Monthly Archives: agosto 2020

Diocesi di Suelli: da san Giorgio, Vescovo stampacino, a Brian Udaigwe, Vescovo camerunense

Abbiamo in Sardegna un vescovo africano: Brian Udaigwe, 56 anni, nativo del Camerun, nunzio apostolico nello Sri Lanka, è titolare, a titolo personale, della Diocesi sarda di Suelli.

archbishop-brian-udaigwesuelli_san_pietro Brian Udaigwe
è vescovo titolare di Suelli.
L’antica Diocesi di Suelli, eretta nel XI secolo e soppressa nel 1420 per essere inglobata nell’arcidiocesi di Cagliari, dal 1969 è annoverata tra le sedi vescovili titolari della Chiesa cattolica; l’attuale vescovo, titolare, a titolo personale, è Brian Udaigwe, 56 anni, nativo del Camerun di recente nominato da Papa Francesco nunzio apostolico nello Sri Lanka.
- Rammentiamo infine che il Consiglio comunale di Suelli, in data 9 settembre 2016, ha conferito al Vescovo Udaigwe (e insieme a lui al Vescovo Antioco Piseddu, già titolare della Diocesi di Lanusei) la cittadinanza onoraria di Suelli.
- Diocesi di Suelli – Wikipedia
Aspettiamo una sua nuova visita!
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- Anche su Giornalia.

Per un modello di imprese basato sulla centralità del lavoro

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La coesistenza competitiva tra due modelli di impresa
di Nino Lisi
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Sbilanciamoci!, 26 Agosto 2020 | Sezione: Lavoro, primo piano.
Landini e Pennacchi recentemente sono tornati a parlare di un modello economico che abbia il lavoro come baricentro. E ciò fa tornare attuali le riflessioni iniziate ai primi anni Ottanta in ambito Cisl ma anche nella Cgil e nella Convenzione dell’Alternativa sul capitale sociale.

Maurizio Landini, il segretario generale della maggiore confederazione sindacale di lavoratori italiana, intervistato da “La Repubblica” il 6 agosto scorso su “qual è il modello di sviluppo che proponete?”, ha risposto: “Un nuovo modello deve mettere al centro il lavoro e mettere al centro gli investimenti su sanità pubblica, istruzione – con obbligo scolastico sino a 18 anni -, deve prevedere asili nido dove non ci sono e formazione permanente. C’è da gestire la transizione ambientale e produttiva, con addio al carbone alle fonti fossili, gestire la manutenzione del territorio e trasformare cultura, turismo e storia d’Italia in elementi di crescita. Vanno fatti ripartire investimenti fisici su infrastrutture, Mezzogiorno e ferrovie ma dobbiamo anche dotarci di una rete digitale che non abbiamo. E serve un ruolo pubblico che indirizzi investimenti ed indichi le priorità a partire dalla mobilità sostenibile”.

lavorare-pennacchiDifficilmente si sarebbe potuto dire di più e meglio in poche battute per delineare un orizzonte che richiama chiaramente quello descritto da Laura Pennacchi nel libro collettaneo Lavorare è una parola (Donzelli 2020, pag. 214.€ 15,00). Trattando de “Lo Stato nell’economia e nel Lavoro” e delineando una funzione strategica dello Stato nell’economia, Laura Pennacchi propone “una strategia volta a porre le basi di un nuovo modello economico creando direttamente lavoro” (pag. 234). E caratterizza il nuovo modello come quello “in cui gli interrogativi sul “per chi, cosa, come produrre trovano risposta anche in una innovazione piegata a soddisfare domande sociali”. Coerentemente raccomanda di puntare “senza negare l’importanza delle esportazioni sulla domanda interna e sui consumi collettivi” il che consentirebbe per altro di allargare lo spettro delle produzioni, di aprire nuovi campi di ricerca, di sviluppare nuovi bisogni”. Un modello capace di recuperare l’ispirazione autentica dei Piani di Lavoro del New Deal di Roosevelt e farne “non una misura che si aggiunga alle altre” ma “il baricentro dell’intera politica economica”, il pilastro di una “politica della speranza” opposta ad una “politica della paura”.

Il quadro di questo nuovo modello si completa con l’indicazione – data dallo stesso Landini in un’intervista televisiva solo di qualche giorno fa – del sindacato come presidio e garanzia di libertà nel posto di lavoro e fuori di esso non soltanto per il lavoro dipendente ma per tutto il lavoro.

Quella che viene proposta dalla Cgil dunque, come da chiunque – e sono molti in questi giorni – sostiene la necessità di un modello nuovo dell’economia, è una trasformazione economica e sociale assai profonda del Paese e dello stesso sindacato. Alcuni decenni fa per esprimere la qualità e le dimensioni della trasformazione auspicata si sarebbe parlato di riforme di struttura per non usare un termine più esplicito da cui si rifuggiva perché delle parole si può aver paura.

Comunque lo si chiami bisogna avere e dare contezza della imponente sfida che si ha dinanzi proponendo di cambiare modello di società e di economia.

