Monthly Archives: aprile 2018

Sardegna Sardinia Sardigna

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Oggi lunedì 30 aprile 2018

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nuxis6A Nuxis inaugurato il “Cammino della Libertà” nella grotta della latitanza del capo di Palabanda
30 Aprile 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Circa duecento, uomini e donne, sono convenuti dal Sulcis, da Cagliari e dalla provincia per l’inaugurazione del “Cammino della Libertà” a Tattinu vicino a Nuxis. I partecipanti hanno fermato le auto e l’autobus giunto da Cagliari ai bordi del bivio di monte Nieddu e poi si sono inoltrati nel fitto bosco di lecci, in […]
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Sviluppo Sostenibile per il futuro dell’Europa

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SENZA DI TE LO SVILUPPO SOSTENIBILE NON C’È

di CATTERINA SEIA su Il Giornale delle Fondazioni.
(Pubblicato il 15/04/2018)

Il 22 maggio, all’Auditorium del Maxxi, l’ASviS aprirà la seconda edizione del Festival dello Sviluppo Sostenibile per discutere sul futuro dell’Europa. Il programma ha già oltre 280 eventi che si svolgeranno in 17 giorni, pari al numero dei goal dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Nel parliamo con Enrico Giovannini, portavoce di ASviS, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. Quale ruolo gioca la Cultura?
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A settembre 2015, l’Onu vara l’Agenda globale per lo sviluppo sostenibile. A febbraio 2016 l’Università Tor Vergata di Roma con Fondazione Unipolis dà il via a una piattaforma di lavoro per realizzare i 17 goal dell’Agenda 2030, ASVIS, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, di cui è portavoce l’economista Enrico Giovannini, con il quale conversiamo. Docente all’ateneo romano, già presidente Istat e Ministro del lavoro e delle politiche sociali del governo Letta ha creato con ASviS un grande progetto partecipato. L’Alleanza riunisce oggi oltre 180 tra le più importanti istituzioni, imprese e reti della società civile mobilitate per realizzare gli obiettivi di sviluppo sostenibile.

utopia-sostenibileNel suo libro “L’utopia sostenibile”, già in ristampa, Giovannini traccia il percorso del paese verso nuove logiche di sviluppo. Non si tratta di un libro dei sogni, ma analisi con proposte concrete. Alla viglia della seconda edizione del Festival dello Sviluppo Sostenibile, appuntamento internazionale che durerà 17 giorni, tanti quanti i goal individuati, può anticiparci quali messaggi veicolerete? Crescono gli alleati, nel mondo delle imprese come fortunatamente oggi anche dal mondo della filantropia. C’è tantissimo fermento. Anche grazie al lavoro dell’ASviS, sempre più diverse parti della società italiana stanno adottando l’Agenda 2030 come punto di riferimento.

I punti sono fondamentalmente tre.
L’Agenda 2030 sta diventa a livello europeo e internazionale, con eccezioni come gli Stati Uniti, un riferimento comune di tantissime politiche, all’interno di un assetto di governance integrata. Tra l’altro contribuiremo al paper che la Commissione Europea farà a ottobre con le indicazioni sull’inserimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 in tutte le politiche europee. Questo documento sarà fondamentale anche considerando il fatto che dopo le elezioni europee del prossimo anno dovrà essere definito il quadro finanziario a lungo termine, con gli stanziamenti dei fondi strutturali.
Secondo messaggio, l’Italia, dopo un’iniziale disattenzione all’Agenda 2030, si sta muovendo intensamente su questi fronti soprattutto a livello di imprese- che adottano gli obiettivi di sviluppo sostenibile nei loro piani strategici, come indicato nel Manifesto Confindustria, a livello di sindacati – come nel piano per l’Italia sostenibile di CGIL- e di società civile, del mondo della scuola e dell’università.
Però, nonostante tutto questo movimento dal basso, abbiamo bisogno di importanti decisioni politiche. Ed ecco il terzo punto. La nuova legislatura dovrà lavorare sullo sviluppo sostenibile oppure condannerà l’Italia a star fuori dai grandi processi di trasformazione. Quindi il prossimo Festival italiano dello sviluppo sostenibile (22 maggio – 7 giugno) è l’occasione per mostrare che cosa sta accadendo a livello internazionale, contribuire alla discussione europea e scuotere la politica, mostrando che l’Italia – dal basso – si sta muovendo.

Avete raccolto le azioni diffuse a livello nazionale con la campagna “What are you doing?”…

La campagna del Festival ha come slogan “senza di te lo sviluppo sostenibile non c’è” e a partire dalla prossima settimana verranno avviate molte iniziative, tutte raccontate attraverso il sito www.festivalsvilupposostenibile.it.

Occorreva l’Università Tor Vergata, con l’appoggio della Fondazione Unipolis (fondazione privata d’impresa) per ideare una piattaforma come ASviS? Cosa avete appreso da questo modello nei due anni di attività?

L’intuizione iniziale era coerente con il primo principio dell’Agenda 2030 che richiede l’universalità dell’impegno per il cambiamento, non solo nel senso che tutti i paesi devono fare la loro parte, ma che vanno coinvolte tutte le componenti di un paese, non solo quella pubblica ma anche quella privata, la società civile e così via. Da questo discende il secondo principio, cioè la partecipazione. L’idea di lanciare ASviS insieme ad un soggetto come Unipolis, rappresentativo di un gruppo finanziario-assicurativo che però viene da una forte tradizione di cooperazione, è stata vincente e ha dimostrato che la società civile italiana aveva voglia di collaborare molto più di quello che si immaginava. Non dimentichiamo che in quei mesi c’era una polemica tra la società civile e il Presidente del Consiglio che sosteneva che i cosiddetti “corpi intermedi” dovevano rinnovarsi, cambiare profondamente. Sono certo che al di là del potere unificante dell’Agenda 2030 molte organizzazioni abbiano risposto al nostro invito proprio per dimostrare la forza e la coesione della società civile italiana. In questi due anni, sull’Agenda 2030 ASviS rappresentato un modello di integrazione tra realtà molto diverse tra loro che hanno scoperto il valore di lavorare insieme.

