sua difficoltà e improbabilità, dovute ai potenti interessi che ad essa si oppongono e alla colpevole inerzia e incapacità dei governi, da una sua supposta impossibilità, onde evitare di deresponsabilizzare la politica e di legittimare l’esistente con il fallace argomento deterministico che ciò che accade non può non accadere. E’ sufficiente il fatto che tale espansione del paradigma costituzionale sia possibile, anche se improbabile, a non renderla utopistica e ad affidarla ai doveri e alla responsabilità della politica. E’ infatti questa possibilità, questo ottimismo metodologico – “questa speranza di tempi migliori”, scrisse Kant, “senza cui un serio desiderio di fare qualcosa di utile per il bene generale non avrebbe mai eccitato il cuore umano” – che rendono possibile il progresso e valgono a fondare e a dare senso all’impegno morale e politico.
La seconda certezza è quella espressa dal titolo di questo nostro incontro: “Ma viene un tempo, ed è questo”. E’ questo, e non altro, il tempo della svolta, proprio a causa dell’urgenza imposta dalle minacce catastrofiche che incombono sul nostro futuro. C’è peraltro una novità, proprio nelle sfide odierne alla ragione politica e giuridica, che consente una nota ulteriore di ottimismo. Queste sfide segnalano non soltanto i problemi politici più gravi che dovranno essere affrontati urgentemente con scelte radicali dirette a mitigare i mutamenti climatici, a disarmare il pianeta, a garantire la pace e a proteggere i beni e i diritti fondamentali di tutti. Esse rivelano anche un’interdipendenza crescente tra tutti i popoli della terra e l’esistenza, per la prima volta nella storia, di un nuovo tipo di interesse pubblico e generale, ben superiore a tutti gli interessi pubblici nazionali del passato: l’interesse di tutti alla sopravvivenza del genere umano e all’abitabilità del pianeta, idoneo a generare una solidarietà senza precedenti tra tutti gli esseri umani e a rifondare la politica, dall’alto e dal basso, come politica interna del mondo basata sulla massima attuazione del principio di uguaglianza. È questa la grande novità del nostro tempo. Al di sopra di tutte le differenze religiose, nazionali, politiche, ideologiche e culturali, al di là delle stesse disuguaglianze economiche e dei tanti conflitti che dividono l’umanità, la minacce generate dall’attuale sviluppo ecologicamente insostenibile e dai tanti armamenti micidiali – nucleari, chimici, convenzionali – segnalano anche un’opportunità senza precedenti: la possibilità di rifondare la politica e le garanzie dell’uguaglianza, della pace, della democrazia e dei diritti umani sulla base della necessaria interdipendenza mondiale da essi generata e della percezione, destinata a divenire sempre più diffusa, dell’umanità come un’unica nazione accomunata, proprio dai pericoli in atto, da un nuovo e generalizzato sentimento di appartenenza di tutti alla medesima condizione e perciò alla medesima comunità.

*Luigi Ferrajoli relazione convegno
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Le relazioni del 2 dicembre
PER UNA CIVILTÀ SENZA GENOCIDIO

L’intera registrazione video dell’assemblea del 2 dicembre a Roma, curata da radio radicale, si trova al link https://www.radioradicale.it/scheda/527094

Senza prete né messa

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Addio a Vincenzo Pillai
di Gianni Loy.
Senza prete né messa. Così Vincenzo Pillai si è presentato davanti ai cancelli del cimitero di Selargius reclamando di essere tumulato. Si è presentato accompagnato da un corteo che innalzava striscioni e sventolava bandiere rosse, che scandiva slogan che ti facevano accapponare la pelle. Il megafono lo stringeva in mano Paolo Pisu. Al vecchio dirigente di Democrazia Proletaria sarda è toccato il compito di introdurre l’ennesima assemblea spontanea celebrata nello spiazzo del camposanto dinanzi ad un loculo ancora, provvisoriamente, vuoto.

Così, Vincenzo Pillai, ha partecipato all’ultima manifestazione della sua vita, senza poter prendere la parola, senza poter obiettare alle lacrime di compagni che, a fronte bassa, ripassavano commossi, davanti alla cassa, sessant’anni di storia.
Anche i compagni piangono, a dispetto dell’immagine di forza, di incrollabilità, che cercano di accreditare nelle manifestazioni. Come quando Gabriella mi ha sorriso lasciandomi nelle mani una rosa rossa.

Conservo, di Vincenzo, in qualche recondito angolo dell’encefalo, l’immagine fotografica della prima volta in cui l’ho incontrato. Ricordo il tempo ed il luogo. E’ stata una di quelle immagini che non si dimenticano. Ricordo che, in quel primo incontro ravvicinato, non ho neppure sospettato che saremmo stati accomunati, per lunghi anni, in un comune percorso di militanza e di lotta, nello stesso partito, nello stesso sindacato.
(segue)

E’ Natale!