Il primo interrogativo da porsi riguarda il modello di impresa che occorra per realizzare una politica economica che abbia nel lavoro il suo baricentro. Non voglio addentrarmi nella diatriba sulla possibilità o meno che il capitalismo si riformi e di quanti siano i capitalismi esistenti. Vorrei solo provare a trovare una risposta alla domanda posta. Ritengo che l’impresa votata al profitto ed alla sua massimizzazione non rappresenti il modello adatto e provo a spiegarlo. Il profitto si forma e si calcola per sottrazione dei costi di produzione dai ricavi. Minori sono i costi più alto è il profitto e viceversa. Taluni costi sono pressoché incomprimibili, come quelli delle materie prime, dei semilavorati, delle fonti energetiche, etc. Anche i contributi, le imposte e le tasse lo sarebbero se non si facesse troppo spesso ricorso alla elusione e alla evasione. Il lavoro invece è comprimibile sia perché è sostituibile con le tecnologie, sia perché si può riuscire in vari modi a pagarlo meno. Mi sembra quindi evidente che sia inverosimile che un’impresa votata al profitto possa porre il lavoro al centro della propria organizzazione ed attività

Altrettanto inverosimile sarebbe immaginare un’economia senza imprese volte al profitto, tanto più in democrazia. Se quindi si vuole puntare ad un modello economico che “deve mettere al centro il lavoro” non c’è che ricorrere ad un’economia a doppio binario, ovvero con un duplice sistema di imprese: uno di quelle che assumono la centralità del lavoro e l’altro di quelle che assumano come centrale il profitto. Ambedue connessi in una sorta di coesistenza competitiva.

Una stravaganza ferragostana in tempi di coronavirus? Ma no. Imprese non votate al profitto ci sono sempre state. E ci sono. Soltanto che sono tra loro sconnesse e non hanno rilievo.

Quando nel 1983 cominciava ad essere chiaro che il sistema delle imprese non avrebbe più assicurato alti livelli di occupazione e Pierre Carniti lanciò l’idea del prelievo dello 0,5% dei salari, proprio su di un modello di imprese che assumessero come centralità il lavoro e venne imperniato un progetto messo a punto, nella sede nazionale della Cgil in corso d’Italia a Roma, sotto l’egida del Coopsind, da un gruppo di lavoro coordinato da Silvano Levrero. I lavori iniziarono ai primi di gennaio e si conclusero a maggio di quell’anno. Fu prevista la nascita di un “Fondo di Investimenti dei Lavoratori” sull’esempio dei primi Fondi Comuni di Investimento che si andavano formando in quel periodo. Avrebbe dovuto raccogliere il prelievo su base volontaria dello 0,5% dei salari per finanziare la creazione di nuove imprese autogestite, con le quali apprestare su tutto il territorio nazionale una risposta concreta alla richiesta di occupazione e promuovere un’economia fortemente legata ai singoli territori. Il progetto prevedeva anche apposite strutture tecniche in grado di assicurare la progettazione di imprese e la loro assistenza alle start up. A questo riguardo fu anche riservatamente esplorata la disponibilità dell’Eni a supportare il progetto con lo staff dell’Indeni, una finanziaria di sviluppo che si cimentava con il ricollocamento al lavoro, mediante la creazione di nuove imprese, delle maestranze espulse da aziende private in dissesto.

Il progetto venne trasmesso dal presidente del Coopsind, Mario Zigarella, alla segretria confederale della Cgil nel maggio del 1983 e a settembre di quell’anno fu presentato al Convegno che la Cisl tenne al Castello Giusso di Vico Equense in provincia di Napoli sul tema “Fondo di Solidarietà. Una scelta per il Lavoro e lo Sviluppo”. In quella sede si poté constatare che fra il progetto della Cgil e quello della Cisl c’erano molte coincidenze e la medesima ispirazione.

Nessuno dei due Fondi però ebbe vita, perché sulla prospettiva di allentare la presa del Capitale sul Lavoro prevalsero la ritrosia ad effettuare un prelievo sui salari, ancorché su base volontaria e in misura pressoché irrilevante, e la preoccupazione che il sindacato, esorbitando dalle consuete proprie funzioni di tutela, potesse snaturarsi.

Una nuova occasione per riproporre lo sviluppo di imprese che assumessero la centralità del lavoro si presentò esattamente vent’anni dopo, con la crisi dell’area industriale di Marghera.

Negli ambienti della nuova sinistra si pensò di organizzare un convegno da tenersi a Venezia per dibattere su come affrontare il problema del lavoro nelle aree di crisi. Era la sera dell’8 novembre del 1993 quando, in una stanza della redazione de il manifesto, che all’epoca era in via Tomacelli, venne discusso e approvato da un apposito gruppo di lavoro quella che avrebbe potuto essere la relazione di base del convegno. Si era ripromessa di promuoverlo la “Convenzione per l’Alternativa”. Preso atto del passaggio d’epoca in atto e della problematicità con cui si presentava l’occupazione della “forza-lavoro”, il documento sosteneva che non si sarebbe dovuto più lasciare al capitale “l’iniziativa e l’onere di assorbire la forza-lavoro nei suoi cicli produttivi e distributivi in base alla propria logica, ai propri meccanismi di accumulazione, al proprio modo di produzione, ai propri modelli di consumo”, ma che era giunto il momento in cui “le soluzioni che il capitale non è capace di mettere in campo devono essere perseguite per altre vie, dandosi carico di coprire in proprio, ma con una diversa logica, con diversi modelli, con la propria struttura di valori, gli spazi che l’avversario non è in grado di coprire e di gestire o non ha interesse a farlo. Non si tratta – proseguiva il testo – di sostituirsi all’avversario. Si tratta di passare da una coesistenza subalterna (tra lavoro e capitale) ad una coesistenza competitiva” tra due sistemi di imprese.