Un modello di lavoro su temi ipercomplessi, a partire dallo sviluppo sostenibile che è il frame della trasformazione culturale sulle grandi sfide dell’umanità.
Due sono gli aspetti principali. L’Agenda 2030 è stata il frutto di una negoziazione di due anni tra i governi e quindi è il risultato di una mediazione, non omnicomprensivo ma ben strutturato, nella quale ognuno ha trovato la propria collocazione. Un’agenda che include e mostra le connessioni, anche operative tra i diversi soggetti. Un esempio: il Forum del Terzo Settore ha chiesto ai propri associati di riclassificare le attività svolte secondo i target dell’Agenda; la richiesta che poteva essere intesa come un peso burocratico è stata invece accolta con una grande partecipazione, una scoperta di senso, una rottura rispetto alla routine, un modo per confrontarsi con la propria eredità storica e con altri soggetti.
Secondo aspetto: in AsviS abbiamo soggetti che storicamente hanno posizioni diverse su molti temi. Pensiamo al mondo ambientalista, oppure al mondo della produzione e del lavoro come Confindustria, Confcommercio con i sindacati CGIL, CISL e UIL. In questi due anni ASviS non è stata invadente rispetto ai suoi componenti, ma ha rappresentato un valore aggiunto. Aver scelto di non costituire una onlus, ad esempio, e quindi di non accedere a donazioni provenienti da persone singole, ha mostrato come non avremmo fatto concorrenza a tanti associati che ricevono tali contributi. Analogamente, abbiamo cercato di evitare di duplicare le attività già svolte dai singoli aderenti e di coinvolgere tutti: ad esempio, il rapporto che pubblichiamo ogni anno con il contributo di 300 esperti che lavorano nei vari gruppi di lavoro viene inviato a tutte le associazioni prima della pubblicazione, affinchè sia un prodotto collettivo che accolga i diversi punti di vista. E’ un processo rispettoso dei vari punti di vista, costruito sul lavoro comune.

Il nostro giornale [Il Giornale delle Fondazioni] riflette sui cambiamenti della cultura attraverso la cultura. Non vedo però il mondo della Cultura strategicamente in campo su questi temi.

Dipende da che cosa intendiamo per Cultura. Facciamo un passo indietro. Si è molto discusso dell’assenza, nell’ambito dei Sustainable development goals, di un obiettivo sulla Cultura. Immagino che tale scelta sia derivata dalla impossibilità di mettere d’accordo sul concetto di cultura 193 paesi di tutto il mondo. Ma il tema della Cultura attraversa trasversalmente tantissimi goals. Tanti dei nostri aderenti, come Ask Bocconi, Fondazione Feltrinelli, Italia Nostra, la stessa fondazione Unipolis lavorano su tematiche culturali e all’interno dell’ASviS abbiamo molti soggetti legati a diverse culture politiche, dalla Fondazione Sturzo alla Basso, solo per citarne alcune. Peraltro, proprio nel corso del Festival affronteremo, in un evento dedicato, il ruolo della cultura per lo sviluppo sostenibile.

Un lavoro di cambiamento culturale che va ben oltre una mostra di ricerca sul cambiamento climatico, ma implica un lavoro di continuità, nell’engagement, nella mobilitazione nella coproduzione di senso, come lei diceva, nel coinvolgimento delle comunità, dalle istituzioni educative alle famiglie, dalle imprese agli altri soggetti della società civile.

Trova nel mio libro il riferimento ai tre elementi che a mio parere determinano la possibilità di portare il nostro mondo su un sentiero di sviluppo sostenibile: le tecnologie, la governance e il cambiamento culturale, di mentalità.

L’approdo della finanza di impatto sarà un aiuto in questa trasformazione?

La finanza è uno strumento per coniugare e legare l’oggi con il domani. La finanza serve, cioè, a realizzare idee, per realizzare cose che non esistono oggi, investendo sul futuro, in un’ottica di ben-essere collettivo. La finanza è il ponte tra l’oggi e il domani. Il fatto che abbiamo dovuto introdurre il concetto della finanza d’impatto vuol dire che da un po’ di tempo ci siamo dimenticati il ruolo della finanza per lo sviluppo delle persone e delle società. E’ uno dei frutti della scelta, sbagliata, di aver concentrato tutte le nostre energie sulla massimizzazione del PIL, che resta un elemento fondamentale, ma non unico, dello sviluppo, in quanto coglie soltanto un pezzo della realtà e porta ad orientare le scelte usando un’ottica di brevissimo termine. Si pensi all’ossessione per i risultati trimestrali delle grande imprese. Si tratta di uno shortermismo sbagliato, che, coniugato con meccanismi di bonus dei manager, ha determinato risultati aberranti.

Ora, il fatto che nascano iniziative di finanza che guardano al social impact è un segnale molto importante, ma non bisogna sottovalutare le scelte della finanza “normale”, chiamiamola così, che si sta anch’essa occupando dei temi dello sviluppo sostenibile. Recentemente, l’annuncio dell’amministratore delegato di Black Rock indirizzata ai vertici delle imprese sul pre-requisito delle strategie di sostenibilità per dialogare con il fondo ha fatto scalpore. Analoga decisione, qualche anno fa, del fondo sovrano norvegese non aveva generato effetti analoghi nell’opinione pubblica. Oggi la finanza va in questa direzione ed è un’ottima notizia, come dico nelle mie conferenze, ma anche una pessima notizia, perché se anche la finanza “normale” si preoccupa della sostenibilità dei propri investimenti vuol dire che il rischio di collasso è molto vicino.

Lei richiama spesso l’allarme, inascoltato, lanciato dal Club di Roma nel 1972 sui temi dello sviluppo sostenibile. Anche la crisi finanziaria che abbiamo vissuto si è segnalata come il mare che arretra nello tsunami. Segnali tangibili che abbiamo voluto ignorare.

Il Fondo Monetario Internazionale nelle previsioni dei giorni scorsi ha lanciato un monito ai Governi su un’altra possibile crisi finanziaria. Siamo entrati in un’epoca di grandi instabilità ambientali, economiche, sociali e istituzionali, la quarta gamba dello sviluppo sostenibile. Per questo abbiamo l’urgenza di intervenire e la necessità di cambiare mentalità e modello di sviluppo perché le non linearità (cioè i cambiamenti improvvisi e radicali) diventeranno il nostro pane quotidiano. Nel libro provo ad argomentare su come sia necessario ripensare alle politiche in questi contesti. Un esempio per tutti: se pensiamo di far ripartire l’economia mettendo in tasca i soldi ai consumatori, siano essi 80 euro o altro, non risolviamo nulla. Dobbiamo guardare a un futuro che sarà pieno di shock e costruire politiche che favoriscano la resilienza delle persone, dell’ambiente, delle imprese e della società. Macron alcuni giorni fa al Parlamento europeo parlava del rischio di una guerra civile nel continente. Dobbiamo decidere se vogliamo attendere inermi o diventare subito agenti del cambiamento. Da domani mattina. A ogni livello.

Catterina Seia
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AGENDA 2030: LA SFIDA DELLA COMPLESSITÀ CHE VIENE DAL PARADIGMA DELLO SVILUPPO SOSTENIBILE
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- Su Aladinews.