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democraziaoggi-loghettoBuon Natale!
Da Democraziaoggi.
Madrid-Barcellona: pensieri calcistico-politici in libertà
24 Dicembre 2017. Su Democraziaoggi
Amsicora

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SU NADALE

img_4532Mi chi su Nadale no est paza,
mancari Zesusu est naschidu in s’istalla.
Sos res si faghen puru sa muralla
s’animu lu jughent fattu a iscaza.
Su naschire est umanu disizu,
siat libera sempre sa pessone,
senza trummentu e senza chistione
prena de affettu che mama e fizu.
Gai preighendhe sempre a contivizu
Zirat tottu sos logos populados
Sanendhe topos, tzegos e peccadores.
Isse mannu, pensendhe a sos minores,
in rughe l’incravan in mesu a duos ladros,
sendhe chi de su mundhu est su lizu.
A sos chi bi crene o chi no sun credentes
Auguro bonu nadale, bona zente.
(Gavino Dettori, su fb)
- segue commento -

Oggi domenica 24 dicembre 2017

democraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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chiesa_santagostino_e_cripta_d02SA NOVENA DE PASCH’E NADALE 2017, dae su 16 a su 24 de custu mese, donnia die, in sa cresia de Sant’Austinu (via Bayle). Il testo della ‘Novena de Pasch’e Nadale’ si legge nel sito della Fondazione Sardinia alla voce PUBBLICAZIONI. Puoi seguire nello stesso sito anche la novena del 2010 in video ed apprendere musica e canzoni alla voce VIDEO.
- Approfondimenti.
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AuguriAuguriAuguridiPaceeSerenitàAuguriAuguriAuguri
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lampadadialadmicromicro1Gli editoriali di Aladinews. La caduta delle tutele dei lavoratori è inarrestabile? Qualche segnale di inversione, come in un glorioso passato “dal silenzio alla parola”
Il baraccone
di Gianni Loy

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democraziaoggi loghettoSassari città antifascista: o.d.g. consegnato a Carla Nespolo, neopresidente dell’ANPI. Ora tocca a Cagliari
23 Dicembre 2017

Gianna Lai ANPI Cagliari su Democraziaoggi.
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costat-logo-stef-p-c_2-2Ad un anno dal referendum riflessioni sul futuro del Comitato.
24 Dicembre 2017

Andrea Pubusa Su Democraziaoggi.
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Non é bello per te sapere che hai un amico?

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“You’ve Got A Friend”

When you’re down and troubled and you need a helping hand
And nothing, whoa, nothing is going right
Close your eyes and think of me and soon I will be there
To brighten up even your darkest nights

You just call out my name, and you know wherever I am
I’ll come running, oh yeah baby, to see you again
Winter, spring, summer, or fall
All you got to do is call and I’ll be there, yeah, yeah, yeah
You’ve got a friend

If the sky… above you should turn dark and full of clouds
And that old north wind should begin to blow
Keep your head together and call my name out loud now
Soon I’ll be knocking upon your door

You just call out my name, and you know wherever I am
I’ll come running, oh yes I will, see you again
Winter, spring, summer, or fall, yeah
All you got to do is call and I’ll be there, yeah, yeah, yeah
Hey, ain’t it good to know that you’ve got a friend?

People can be so cold
They’ll hurt you and desert you
Well, they’ll take your soul if you let them
Oh yeah, but don’t you let them

You just call out my name, and you know where ever I am
I’ll come running to see you again
Oh baby, don’t you know about
Winter, spring, summer, or fall

Hey now, all you have to do is call, Lord, I’ll be there, yeah, yeah
You’ve got a friend. You’ve got a friend, yeah
Ain’t it good to know you’ve got a friend
Ain’t it good to know you’ve got a friend
Oh, yeah, yeah, you’ve got a friend

aldo-lino-natale-2017
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Quando sei giù, pieno di problemi
e hai bisogno di un aiuto
e niente, niente va nel modo giusto
chiudi gli occhi e pensami
e subito io sarò là
per illuminare anche le tue notti più buie

Semplicemente urla il mio nome
e sai che ovunque sarò
verrò di corsa per rivederti ancora
inverno, primavera, estate o autunno,
tutto ciò che devi fare è chiamare
ed io arriverò, sì
tu hai un amico

Se il cielo sopra di te dovesse diventare scuro e pieno di nuvole
e se quel vecchio vento del nord iniziasse a soffiare
mantieni salda la tua testa ed urla forte il mio nome
e subito busserò alla tua porta
semplicemente urla il mio nome
e sai che ovunque sarò
verrò di corsa per rivederti ancora
inverno, primavera, estate o autunno,
tutto ciò che devi fare è chiamare ed io arriverò

Non è bello per te sapere che hai un amico?
la gente a volte è così fredda
ti feriranno e ti inaridiranno,
beh, prenderanno la tua anima, se glielo permetterai
oh si, tu non lasciarglielo fare

Semplicemente urla il mio nome
e sai che ovunque sarò
verrò di corsa per rivederti ancora
inverno, primavera, estate o autunno,
tutto ciò che devi fare è chiamare
ed io arriverò, sì
tu hai un amico, tu hai un amico
non é bello per te sapere che hai un amico?
non é bello per te sapere che hai un amico?
si, si, tu hai un amico.
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james-taylor
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Il disegno della foglia è di Aldo Lino, tratto dalla sua pagina fb

AuguriAuguriAuguri

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L’ultimo saluto a Vincenzo Pillai

nastroluttoOggi alle ore 11 al Cimitero di Selargius.
vp
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