Il convegno non si tenne per una sopravvenuta crisi di governo che spostò l’attenzione e le tensioni su altri temi. Ma molte cose erano frattanto avvenute. L’onda del neoliberismo aveva investito anche diversi settori della sinistra. Non pochi di essi nutrirono l’illusione di poter cavalcare la “globalizzazione buona” e promuovere la “globalizzazione dei diritti”. Con il duplice risultato del dissolvimento della sinistra, allontanatasi dall’ottica dei lavoratori, e dell’impoverimento dei diritti del lavoro.

A dimostrazione che l’esigenza di un diverso approccio al tema del lavoro permane, al di là dei cambiamenti di epoca e di fase, l’argomento fu riproposto dodici anni dopo da A.R.C.O., Associazione per la Ricerca e la Comunicazione, guidata dal professor Giovanni Battista Montironi, docente di Sociologia del lavoro all’Università degli Studi di Perugia. Montironi, scomparso purtroppo di recente, aveva curato la ristrutturazione organizzativa dell’Alfa Romeo di Arese mostrando che le nuove tecnologie, se favorivano il Capitale riducendo i suoi fabbisogni di lavoro, fornivano però, al Lavoro, l’occasione di modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza in fabbrica. Tanto è vero che la Fiat, appena entrata in possesso dello stabilimento di Arese, eliminò la riorganizzazione di Montironi, pur avendone in precedenze adottato nelle proprie scuole per la formazione dei dirigenti, il testo in cui se ne dava conto.

A.R.C.O. presentò le proprie “Idee per un Programma Politico” il 28 ottobre del 2005, ospite nel salone in via Ostiense 152/b della Comunità di Base di San Paolo, sorta da tempo per la spinta profetica di Giovanni Franzoni, già padre conciliare e abate della Basilica di S.Paolo. Pure le “idee” di A.R.C.O. non ebbero però seguito.

Ultimo in ordine di tempo a rilanciare il tema di un modello di impresa che ponesse il lavoro al centro della sua organizzazione è stato il compianto professore Bruno Amoroso, economista dell’Università di Roskild (Danimarca) con il suo Centro studi Federico Caffè di Roma.

Illustrò il progetto sul numero 2 del 2011 della Rivista Giuridica della Cgil sotto il titolo “Lavoro e Redditi – Dagli Ammortizzatori Sociali a Nuove Forme di Organizzazione Economico Sociale”, nel quale sosteneva che la disoccupazione aveva ormai carattere strutturale e che quindi risultava inadeguato il sistema esistente di ammortizzatori sociali, concepito per far fronte agli effetti transitori della congiuntura economica. Per affrontare la disoccupazione di carattere strutturale doveva quindi porsi mano alla creazione di posti di lavoro e a tal fine si sarebbe dovuto ricorrere a “nuove forme di organizzazione economico sociale”, in altri termini si sarebbe dovuto ricorrere ad un modello di imprese che assumessero la centralità del lavoro e portare a sistema il gran numero di imprese esistenti che non facevano del profitto la propria funzione obiettivo. E sono davvero molte le imprese con questo requisito: sono le imprese sociali, quante costituiscono quello che secondo alcuni sociologi ed economisti costituirebbero il cosiddetto capitalismo molecolare che, secondo altri loro colleghi, di capitalistico avrebbero poco o niente. Sono ancora le organizzazioni produttive promosse dalla imprenditoria che Angelo Detragiache definì popolare, sorta per lo più da “spin-off “di imprese ristrutturatesi esternalizzando fasi del proprio processo produttivo o taluni servizi. Sono un’infinità. Non riescono a fare sistema in mancanza di una politica che le sostenga e, così frammentate, restano spesso subordinate, come anche lo sono molte volte alcune forme di lavoro autonomo, alle imprese di tipo capitalistico, quasi alla pari del lavoro dipendente, senza averne però le garanzie, da esso conquistate con le lotte.

Il progetto prevedeva tra l’altro anche la costituzione di un “Fondo Solidale per l’Occupazione”. Si trattava, insomma, dello stesso impianto, ovviamente aggiornato, del progetto del Coopsind del 1983, che non a caso venne citato nel seminario svoltosi nel salone Di Vittorio della sede nazionale della Cgil per illustrare il progetto. Pure quella volta non vi furono sviluppi.

Ora però l’esigenza di un nuovo modello economico, di cui tanti parlano in questi giorni, anche se chiamandolo secondo me impropriamente di sviluppo, e sulla quale autorevolmente insiste molto Maurizio Landini, rende improcrastinabile che ci si renda conto e ci si responsabilizzi del fatto che un nuovo modello economico richiede imprescindibilmente di sottrarre il Lavoro dalla subordinazione al Capitale, sviluppando e portando a sistema il modello di impresa nel quale il Lavoro come funzione obiettivo si affianchi in una proficua coesistenza competitiva nell’impresa avente il profitto come funzione obiettivo.