Gli Editoriali di Aladinews

lampada aladin micromicro img_5741La festa del 25 aprile
LA MICCIA DELLA LIBERAZIONE
La giustizia e la pace sono le due grandi conquiste della Resistenza su cui è stato costruito l’intero edificio della nostra Costituzione. Esse non erano però solo delle stazioni di partenza ma traguardi da raggiungere e non solo per noi, ma per tutti. A cominciare dal centro, dal Mediterraneo Raniero La Valle.
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Antonio Gramsci
«Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza».
(Antonio Gramsci, sul primo numero di L’Ordine Nuovo, primo maggio 1919). Ottantuno anni dopo la morte. Antonio Gramsci, figura sempre attuale. Pietro Maurandi, Presidente dell’Istituto Antonio Gramsci della Sardegna.
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SA DIE DE SA SARDIGNA 2018, festa de pentzamentos unidos, in sardu.
di Salvatore Cubeddu del Comitato “Sa die de Sa Sardigna” su Fondazione Sardinia
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Oggi domenica 29 aprile 2018

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2c083429-a80a-4c7e-817c-7d9b71ccb627Oggi a Nuxis inauguriamo il “Cammino della Libertà” nei luoghi della latitanza del capo della Rivolta di Palabanda
29 Aprile 2018

Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Oggi alle 10 dalla Piazza Satta (vicino al Municipio) di Nuxis parte la carovana verso la località Tattinu fino alla Grotta di Conch’e Cerbu (nella foto), dove trovò rifugio fra il 1812 e il 1813 l’Avv. Salvatore Cadeddu, capo della Rivolta di Palabanda.
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Procurade ‘e moderare” da oggi è l’inno ufficiale della Sardegna

bandiera_sarda“Procurade ‘e moderare” da oggi è l’inno ufficiale della Sardegna

Cagliari, 28 aprile 2018 – Il Consiglio regionale nella seduta di questo pomeriggio ha approvato la proposta di legge che riconosce il componimento melodico tradizionale “Sa patriottu sarda a sos feudatarios”, noto anche come “Procurade ‘e moderare” di Francesco Ignazio Mannu quale inno ufficiale della Regione sarda.

Oggi 28 Aprile Sa die de Sa Sardigna

SA DIE DE SA SARDIGNA 2018, festa de pentzamentos unidos, in sardu.
di Salvatore Cubeddu del Comitato “Sa die de Sa Sardigna” su Fondazione Sardinia
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“Sa Die” del 2018 si celebra sotto il segno della parola e del canto nella lingua dei Sardi. Con la storia e la cultura, la lingua definisce la nostra identità di fronte al mondo. Nella pluralità del suo manifestarsi, attraverso le oltre trecento comunità, ci racconta l’unità delle radici comuni, destinate a trovare nuova espressione nel vivere e parlare assieme. Oggi abbiamo scelto di riprendere a parlare nella nostra lingua con Dio e tra noi, nei luoghi di culto e nelle sedi istituzionali. Continueremo nelle nostre case, nelle strade, nelle scuole, nei posti di lavoro.

La riconquista della lingua cammina in parallelo con la ripresa di un’economia che ricostruisce una prosperità attraverso la valorizzazione della natura e delle nostre risorse. L’agricoltura offrirà di nuovo il cibo a noi e ai nostri ospiti e consentirà rinnovate occasioni per un futuro prospero dei paesi e delle città. Comunità operose in industrie espressioni del nostro saper essere e fare, impegnate in scambi frequenti e collaborativi con i popoli che circondano i nostri mari: questo l’obiettivo che le generazioni adulte propongono ai giovani. Lo studio severo, l’obbligo della competenza, la dignità del reddito da lavoro, la serietà di una comunità che produce e rispetta le leggi, guidata democraticamente da un’Autorità riconosciuta che ascolta, propone e valuta.

Intraprendiamolo il viaggio, il sogno è obbligatorio, l’avventura potrà risultare esaltante.

Oggi, come ogni anno, siamo impegnati a ripercorrere, nel ricordo e nella festa, i pensieri, gli atti ed i fatti che ci fanno contemporanei degli Italiani e degli altri popoli dell’Europa. Custa, populos, est s’ora … recita il verso del nostro canto della libertà, Procurade ‘e moderare. Libertà, eguaglianza e fraternità: i nostri padri non mancarono all’appuntamento della storia. Non è un dato da poco, non è stato così per tutti i popoli, e per tutti noi resta una consapevolezza impegnativa e gratificante. Il percorso della nostra autonomia è una corrente che, pur inabissandosi nella difficoltà dei tempi, continua ed emerge sempre a nuova luce e fecondità.

Questo piccolo volume accompagna – con i saggi del prof. Luciano Carta e dell’avv. Antonello Angioni, con i canti e la poesia dei bambini guidati da Laura Porceddu e dalla musica del ‘Gruppo Cuncordia a launeddas’ – l’incontro del Comitato per “Sa Die de sa Sardigna” con le Autorità regionali e della Città Metropolitana, con la Conferenza Episcopale Sarda e con i nostri Parlamentari in Italia e in Europa.

Il Popolo Sardo avrà il futuro che vorrà costruirsi quando, senza accettare vincoli esterni non concordati e mai illudendosi che altri risolvano le sue problematiche, troverà l’impegno creativo, competente e responsabile dei giovani, delle donne, degli uomini di cultura e delle forze sociali unite ai responsabili delle istituzioni. La fiducia di sé, la costanza nella speranza, la feconda fatica della propria solidarietà ne costituiscono sempre più le ragioni di esistenza e di progresso.

Bona Die de sa Sardigna a totu su Popolu Sardu.

Per il Comitato per “Sa Die de sa Sardigna”

Salvatore Cubeddu

Istèrrida

“Sa Die” de su 2018 si faghet suta su sinnu de s’allega e de su cantu in sa limba de sos Sardos. Cun s’istòria e sa cultura issa format su chi semus e nos definit cara a nois etotu e a su mundu. In sa pluralidade de s’ammostrare suo, in sas prus de treghentas comunidades suas, issa nos contat s’unidade de sas raighinas a cumone, incarreradas a agatare una espressada noa e cumpartzida in su istare e faeddare totu paris. Oe amus seberadu de torrare a faeddare in sa limba nostra cun Deus e intr’a nois, in sos logos de cultu e in sas sedes istitutzionales. Amus a sighire in domos nostras, in sas rugas, in sas iscolas, in sos logos de traballu.

Sa reconchista sua camminat paris-paris cun s’istantargiada de una economia chi torrat a pesare unu beneistare dende balia a sa natura e a sas resursas nostras. S’agricultura donat torra su màndigu a nois e a sos òspites nostros e bogat ocasiones noas pro unu benidore lugorosu de sas biddas nostras. Comunidades afainadas chi sunt espressadas de su ischire e fàghere nostru, impinnadas in cuncàmbios fitianos pare a pare cun sos pòpulos a indùrriu de su mare nostru: custa sa punna chi sas generatziones de sos mannos istrinant a sos pitzinnos issoro. S’istùdiu sìncheru, s’òbligu de sa cumpetèntzia, sa dinnidade de su rèditu dae su traballu, sa seriedade de una comunidade chi produet e respetat sas leges, ghiada in manera democràtica dae una Autoridade “autorevole” chi proponet e vàlutat.

Inghitzamus su biàgiu, su bisu est de òbligu, s’aventura at a pòdere èssere ispantosa.

Oe, gasi comente a cada annu, nos semus impinnados a ammentare e a afestare sos meledos, sas fainas e sos atos chi nos faghent cuntemporàneos de sos Italianos e de sos àteros pòpulos europeos. Custa, pòpulos, est s’ora… narat su cantu de libertade nostru, Procurade ’e moderare. Libertade, ugualliàntzia e fraternidade: sos babbos nostros no aiant pèrdidu s’atopu de s’istòria. No est cosa de pagu contu, no est istadu gosi pro totu sos pòpulos, e pro totus nois abarrat un’atinu e un’impèllida. S’àndala de s’autonomia nostra est una currente chi, mancari ingalèndesi in sas dificultades de sos tempos, sighit a istupare semper a nou e fecunda.

Custu volùmene piticu acumpàngiat – cun sos sàgios de su prof. Luciano Carta e de s’avv. Antonello Angioni e cun sos cantos e sa poesia de sos pipios ghiados dae sa maistra Laura Porceddu, acumpangiados cun sa mùsica de su ‘Gruppo Cuncordu a launeddas’ – s’atòbiu de su Comitadu pro sa Die de sa Sardigna cun sas Autoridades regionales e de sa Tzitade Metropolitana, cun sa Cunferèntzia Episcopale Sarda e cun sos Parlamentares in Itàlia e in Europa.

Su Pòpulu Sardu at a tènnere su benidore chi at a chèrrere a si fraigare cando, chene acàpios foranos non cuncordados, e illudèndesi mai chi sos àteros resorvant sos problemas suos, at a agatare sa mutria bona sua, sa cumpetèntzia e responsabilidade de sos pitzinnos suos, de sas fèminas, de sos òmines de cultura e de sas fortzas sotziales suas crobadas a sos responsàbiles de sas istitutziones. Sa fiantza de issu etotu, sa custàntzia in s’ispera, s’istragatzone fecunda de sa solidariedade sua sunt sas resones de esistèntzia e de progressu.

Pro su Comitadu pro “Sa Die de sa Sardigna”

Salvatore Cubeddu
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LITURGIA E SA DIE
di Bachisio Bandinu

EDITORIALE sul sito della FONDAZIONE SARDINIA

In sa creja de Santa Tecla, in Siria, apo ascurtatu su Babbu Nostru in aramaicu, sa limba de Cristos. In una ‘idda isperdita, Maalula, sa prechera de Gesus at cantatu su misteriu de sa paraula originaria in sa limba de sa mama, de sa familia e de sa comunitate. Una limba istranza, eppuru mi pariat de la cumprendere in sas intrangnas.

Su 28 de Aprile, sos sardos an a precare e ascurtare sa Missa in limba sarda. “Babbu nostru chi ses in sos chelos, santificatu siat su nomen tuo” at a sonare che paraulas istranzas eppuru connotas. In sa Missa, sa liturgia at a cantare faeddos mai intesos eppuru familiares: professare sa fide, capatze de una comunione nova.

Est de importu mannu sa riforma liturgica a profetu de sa limba sarda, ca gai sos sardos poten faeddare cun Deus in sa propria limba ma prus e prus Deus matessi in sa Missa nos faeddat in limba. Custu cheret narrere chi su populu sardu vivet una esperientzia liturgica nova chi aperit unu caminu de fide. Comente at natu Papa Franziscu, in sa Settimana liturgica nazionale de annu passatu: “La liturgia è vita per l’intero popolo della Chiesa”. E no est una liturgia clericale, ma populare, duncas pro su populu e de su populu.

Su 28 de Aprile, sa Die de sa Sardigna, sa festa natzionale de sos Sardos, cuffirmat s’identitate de su populu sardu, ma diventat puru die notita ca sa limba intrat in Creja e duncas a profettu de su populu de Deus. Su fattu est de ammonimentu a sos puliticos pro chi facan intrare sa limba sarda in s’iscola. Onorevoles de su Parlamentu italianu e cossitzeris regionales an a cumprendere chi sa cunsacratzione de sa limba in sa creja matzore de Casteddu e, unu cras, in totu sas crejas de Sardegna, petit chene duda peruna una cunsacratzione laica de sa limba in iscola e in totu sas istitutziones de s’Isula.

In sa Missa de sa cattedrale de Casteddu an a mancare tres pessones chi an datu istudios, sentitos e passione in defensa de sa limba: padre Remundu Turtas, Bissente Migaleddu e Socrate Seu, puru balentes in su traduire in limba evangeliu, innos e precheras. Presente, invetzes, at a essere su biblista Antoni Pinna, prima pandela in sa tradutzione de sas Missas.

S’ispera est chi custa Die de sos Sardos marchet s’avviu de unu progettu, de una visione, de unu contepitzu pro una Sardigna nova.

Augurios sincheros de bona festa e de Missa de fide Bachis Bandinu

Comunicazioni dell’Editore e del Direttore

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L’Editore
Il Direttore

Oggi sabato 28 aprile 2018 Sa die de Sa Sardigna

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nuxisI misteri di Palabanda: la scomparsa delle carte processuali
28 Aprile 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Oggi è Sa die de sa Sardinia, che ricorda lo Scommiato dei Piemontesi da Cagliari nel 1794. Domani a Nuxis, ad iniziativa della locale Associazione culturale Le Sorgenti, si svolgerà la manifestazione più significativa: l’inaugurazione del “Cammino della Libertà” nei luoghi della latitanza di Salvatore Cadeddu, capo di Palabanda, dopo la fuga da Cagliari.
Domenica […]

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OGGI 28 APRILE. Sa die de sa Sardinia

sadiemodificatoSa Die de sa Sardigna, PROGRAMMA DELL’EDIZIONE 2018, a cura del Comitato per “Sa Die”
CAGLIARI. Ore 9.30, nella Cattedrale…. Ore 11.00, corteo verso il Palazzo Viceregio… una memoria fatta di simboli e messaggi di unità del Popolo Sardo. Un giorno simbolo per tanti giorni migliori.

[segue]

LA MICCIA DELLA LIBERAZIONE

img_5741La festa del 25 aprile
LA MICCIA DELLA LIBERAZIONE

La giustizia e la pace sono le due grandi conquiste della Resistenza su cui è stato costruito l’intero edificio della nostra Costituzione. Esse non erano però solo delle stazioni di partenza ma traguardi da raggiungere e non solo per noi, ma per tutti. A cominciare dal centro, dal Mediterraneo

Raniero La Valle*

(dal sito “Questione giustizia” di Magistratura Democratica)

È una grande giornata di pace. Perché il 25 aprile 1945 non solo finì una guerra, ma si aprì una nuova pagina della storia d’Italia e della storia del mondo. Noi siamo dentro questa pagina, e ora la dobbiamo scrivere a partire da questo vero centro del mondo che è oggi il Mediterraneo, che deve essere un mare di pace e non di afflizione.