Che a promuovere lo sviluppo di “formazioni economico sociali” di questo tipo sia il sindacato o siano altri soggetti sotto la spinta di forze politiche che ritrovino nel Lavoro il loro principale riferimento, o ambedue, non importa. Un dato, però, appare certo: senza che il Lavoro entri nello scenario economico come soggetto non subalterno ad alcuno, non vi sarà alcuna riconversione né ambientale né sociale di alcuna economia.
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Lavorare meno un antidoto alla crisi? Le proposte di Germania e Finlandia
di Michele Pignatelli
Sbilanciamoci!, 27 Agosto 2020 | Sezione: Lavoro, Nella rete
Lavorare meno per lavorare tutti, con più produttività. Le proposte di IG Metall e della premier finlandese riportano di attualità il dibattito. Da Il Sole 24 Ore.
[segue]

Oggi lunedì 31 agosto 2020

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I costituzionalisti per il No al taglio dei parlamentari superano quota 200
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Storia di una famiglia partigiana
31 Agosto 2020 – Già pubblicato il 25 Aprile 2020
Sonia Aquilotti racconta a Gianna Lai, su Democraziaoggi.
La mia era una vecchia famiglia di Urbino, i nonni socialisti e poi comunisti, nonna Erminia la prima donna in città con tessera del PCd’I. Uno zio lo chiamavano Avanti, portava il giornale socialista ai contadini, perché lì, in quel territorio erano […]
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Bartolomeo I: non c’è progresso fondato sulla distruzione della natura
Nel suo Messaggio per la Giornata di preghiera per la salvaguardia del creato del primo settembre, il Patriarca ortodosso ecumenico è netto: biodiversità distrutte ed equilibrio climatico al collasso richiedono un’azione comune di singoli e governi, “lo sviluppo economico -scrive – non può rimanere un incubo per l’ecologia”
Alessandro De Carolis – Vatican News.
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Che succede?

c3dem_banner_04Un appello di cattolici democratici e cristiano-sociali a votare NO
by Giampiero Forcesi | su C3dem.
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IL NO DI CASTAGNETTI. LA POLITICA DEL RISARCIMENTO. ELEZIONI USA. EBRU TIMTIK E ALTRO
Su C3dem.
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Ci serve un antidoto a vecchiaia e sfinimento.
Francesco D’Agostino, su Avvenire.
CORONAVIRUS. Il punto in cui siamo.
Roberto Colombo, su Avvenire.

Oggi domenica 30 agosto 2020

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0a89ddc8-bb19-4b33-bc04-28bb5674adeeCarbonia. Le agitazioni per il salario e per il riconoscimento della rappresentanza operaia
30 Agosto 2020
Gianna Lai su Democraziaoggi.
Col post di oggi festeggiamo un anno di pubblicazioni domenicali sulla storia di Carbonia, iniziate il 1° settembre dello scorso anno. Un lavoro prezioso e costante in vista della raccolta in un volume.
Una spinta forte a sostegno dell’attività sindacale della CGIL, in tutta la provincia, viene dagli operai del Sulcis […]
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Che succede?

asvis-oghettoNon c’è sviluppo sostenibile senza conflitto politico
Papa Francesco considerato un pericoloso estremista, gli industriali tedeschi che criticano l’incontro Greta–Merkel, i giornali francesi che discutono su un insetticida: la “giusta transizione” è un sentiero molto stretto.
di Donato Speroni su ASviS
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Oggi sabato 29 agosto 2020

Processo alla statua di Carlo Felice. Oggi Sabato 29 agosto ore 19.30. Diretta streaming su eja tv https://www.ejatv.com/
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Caro Zagrebelsky, in un referendum costituzionale non c’è quorum: l’astensione non risolve i problemi di coscienza
29 Agosto 2020
Tonino Dessì su Democraziaoggi.
Note sull’articolo di Gustavo Zagrebelsky, pubblicato su La Repubblica il 23 agosto 2020 e sul sito online Libertà e Giustizia*
Devo dire che di una posizione perplessa di Gustavo Zagrebelsky sul referendum di settembre avevo come il presentimento, avendo percepito le sue titubanze sulle tematiche della legittimità e dell’opportunità costituzionali della gestione […]
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Referendum. Incontro a Viterbo di Costituzionalisti per il NO.
29 Agosto 2020 su Democraziaoggi.
L’APPELLO DI 183 COSTITUZIONALISTI PER IL NO AL REFERENDUM. UN INCONTRO DI STUDIO A VITERBO.
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avvenire-it_logoCoronavirus: il mondo
L’Onu: è in pericolo una generazione «Senza scuola 463 milioni di ragazzi»
STEFANO VECCHIA su Avvenire.

Quel vento forte di Maestrale che soffia sui Monti di Mola e non tutto cancella.

a5249fd0-f230-434b-8c43-36bf1b94b330 Ma nudda si po’ fâ nudda in Gaddura che no lu énini a sapi int’un’ora

di Daniele Madau

“Non basta incidere su una pietra il nome Costa Smeralda per cancellare la memoria di Monti di Mola. Costa Smeralda è nome d’acqua e viene dal mare, dice di un colore e di un approdo. Monti di Mola è voce che risuona nell’oralità del tempo, rimbalza sulla cresta delle rocce, sprofonda nell’abisso della valle, s’interra nelle radici dell’olivastro. E’ nome di terra, nato dalla qualità della pietra con cui si facevano le mole per macinare il grano e per affilare le lame dei coltelli”.
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Sapevo che per parlare della Costa Smeralda – Monti di Mola, quando era solo terra di lavoro, più bella delle altre, però – o meglio, per esprimere il mio stato d’animo a riguardo della crisi sanitaria, le parole più adatte sarebbero state quelle dell’antropologo Bachisio Bandinu, che alla nascita di Porto Cervo e dei suoi corollari ha dedicato tanta parte della sua produzione: precisamente del suo romanzo L’amore del figlio meraviglioso .

Come il corona virus, anche il principe Aga Khan era venuto dal mare, con la sua visionarietà dovuta all’avere la mente libera, al non dover portare al pascolo le greggi e le mandrie, proprio come nella Grecia antica, dove tutto il lavoro manuale ricadeva sugli schiavi, e solo i liberi cittadini potevano dedicarsi alla cultura e alla politica.

Del resto, anche in Lombardia, in Italia, il virus è arrivato da fuori, da lontano: tutti noi, quindi, abbiamo potuto sperimentare il senso di violazione, di aggressione dell’intimità da parte di un agente alieno, esogeno, contro il quale non ci siamo potuti, o non abbiamo voluto, difenderci.

Si potrebbe pensare allora, potremmo pensare noi, sardi, che ora sia più forte l’empatia col Veneto, la Lombardia, l’Emilia, le regioni che maggiormante hanno sofferto nell’ondata epidemica di inizio primavera. Ma non ce n’era bisogno: l’empatia – spesso – sembriamo averla maggiormente verso gli altri che tra di noi, caratterizzati come male unidos dagli spagnoli, sia che l’avesse detto Carlo V che monsignor Antonio Parragues de Castillejo.

Eppure c’è una differenza tra i casi del nord e quello della Costa Smeralda; anzi, a ben vedere, due.

Non si vuole negare la sofferenza per quanto accaduto nelle altre regioni – non sarei degno di scrivere neanche una riga, nel caso – ma esprimere il disagio nel sentire ancora della Sardegna masticata nella bocca dell’informazione come del lontano pseudo–esotico in cui si annida un lato oscuro, diverso, non assimilabile dal resto d’Italia. Ancora. Come in tutto il novecento.

Non solo; questa volta, in più, c’è il fattore lusso e sbruffonaggine, ignoranza e imprenditoria d’assalto, che da ammaliatore e conquistatore del granito e della macchia mediterranea dei paesaggi galluresi, è diventato esportatore d’infezione. Sembra che solo in questo la Sardegna sia diventata esportatrice.

Non si vuole fare, ora, un’analisi politica: per quella serve la lucidità. Solo dare possibilità, ripeto, al disagio di manifestarsi, così da renderlo, forse, catartico.

Disagio, perché, al di là di tutto, dei soldi e dei posti di lavoro (sono cosciente della forza, e forse gravità, di quello che scrivo ma, se servirà, si potrà argomentare meglio), il “Sottovento”, il “Billionaire” e gli altri, sono una cicatrice, un grumo di sangue nero che il maestrale gallurese non è riuscito a cancellare e, forse, mai lo farà.

E’ questo il disagio: si parla di Sardegna ma, è chiaro, Sardegna non è. Non lo è nei nomi, nelle attività vagheggiate e realizzate, nelle relizzazioni architettoniche, nell’approccio ai rapporti umani e alla natura. Io non so se l’epidemia da noi si sarebbe mai diffusa senza i locali di Briatore e degli altri imprenditori, so solo che quella non è la mia Sardegna, né quella di Fabrizio De André (di cui avrete riconosciuto i versi prestati al titolo: ‘Niente si può fare in Gallura, che non si sappia entro un’ora’. Parlava dell’amore scandaloso tra un’asina e un uomo. Anche se puro, il potere lo impedì. Anche lì, purezza perduta), né quella dei protagonisti del romanzo di Bandinu.

Nel rimarcare il massimo rispetto e vicinanza umana ai lombardi, e a tutti gli altri, credo che solo noi sardi avremmo potuto vagheggiare sulla Gallura. Non l’abbiamo fatto, nostra culpa: paghiamo ancora il peccato originale dell’aver accolto, nuovi Montezuma, il principe ismaelita. Ma, come scrisse un altro autore, il più importante della storia delle letterature universali, ‘Non le farà sì bella sepultura, la vipera che Melanesi accampa, com’avria fatto il gallo di Gallura’ (La vipera che costituisce lo stemma dei Milanesi non ornerà il suo sepolcro così bene, come avrebbe fatto il gallo di Gallura, Purgatorio, canto VIII)

America, America

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di Marino de Medici

Consolazioni della Filosofia

73ce5f23-93a9-4d4d-a34d-595a6dc383e3Per i 250 anni della nascita di Hegel
di Lucio Garofalo.
In occasione della ricorrenza dei 250 anni dalla nascita di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il 27 agosto 1770, il mio intento non è di rendere un mero e banale ossequio commemorativo, in ogni caso dovuto, nei confronti di una personalità che si staglia tra i sommi protagonisti e gli interpreti migliori della civiltà e dello spirito europeo ed universale, bensì di rispolverare i temi da lui meditati ed affrontati con la forza penetrante di un genio assoluto e inarrivabile. Hegel campeggia a pieno titolo nell’Olimpo dei pensatori più influenti e geniali della storia della filosofia. È stato un autentico titano del pensiero, un punto di riferimento, sia per i suoi epigoni e ammiratori (dalla “destra hegeliana” alla “sinistra” dei “giovani hegeliani”, dalle cui fila sono scaturiti altri titani: Ludwig Feuerbach, Karl Marx e Max Stirner, vale a dire, rispettivamente, il padre dell’ateismo moderno e del “materialismo naturalistico”, il fondatore del “materialismo storico” e del “socialismo scientifico”, uno tra i massimi teorici dell’anarchismo individualistico), sia per gli avversari e i detrattori (da Schopenhauer a Nietzsche, da Kierkegaard ad Heidegger). [segue]