Per questo non è solo un grande onore, ma una gioia per me celebrare la Liberazione qui a Reggio, e non, ad esempio, a Milano, dove soffiò il vento del Nord, o a Roma dove la nuova Repubblica prese inizio. Perché celebrarla qui a Reggio vuol dire cambiare prospettiva, guardare le cose dal futuro, da dove i problemi massimamente si pongono, da questo bacino del Mediterraneo dove la nostra civiltà è nata, e ora deve ripartire per portare a pienezza la civiltà stessa del mondo.

Come ci ha detto la splendida partigiana Anna Condò, noi oggi prima di tutto abbiamo un dovere della memoria. La memoria però non è un deposito dove sono ammassati inerti i fatti del passato, ma è una miccia che accende il presente, che lo fa muovere e vivere; la memoria non è conservatrice, è sovversiva. Per questo ci sono ancora i partigiani. Noi infatti riceviamo il passato come dono, mentre viviamo il futuro come promessa. La Resistenza, la Liberazione, la democrazia, la Costituzione sono i doni che abbiamo ricevuto e che ora dobbiamo mettere a frutto; noi siamo la speranza, concepita nel passato, che ora si realizza. Siamo noi, qui, ciascuno di noi, che decidiamo il destino del mondo.

Che cosa dunque ci porta la memoria? Io allora ero troppo piccolo per fare la Resistenza, ma abbastanza grande per capire da dove venivamo. Lasciatemelo dire con le parole di un grande poeta e di un grande resistente del tempo, un monaco, padre David Maria Turoldo.

Per padre Turoldo la Resistenza era stata una fuoruscita dalla notte oscura del nazifascismo, nel patimento di un Paese occupato, calpestato da neri stivali. «Aquile e svastiche e canti di morte – come scriverà nella sua poesia – salmi e canti e benedizioni di reggimenti col teschio sui berretti neri sulle camicie nere sui gagliardetti neri…». Contro «quella notte oscura» egli aveva scelto la sua Parte. «Sì, insieme al mio fratello di convento, Camillo de Piaz – racconterà quarant’anni dopo – ho fatto la Resistenza: con molti giovani cattolici, e comunisti, e socialisti, e del Partito d’azione, e altri; con Curiel e Gillo Pontecorvo, e Teresio Olivelli, quello della Preghiera del Ribelle; e con Mario Apollonio e amici dell’Università Cattolica, e altri ancora. Sì, in molti avevamo lottato e sperato insieme».

Per uomini di quel sentire era quasi spontaneo uscire dalle città, e ritrovarsi insieme a lottare e sperare: «Scendevano dai monti o sorgevano dal selciato rotto, e cantavano per dimenticare fame e derisione di fratelli, e celare al nemico la penuria di armi. Non avevano armi e pregavano per te Italia: “o umile Italia, ti liberiamo. La paura ci ha abbandonati vivi in mezzo alle macerie”».

Ma per che cosa avevano combattuto? «Pure voi ricordate i sogni di vita libera e felice, il sogno d’essere uomini! Uno diceva: “Non invidio quelli che vivono, ma quelli che vivranno”; un altro diceva: “Mi hanno messo in catene ma il mio cuore è libero di sperare, di credere: se domani muoio, slegatemi i piedi”. E un altro: “Muoio giovane, molto giovane, ma non mi uccideranno, mi faranno vivere per sempre”». E il sogno era questo: «La pace è l’uomo, e quest’uomo è mio fratello il più povero di tutti i fratelli. La libertà è l’uomo e quest’uomo è mio fratello il più schiavo di tutti i fratelli. La giustizia è l’uomo e quest’uomo è mio fratello: per un’idea non posso uccidere! Per un sistema non posso uccidere, per nessuno, nessuno fra tutti i sistemi».

L’altro dovere che abbiamo, dopo quello della memoria, è il dovere del ringraziamento. Grazie a questi uomini, a queste donne, noi abbiamo potuto vivere settant’anni con la Costituzione. Pensate, anche di fronte alle lacerazioni e ai pericoli di questi giorni, che cosa sarebbe l’Italia senza Costituzione. È vero, essa è ancora in gran parte inattuata e Reggio Calabria, come tutto il Sud, conosce bene il dolore di questi decenni e ne ha portato e ancora ne porta il peso maggiore. Perché è vero che, dopo la Costituzione, come già dopo l’unità d’Italia, è subito scattato il riflesso dei vecchi poteri, sia dei poteri legali che di quelli illegali, è scattato il riflesso del Gattopardo: che tutto cambi perché tutto resti com’era, questo era il disegno. Però la Costituzione ha impedito che questo accadesse, e la partita è ancora aperta; quei poteri ci minacciano ancora ma non hanno vinto. Noi combattiamo ancora, voi combattete ancora, resistete ancora: basta camminare per queste strade (i negozi da difendere!) per vedere che la lotta continua, per una vera comunità politica, contro la comunità del crimine.

Perciò noi dobbiamo essere grati ai protagonisti di allora, non solo ai partigiani, del Nord e del Sud (perché ci furono molti partigiani meridionali nel Nord) ma anche essere grati alle popolazioni del Sud che pur già liberate portarono tutto il peso delle rovine di un’Italia da rifare; e dobbiamo essere grati anche alla lotta politica che si assunse il compito di rifondare il Paese, a questa politica oggi diffamata ma che ha costruito l’Italia; ed essere grati ai grandi partiti popolari che realizzarono quello straordinario incontro di culture che è la nostra Costituzione, comunisti, socialisti, democristiani, da Dossetti a Togliatti, e poi essere grati agli uomini politici che finirono martiri per realizzarla, la Costituzione, e qui faccio solo tre nomi: Aldo Moro per il suo disegno di una democrazia compiuta; Piersanti Mattarella per la sua opposizione alla mafia (e qui rivolgiamo un saluto al presidente Mattarella); Pio La Torre per la lotta contro i missili in Sicilia e per la pace. E dobbiamo altresì essere grati ai giudici che sono morti per difendere la legalità e lo Stato di diritto.

Al crocevia del mondo

E ora fatemi dire perché è importante celebrare la Liberazione qui a Reggio, ed è così importante che l’Anpi sia riuscita a riportare questo evento nel cuore di questa città. Ho rivisto ieri nel vostro meraviglioso museo i bronzi di Riace, venuti dal profondo del Mediterraneo a ricordarci quali sono le nostre vere radici, da dove vengono i valori più alti che dopo una lunga storia di lacrime e sangue sono da ultimo approdati nella nostra Repubblica e nella nostra Costituzione. Questi valori da qui devono ripartire per rifare il mondo da capo. È infatti qui, nel Mediterraneo, nelle terre che lo circondano, a questo crocevia tra il Nord e il Sud del mondo, tra Oriente e Occidente, tra i popoli dell’Asia e delle Americhe, dell’Africa e dell’Europa che si decide il futuro. E ciò perché è cambiata la geografia del mondo!