America, America

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GLI ITALO-AMERICANI, DA WOPS A WASP TRUMPISTI
di Marino de Medici

L’ultimo in ordine di tempo a rinnegare le radici democratiche degli italo-americani è il Postmaster General degli Stati Uniti, Louis DeJoy, che si è messo in luce come fedele esecutore della volontà del presidente Trump di sabotare il voto per posta.
Mr DeJoy è uno dei tanti italiani emigrati in America che hanno cambiato nome per cancellare la loro provenienza italiana. Il bisnonno paterno si chiamava Luigi De Gioia, nato in Italia nel 1875 ed emigrato in America. Il figlio era un meccanico che si fece strada nel campo dei trasporti privati. Louis DeJoy ebbe l’abilità di moltiplicare i profitti di quell’attività. Da buon miliardario repubblicano, contribuiva con un’ingente donazione alla campagna elettorale di Donald Trump. La nomina a Postmaster General era la ricompensa. In quell’incarico, l’oriundo De Gioia procedeva ad azzoppare il sistema postale ai danni di tutti quegli americani che contano sulle poste per ricevere, in aggiunta alle schede di voto, le medicine inviate per posta da consegnare in tempo utile. In pratica, il miliardario italo-americano oggi partecipa attivamente al piano di Trump volto a sopprimere il maggior numero possibile di voti postali che egli sospetta favoriscano il partito democratico.

Il caso di De Gioia è sintomatico di un fenomeno storico, quello della trasformazione di una massa di immigrati, con una maggioranza di poveri e analfabeti provenienti dal derelitto Mezzogiorno, in una minoranza etnica con caratteristiche WASP (bianca e anglosassone), in altre parole affluente. La vera ragione di tale trasformazione, evidente nelle ultime generazioni italo-americane, è però un’altra. Gli italo-americani dei giorni nostri non hanno più bisogno delle loro radici. Di fatto, le hanno rimpiazzate con nuove radici americane. Contrariamente ai loro padri, non lottano per entrare a far parte dell’establishment. Ora sono l’establishment. I De Gioia e tanti altri avevano cambiato nome perché al loro arrivo nutrivano vergogna per il loro nome italiano e di conseguenza rinnegavano la loro eredità di sangue. Di fatto, rinnegavano i connazionali sbarcati in America con le valigie legate con lo spago, sottoposti sin dagli inizi ad un trattamento ostile, da Ellis Island al porto di New Orleans, i derelitti che avevano trovato rifugio nelle organizzazioni sociali che promuovevano l’assimilazione degli immigrati.
Tra queste si distingueva la ILGWU (il sindacato dei lavoratori della moda) capeggiato da Luigi Antonini, una roccaforte democratica con forte ascendente socialista di spirito europeo. Gli italo-americani erano devoti sostenitori del New Deal rooseveltiano. E’ stato osservato che nel giro di due generazioni gli italiani d’America sono passati da Wops – il termine dispregiativo che li bollava come elementi indesiderabili – a WASP.
Agli inizi del ventesimo secolo, l’elite anglosassone era decisa a porre fine al pericoloso afflusso di immigranti che “inquinavano” la pura razza bianca. Nel 1924, quando la percentuale di immigrati era poco al disotto del 15 per cento, il Congresso approvava la legge Johnson-Reed che imponeva quote all’immigrazione. Quella italiana veniva colpita a fondo. Scopo proclamato della legge immigratoria era quello di “preservare l’ideale di omogeneità degli Stati Uniti”.

Passiamo ai giorni nostri, quando governa un’amministrazione repubblicana che ha pratica una politica migratoria che molti non esitano a definire crudele. Incredibile ma vero, tra i funzionari governativi incaricati di mettere alla porta i migranti illegali e clandestini, dopo averli rinchiusi in centri di penosa detenzione e negando loro ogni possibilità di asilo, figurano i discendenti degli immigrati italiani.
Matthew Albence, nipote di Bernardino, è stato direttore dell’ICE (Immigration and Custom Enforcement) ma verrà ricordato per il duro trattamento riservato agli immigrati al punto che è passata alla storia una sua dichiarazione dinanzi ad una commissione congressuale in cui paragonava gli indecenti centri di detenzione delle famiglie illegali a “campi di vacanza”. Albence si è dimesso alla fine di luglio dopo una carriera di funzionario addetto a reprimere l’immigrazione illegale.

Albence era in buona compagnia, in quanto un altro oriundo italiano ricopriva un simile incarico presso il Department of Homeland Security, creato all’indomani dell’11 settembre con funzioni di “pubblica sicurezza”, simili a quelle di un ministero dell’interno europeo. Ken Cuccinelli, vice direttore dell’ente, si era distinto per la sua fede ultra-conservatrice, che lo portava ad osteggiare qualsiasi politica tollerante degli immigrati illegali. Cuccinelli, pronipote di un immigrante italiano analfabeta di nome Luigi, si era messo in luce come Attorney General della
Virginia per la sua fanatica opposizione al matrimonio omosessuale ed alla scienza dedicata al cambio del clima, al punto di accusare di frode gli scienziati impegnati in quegli studi. Della sua feroce opposizione all’immigrazione si ricorda ormai una frase odiosa con cui derideva il famoso poema di Emma Lazarus, simbolo della libertà per gli immigrati. Cuccinelli alterava il poema con vile sarcasmo: “Datemi le vostre genti stanche e i vostri poveri che non riescono a reggersi su due piedi”.
Siamo di fronte insomma ad una straordinaria ironia. Gli italo-americani chiamati dal Presidente Trump a sbarrare le porte dell’America all’immigrazione appartengono alla terza generazione degli immigrati sbarcati in America e vittimizzati dalla elite WASP.

E’ superfluo aggiungere che ora sono tutti ferventi repubblicani, nell’orbita di Donald Trump. Nel fitto stuolo di italo-americani dalle credenziali trumpiste si distingue il segretario di stato Mike Pompeo, pronipote di emigrati originari di Pacentro (Abruzzo). Pompeo verrà ricordato per il suo avvilente attaccamento alla causa di Donald Trump e per il suo completo disinteresse a servire la causa degli interessi nazionali. Il tratto che contraddistingue Pompeo è la sua incapacità ad agire da consigliere presidenziale ed a frenare gli impulsi di un presidente che decide in base ad istinti viscerali senza chiedere od accettare consigli. L’unica preoccupazione
di questa deplorevole figura di capo della diplomazia americana è in apparenza quella di non intralciare in modo alcuno il vanitoso e imprevedibile comportamento del presidente, nell’intento di conservare il posto. E’ notorio infatti che Trump ha licenziato in tronco una miriade di funzionari, tra i quali il predecessore di Pompeo, Rex Tillerson, fatto fuori con un tweet.

Da pervicace servitore del presidente, Pompeo ha lavorato contro l’Unione Europea, le alleanze tradizionali dell’America ed il multilateralismo. Il suo “stile” diplomatico, ispirato al confronto ed al rigetto di ogni compromesso, ha portato gli Stati Uniti ad esercitare una politica fallimentare nel Medio Oriente, con il pericolo di uno scontro con l’Iran e con l’asservimento di principi e valori americani alla protervia del principe saudita Mohamad Bin Salman. Mai prima d’oggi un segretario di stato americano aveva preso le parti di un monarca arabo fino al punto di negare il suo convolgimento nell’assassinio del giornalista della Washington Post Jamal Khashoggi. Ed infine, Pompeo si è guardato bene dal ricorrere al suo stretto rapporto con il presidente al fine di portare sotto controllo l’ingerenza politica di Rudi Giuliani nelle esplosive relazioni con l’Ucraina. Anche in tema di immigrazione, Pompeo si è schierato a favore di dure misure punitive, mirate a bloccare un accesso legale alla cittadinanza ed il rilascio di immigranti illegali a basso rischio.

Tali e tante sono le ambizioni di Mike Pompeo che il segretario di stato non si è sottratto alla convenienza di portare acqua al mulino del presidente con un peana a Trump registrato sul tetto di un palazzo a Gerusalemme e proiettato nel corso della convenzione repubblicana. Si è trattato di violazione di una precisa legge – lo Hatch Act – che vieta a funzionari federali di fare politica interna.
A conti fatti, sono molti a ritenere che Mike Pompeo passerà alla storia come il peggiore segretario di stato dell’ultimo secolo.

La poco edificante storia del contributo degli italo-americani al deterioramento della politica negli Stati Uniti e, quel che peggio, della loro missione stabilizzatrice nel mondo ha molti protagonisti transfughi dalle file democratiche verso quelle repubblicane. La concentrazione di italo-americani ultra-conservatori è ormai tale che i pochi personaggi democratici attivi in politica (segnatamente lo Speaker della Camera Nancy Pelosi ed il governatore dello stato di New York Andrew Cuomo) non alterano il deprimente quadro della metamorfosi pro-repubblicana della
maggioranza degli italo-americani. Tra questi si distinguono due giudici della Corte Suprema: il primo giudice italo-americano Antonin Scalia, un agguerrito conservatore nominato dal presidente Ford e morto nel 2016, ed il Giudice Samuel Alito, nominato da George W. Bush, autore tra l’altro di una tesi sulla Corte Costituzionale italiana.
Alito è associato alla giurisprudenza di destra spinta ed è giudicato negativamente dallo ACLU (American Civil Liberties Union) per le sue sentenze avverse ai diritti e alle libertà civili.