Il centro non sta più nell’Atlantico del Nord, come pensavano quelli che, dichiarandosi vincitori della guerra fredda, addirittura volevano mettere la Nato al posto dell’Onu e decidere le nuove guerre da fare, a cominciare da quella contro la Jugoslavia. Il centro non sta più nell’Occidente, come pensavano quelli che in nome degli idoli e delle ideologie dell’Occidente volevano e forse ancora vogliono trascinarci in una guerra perpetua contro l’Islam, crociata che giustamente la Chiesa di Papa Francesco rifiuta. Il centro non è più l’Europa, come credevano quelli che perduto l’Impero, sciolta la Compagnia delle Indie, finito il dominio dei bianchi in Sudafrica e dei francesi in Algeria, volevano sostituire questo dominio con il nuovo imperialismo universale del denaro, del denaro come sovrano globale.

Invece ci sono nuovi popoli e nuovi soggetti storici che stanno uscendo dalle antiche servitù, e avanzano la candidatura a vivere «nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole», come dice lo Statuto delle Nazioni Unite. Questa è la novità.

Il centro del mondo non è la City di Londra o Wall Street, ma è dovunque si gioca l’alternativa tra la vita e la morte, tra la cultura dell’accoglienza e quella dello scarto, ed è qui dove si gioca l’alternativa tra un Mediterraneo come cimitero dove si pescano i morti o un Mediterraneo come una sorgente di acqua viva da cui scaturiscano la giustizia e la pace.

La giustizia e la pace sono le due grandi conquiste della lotta di Liberazione su cui è stato costruito poi l’intero edificio della nostra Costituzione. Esse non erano però solo delle stazioni di partenza ideali, ma traguardi reali da raggiungere, erano la costituzione materiale da attuare e non solo per noi, ma per tutti. Infatti sono beni comuni universali, e proprio qui, nel Mediterraneo, la giustizia e la pace hanno avuto la loro culla.

Da dove viene la giustizia

Quanto alla giustizia, fatemi citare solo l’art. 3 della Costituzione che dice che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Ciò in un senso più generale vuol dire che la Repubblica, lo Stato, sono lì per sostenere la società, per fare da supporto ai deboli, ai poveri, per portare sulle spalle i miseri, per prendere su di sé le esigenze, i bisogni, le speranze del popolo; e l’art. 10 estende allo straniero questo farsi carico, quest’attenzione della Repubblica per l’uomo in difficoltà, a cominciare dal perseguitato, dall’esule, dallo straniero.

Ma quattromila anni fa, attorno al Mediterraneo, già si scrivevano e si progettavano queste cose. E ciò accadeva, prima ancora che si scrivesse la Bibbia, proprio in quei luoghi della Mesopotamia e del Medio Oriente che oggi l’Occidente ha messo a ferro e fuoco per esportarvi la sua democrazia. In quelle antiche società la giustizia del re, cioè del potere di allora, consisteva nel far giustizia al povero, all’orfano, alla vedova, allo straniero, cioè nel compensare con la sua forza la debolezza del debole e con il suo potere l’impotenza degli oppressi; dunque si trattava di un potere che prendeva parte, che si accorgeva di chi è curvo, un potere che vede il colore della pelle di chi invoca giustizia.

Per esempio nel secolo XXI a.C., 4000 anni prima di Keynes, prima dello Stato sociale, nel Codice di Ur dei Caldei, dove ora c’è l’Iraq, il re Urnammu si vantava che ad Ur l’orfano non era più in balia del ricco, la vedova in balia del potente, l’uomo di un siclo di quello che possedeva una mina; nel 1700 a.C., 3600 anni prima della dichiarazione universale dei diritti umani, nel Codice di Hammurabi il re si dava carico che «il forte non avesse ad opprimere il debole» e poneva la legge «per garantire la giustizia agli oppressi». In Egitto, al tempo del Medio Impero, un contadino si appellava al vizir del suo distretto per avere giustizia dicendo: «Tu sei il padre dell’orfano, il marito della vedova, il fratello della divorziata, il grembiule di chi non ha madre…» [1].

Da dove viene la pace

Questo, quanto alla giustizia. E quanto alla pace fatemi citare l’art. 11 della nostra Costituzione che ripudia la guerra e dice che è compito della Repubblica, anche a scapito della sua sovranità, volgersi a costruire «un ordinamento di giustizia e di pace tra le nazioni». Ma già tremila anni fa sulle rive del Mediterraneo le profezie bibliche annunciavano che le lance sarebbero state tramutate in falci, che sarebbe stato spezzato l’arco di guerra e un popolo non si sarebbe più levato in armi contro un altro popolo, e poi il cristianesimo annunciò che Dio stesso si era fatto mettere in croce per far fiorire la pace sulla terra. E i bronzi di Riace, se davvero alludono a Eteocle e Polinice, ci parlano di Antigone, della prima obiezione di coscienza contro la guerra fratricida, contro la città che si vendica.

Allora che cosa vuol dire ripartire da qui, dal Mediterraneo, per realizzare nel mondo questi valori? Si tratta di passare dalla globalizzazione dell’indifferenza, dell’inimicizia, della diseguaglianza alla globalizzazione della pace, dell’accoglienza senza esclusioni e della dignità umana fondata sul lavoro.

Come ancora sono lontane

Per quanto riguarda la pace, è chiaro che oggi essa è negata da gran parte della politica nazionale e mondiale. L’art 11 della Costituzione è contraddetto dalla politica nazionale quando si estende la formula della difesa fino all’invio di forze armate in Africa per intercettare le carovane di profughi nel deserto o per attivare la marina libica alla caccia e alla cattura dei migranti nel Mediterraneo, fino alla negazione di ogni umanità nei campi profughi. La pace è negata dalla politica nazionale quando l’Italia non approva, non firma e non ratifica il trattato dell’Onu sull’interdizione delle armi nucleari, mentre rifornisce di armi Paesi che ne bombardano altri e primeggia nel mercato degli armamenti realizzando uno dei più alti avanzi commerciali del settore.

La pace è negata dalla politica internazionale quando Trump reintroduce nelle opzioni americane la risposta nucleare a offese “convenzionali” e perfino al terrorismo. La pace è negata dalla politica internazionale quando si continuano ad agitare gli spettri di false armi di distruzione di massa per scatenare guerre o bombardamenti reali, come ieri contro l’Iraq e oggi contro la Siria. La pace è negata dalla politica internazionale quando l’Onu viene esclusa dal compito che dovrebbe svolgere di fronteggiare le minacce e le violazioni della pace, della sovranità e gli atti di aggressione. La pace è negata dalla politica internazionale quando le potenze nucleari respingono il bando delle armi nucleari, e quando Stati o sedicenti Stati alimentano la guerra mondiale diffusa già in atto e avallano e praticano politiche di genocidio.

L’Italia deve aderire al patto antinucleare, non deve fornire armi all’Arabia Saudita, al Kuwait, alla Libia e ad Israele che continua a negare lo Stato di Palestina: perfino a Roma l’Anpi ha dovuto respingere la richiesta della comunità ebraica di non far sfilare i palestinesi nel corteo del 25 aprile; i palestinesi non devono esistere, non devono più essere visibili.

Quello che invece si deve fare, con una grande lotta politica nazionale e internazionale, è di dare seguito al capo VII della Carta dell’Onu che postula una forza di polizia internazionale comandata dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, e attuare le risoluzioni dell’Onu. E si deve riprendere la grande proposta avanzata da Gorbaciov e dall’indiano Rajiv Gandhi alla fine della guerra fredda di «un mondo senza armi nucleari e non violento». Un mondo, si può oggi aggiungere, sollecito verso la propria conservazione e salvaguardia anche fisica secondo le richieste della intera comunità scientifica fatte proprie anche dalla Enciclica «Laudato sì’». Allora diventerà nuovamente possibile dare effettività all’art. 11 della Costituzione.

Per quanto riguarda l’accoglienza il punto è di riconoscere e realizzare l’unità umana. Deve cadere la discriminazione della cittadinanza che è l’ultima discriminazione che è rimasta dopo che tutte le altre (di sesso, di razza, di religione) almeno in via di principio sono cadute. Questa discriminazione dell’altro, di chi è nato altrove, di chi non è cittadino deve ora essere superata attraverso politiche programmate e controllate di accoglienza, protezione e integrazione. Esse devono mirare a realizzare lo ius migrandi, il diritto di migrare, già proclamato come diritto umano universale all’inizio della modernità. La realtà delle migrazioni è un prodotto irrecusabile della globalizzazione che noi stessi abbiamo voluto e perseguito. Non è possibile nasconderla, segregarla o reprimerla perché questo porta con sé, in nuce, il genocidio. La xenofobia è una nuova declinazione del fascismo, e il genocidio è il suo punto finale. Quello delle migrazioni non è più pertanto un problema esterno degli Stati, ma un problema interno dell’unica Nazione umana e del suo ordinamento giuridico sulla terra. L’Italia per la sua posizione geopolitica, ma ancora di più per il suo dna, deve essere all’avanguardia nell’avviare questo processo e nel rivendicarlo dagli altri, prima che la catastrofe avvenga.

Per quanto riguarda la dignità umana fondata sul lavoro noi siamo oggi di fronte a un’impotenza del sistema economico vigente che non è più in grado di creare il lavoro necessario alla vita. E non è in grado non perché il lavoro costa troppo, come vuol far credere il Jobs act, ma semplicemente perché il lavoro non c’è, esso è stato e in misura crescente viene distrutto dalle macchine, dall’automazione e dai capitali che corrono liberamente dove i poveri sono sfruttati le tasse non si pagano e i diritti non ci sono. Ciò è avvenuto non gradualmente, come all’inizio della rivoluzione industriale, ma è avvenuto con enorme rapidità, anche perché sono stati fatti massicci investimenti nell’innovazione tecnologica proprio allo scopo di distruggere lavoro umano o per delocalizzarlo in zone meno protette, dove non costa nulla, o addirittura c’è di nuovo il lavoro schiavo; ce ne sono infatti 45,8 milioni in tutto il mondo, di cui 18,35 solo in India.

La mancanza di lavoro sta raggiungendo tali dimensioni di massa da alterare tutti gli equilibri dei rapporti economici politici e sociali.

In Italia, venendo meno il lavoro, la Repubblica perde il suo fondamento (art. 1 Cost.) e perciò la sua stabilità e la sicurezza del suo futuro; in Europa l’Unione economica e monetaria perde il primo dei tre obiettivi fondamentali per cui è stata costituita e via via potenziata, ossia «piena occupazione, progresso sociale e tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente» come prevede l’art. 3 del Trattato sull’Unione; nel mondo il sistema economico perde l’equilibrio dialettico tra capitale e lavoro, deprimendo fino a sopprimerlo il fattore lavoro. La resa in tal modo imposta a uno dei due protagonisti del conflitto capitale-lavoro, non lo risolve, ma ne spegne la spinta propulsiva e spinge la polarizzazione delle diseguaglianze fino agli estremi di una ricchezza detenuta da una decina di uomini pari a quella complessiva di 3,6 miliardi di persone sulla terra.

Per ristabilire gli equilibri e una società vivibile è ora necessario creare nuovo lavoro e, renitente il mercato, questo non può farlo che il soggetto pubblico, nelle sue varie articolazioni e competenze, sia in Italia che in Europa che a livello globale.

A tal fine la prima cosa che l’Italia dovrebbe fare e nel contempo proporre all’Europa, è di riaprire il glorioso capitolo dell’intervento pubblico nell’economia, contro il dettato del Trattato europeo che proibisce gli “aiuti di Stato”, che non sono aiuti ma la manifestazione stessa della comunità politica sovrana come soggetto anche economico.

Non si tratta di “uscire dall’Europa” o dall’euro, si tratta di promuovere una revisione delle norme istitutive: se più volte si è cercato di cambiare la Costituzione italiana, tanto più si può cercare di modificare un trattato europeo. Del resto lo stesso Trattato sul funzionamento dell’Unione europea all’art. 107 ammette l’intervento dello Stato quando ci siano regioni «ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione». Ebbene, questa situazione indubbiamente esiste in Italia quando ci sono 5 milioni di persone che vivono “in povertà assoluta”, 18 milioni “a rischio di povertà e di esclusione”, e la disoccupazione è all’11 per cento con 3 milioni di disoccupati tra cui il 37 per cento dei giovani, soprattutto nel Sud: ciò che non è un semplice “difetto” della politica, è un crimine.

Se da qui, da questo centro del mondo, riusciremo a promuovere queste politiche, non solo per noi, ma a livello globale, secondo i vecchi principi dell’internazionalismo, allora i grandi valori umani universali concepiti sulle sponde del Mediterraneo e giunti fino al giorno della nostra Liberazione e fino ad oggi, potranno dar luogo a un nuovo costituzionalismo, a una nuova comunità internazionale di diritto, il mondo troverà la sua unità e, come dicevano le antiche Scritture, giustizia e pace si baceranno sulla terra.

*Discorso tenuto alla festa della Liberazione promossa dall’Anpi di Reggio Calabria – 25 aprile 2018

[1] Vds. Jacques Dupont, Le Beatitudini, Edizioni Paoline, Roma, 1976, vol. I, parte II, cap. II, pp. 577 seg.

Sa die de Sa Sardinia

sa-die-ras-2018(RAS) Sa die de Sa Sardigna
Domani, Sabato 28 aprile 2018, ricorre la festa di “Sa die de sa Sardigna”, istituita dal Consiglio regionale della Sardegna con Legge Regionale n. 44 del 14 settembre 1993, in ricordo della sommossa dei vespri sardi del 28 aprile 1794.
Il programma prevede la celebrazione a Palazzo Viceregio e la messa solenne in Cattedrale (piazza Palazzo) a partire dalle ore 9. Nel pomeriggio sono previste diverse attività culturali e della tradizione presso l’Exma (via San Lucifero, 71).
Scarica la locandina [file.pdf]
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“SA DIE DE SA SARDIGNA” A SASSARI: VENERDI’ 27 APRILE SPETTACOLO ITINERANTE
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A Sassari, venerdì 27 aprile, alla vigilia di Sa die de sa Sardigna e nell’ambito delle iniziative promosse per questa ricorrenza, la compagnia “Arza Teatro”, diretta da Romano Foddai, proporrà uno spettacolo itinerante che avrà inizio alle ore 18 in piazza Santa Caterina, proseguirà in piazza del Comune e si concluderà in piazza Duomo.

NewsLetter

img_4810Newsletter n. 85 del 27 aprile 2018

La miccia della LIBERAZIONE

Cari Amici,

Gli Editoriali e altro del mondo Aladin

lampada aladin micromicro img_5463È necessario costruire una nuova infrastruttura intelligente di Terza Rivoluzione Industriale. Se su questo si creasse consenso trasversale, avremmo una nuova visione capace di ispirare le prossime tre generazioni in Italia. L’opinione dell’economista americano 220px-jeremy_rifkin_2009_by_stephan_rohldi JEREMY RIFKIN
19 aprile 2018 su L’Espresso
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lampadadialadmicromicro133Ripreso da Aladinews Editoriali
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ArchimedSi riaccende il dibattito sulle Macroregioni/Euroregioni? Ne saremo contenti. Intanto alcuni contributi datati, ma tuttora validi di Aladinews.
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img_5719Significato del 25 aprile 25 Aprile 2018 Festa della Liberazione.
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Peppe Sini, responsabile del “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani” di Viterbo, su Democraziaoggi.
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l-ferrajoli-manifesto-eg I fondamenti etico-politico, giuridico-costituzionale ed economico-sociale del “reddito di cittadinanza”. di Gianfranco Sabattini.
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Ottantuno anni dopo la morte. Antonio Gramsci, figura sempre attuale

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Antonio Gramsci
«Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza».
(Antonio Gramsci, sul primo numero di L’Ordine Nuovo, primo maggio 1919)
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di Pietro Maurandi*
Ottantuno anni fa, il 27 aprile del 1937, moriva Antonio Gramsci, dopo più di dieci anni di carcere e qualche mese di libertà, quando era già malato e prossimo alla fine.

Il fascismo aveva imprigionato il corpo, ma la mente – pur nelle difficoltà della prigionia e della cattiva salute – aveva lavorato intensamente e aveva lasciato ai suoi contemporanei e a noi, al mondo, un’opera la cui profondità e complessità è in parte ancora da scandagliare. “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare” disse il Pubblico Ministero al processo contro Gramsci e altri antifascisti nel maggio del 1928. Mai previsione fu più smentita dai fatti. Il cervello funzionò fino a travalicare la prigione e il tempo e a giungere fino a noi.

La cognata Tania Schucht ebbe l’accortezza di portar via dalla clinica tutto il materiale di Gramsci, soprattutto i suoi scritti, sottraendoli così dalle mani dei suoi carcerieri. Attraverso vari passaggi, da Tania a Sraffa (l’amico e sostegno di sempre, allora professore di Economia a Cambridge) a Julka, la moglie di Gramsci, erano giunti infine nelle mani di Togliatti, che li aveva custoditi gelosamente fino alla fine della guerra e del fascismo, fino a che nel 1950 erano stati depositati nella costituenda Fondazione Antonio Gramsci, che nacque proprio in quegli anni.

Fra il 1948 e il 1951 erano apparse per Einaudi alcune parti degli scritti di Gramsci. Successivamente Togliatti aveva incaricato il filosofo Valentino Gerratana della pubblicazione critica delle opere, che avvenne nel 1975. Con un lavoro complesso e delicato, in quanto i Quaderni non hanno alcun ordine: è toccato al curatore dargliene uno, in modo che per un verso venisse rispettato il pensiero dell’autore, per un altro se ne rendesse intellegibile il contenuto anche a lettori non specialisti.

Così gli scritti di Gramsci sono giunti fino a noi e si sono diffusi nel mondo: Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Russia, Cina, India, America Latina.

Le pubblicazioni su Gramsci nel mondo hanno di gran lunga travalicato le 10.000 unità. Insomma, la letteratura su Gramsci è sterminata; si tratta infatti dell’autore italiano tra i più pubblicati, studiati, tradotti nel mondo.

È un fatto sorprendente, una cosa prodigiosa, se si pensa alle difficoltà che esistono per leggere i Quaderni. Come ho detto, non hanno un ordine di nessun genere e chi li ha pubblicati si è dovuto misurare prima di tutto con questa difficoltà.

Fra il 1948 e il 1951, su impulso di Togliatti, ne fu pubblicata una parte a cura di Felice Platone. Nel 1975, sempre su impulso di Togliatti (che, morto nel 1964, non vide l’opera compiuta) venne finalmente pubblicata l’edizione critica, curata come ho detto da Valentino Gerratana.

Oggi i quaderni sono custoditi presso la Fondazione Antonio Gramsci di Roma, a disposizione degli studiosi e di chiunque voglia confrontarsi con essi. Recentemente a Cagliari, nei locali della Fondazione di Sardegna è stata organizzata una mostra dei Quaderni. Mi piace anche ricordare che qualche anno fa L’Unione Sarda ha pubblicato, con la cura di Aldo Accardo e di Gianni Francioni, la copia anastatica dei manoscritti dei Quaderni del carcere.

Non era solo un omaggio a un “grande sardo” come si dice; era una felice iniziativa per divulgare la conoscenza dell’opera di un uomo politico e un filosofo e un comunista che non ha mai ceduto a opportunismi, convenienze, mode correnti.

Mi sembra che la figura di Antonio Gramsci sia tuttora vivissima, anche al di là dell’interesse degli specialisti, una di quelle figure che lasciano il segno nella coscienza delle persone e nella cultura dei popoli, in Sardegna, in Italia e nel mondo.

Gramsci è perfettamente collocato nel suo tempo, negli sconquassi che lo hanno caratterizzato: la guerra, il dopoguerra, la rivoluzione bolscevica, il fascismo, il nazismo, la socialdemocrazia e la sua crisi. Dal suo tempo parla al mondo, anche a noi. Non è un santino buono per tutti gli usi. Ha vissuto, compatibilmente con la condizione di carcerato, i problemi e le contraddizioni e le lotte anche all’interno del movimento comunista internazionale, del partito sovietico e degli altri. Ne ha sofferto, ma non ha cessato di prendere posizione, di esprimere valutazioni mai settarie, sempre fondate su analisi ragionate e profonde. Da quella condizione e da quel tempo parla anche a noi uomini di oggi, con un pensiero e con uno stile di vita che sono rimasti io credo unici, per la profondità, la determinazione, la capacità di resistenza e la ricerca di continuo arricchimento politico e culturale.
*Pietro Maurandi,
Presidente dell’Istituto Antonio Gramsci della Sardegna.