Rudi Giuliani, noto come il sindaco di New York all’epoca della distruzione delle due torri, è un capitolo a parte. Originariamente, era un democratico, sostenitore del presidente Kennedy e addirittura di George Mc Govern. Divenne repubblicano nel 1980. Fu una conversione rapida che lo portò agli estremi del conservatorismo americano. La sua posizione circa l’immigrazione è quanto meno curiosa. Nel 1996, denunciò il governo federale per aver adottato pratiche anticostituzionali ai danni dei migranti. Nel 2006 si dichiarò favorevole ad un progetto dilegge senatoriale di immigrazione che prevedeva uno sbocco in termini di cittadinanza ed esprimeva appoggio all’idea di un aumento dell’immigrazione legale. Col passar del tempo, la sua posizione mutava a favore di una politica fortemente conservatrice abbracciando la filosofia giuridica dei giudici Scalia, Alito e Thomas. Il voltafaccia di Giuliani coincideva con il suo passaggio al servizio del presidente repubblicano e la sua difesa del tentativo di Trump di usare gli ucraini per diffamare Joseph Biden. Donald Trump premiava il suo ruolo di fedelissimo concedendogli uno spezzone oratorio nella convenzione repubblicana.
Rudi continua a svolgere un ruolo misterioso e apparentemente illegale per proteggere sia il presidente sia i propri oscuri interessi finanziari. Il valore di Giuliani per Trump è nel
parallelismo della politica di lotta alla criminalità, al tempo in cui Rudi era sindaco di New
York, con la strategia di “law and order” alla quale si appella il presidente nella campagna
per la rielezione.

Lo sconcertante capitolo storico che vede gli italo-americani plagiati dal trumpismo, una forma di governo autoritario e velleitario che è agli antipodi delle radici liberal-democratiche degli immigrati italiani nello scorso secolo, sciorina un gran numero di personaggi che tra gli altri includono: l’avvocato della Casa Bianca Pat Cipollone, il governatore della Florida Ron De Santis, il Minority Whip della Camera Steve Scalise, il ministro del Lavoro Eugene Scalia (figlio del Giudice Antonin Scalia). A questi va aggiunto Anthony Scaramucci, che ha ricoperto per un bravissimo periodo l’incarico di direttore delle comunicazioni della Casa Bianca, un faccendiere portato alla polemica fino alla provocazione. Non sorprende che gli uomini di Trump lo abbiano rapidamente estromesso. Attualmente Scaramucci è impegnato a “salvare il partito repubblicano” esortando i suoi elettori a votare per Biden. Infine, nella fazione dei trumpisti rientra un altro italo-americano, l’ex senatore repubblicano della Pennsylvania Rick Santorum, il cui nonno Pietro emigrò in America da Riva del Garda nel 1920. Santorum è stato senatore dal 1995 al 2007 ed aspirante alla candidatura presidenziale nel 2012 e 2016. La sua carriera politica di conservatore sociale era fondata sull’opposizione all’aborto ed al matrimonio
omosessuale. In particolare, Santorum ha promosso in varie sedi la teoria anti-evoluzionista dell’intelligent design. Alleato con Trump, ha costantemente inveito contro l’immigrazione illegale, avversando l’amnistia e la concessione di benefici federali ad immigrati illegali.

Resta in fondo un quesito cui è difficile rispondere, quello del perché della sottomissione degli italo-americani ad un uomo, Donald Trump, che nulla ha fatto per loro salvo che far leva sull’abbraccio tipicamente italiano ad un politico forte. Nella storia degli italo-americani c’è sempre stato un sostrato di risentimento, a partire da quel fatale giorno – il 14 Marzo 1891 – in cui undici italiani vennero linciati a New Orleans per l’assassinio del capo della polizia
locale, senza alcun riguardo al fatto che alcuni di essi erano già stati assolti in un processo. Il presidente Benjamin Harrison, ansioso di calmare gli animi degli immigrati italiani e di scongiurare un conflitto con l’Italia, che a quel tempo disponeva di corazzate in grado di bombardare la costa americana, proclamò la giornata celebrativa di Colombo. Particolare interessante: in un momento in cui le statue di Colombo in America vengono abbattute, Trump ha dichiarato a proposito della festività: “Per me, sarà sempre chiamato Columbus Day. A molti può non piacere. A me si”. Se il calcolo di Trump era quello di ricordare agli italo-americani che per un secolo o giù di lì erano stati una classe oppressa, la decisione di una massa di italo-americani di sostenerlo significa che quello sforzo è andato a buon fine. Ma il risultato non è confortante perché l’abbraccio a Donald Trump approfondisce le divisioni etniche e razziali che turbano il panorama politico e culturale dell’America contemporanea. Un’altra conclusione non può che essere questa: in una congiuntura in cui gli italo-americani – che un tempo non venivano neppure raggruppati nella razza bianca – hanno raggiunto lo status di WASP ricchi o benestanti, è fuori luogo parlare di “orgoglio etnico”. Ma è preoccupante che da poveri che erano gli oriundi italiani siano ora indifferenti al grido di dolore delle vittime del razzismo e della diseguaglianza sociale ed economica. La loro metamorfosi da Wops a Wasp sarà anche storica, ma non fa onore a tutti coloro, dagli anarchici ai democratici, che si erano battuti per l’assimilazione nel vecchio schema socio-politico del “melting pot” ossia del crogiolo, superato ormai dalla trionfante diversità di una nuova America al prezzo di una crescente polarizzazione. In ultima analisi, sono questi gli elementi che spiegano il trumpismo assai poco democratico di tanti italo-americani.

C’è da spostare una statua!

05ebf553-398e-463e-b4d1-61d8c681b8dcMentre esplode il dibattito sul ruolo delle statue, in Sardegna l’associazione Figli d’Arte Medas propone la drammatizzazione “Processo alla statua di Carlo Felice” di Gianluca Medas.
Andrà in scena sabato 29 agosto alle 19:30 nella Sala Giunta del Palazzo Viceregio di Cagliari (Piazza Palazzo, quartiere Castello).
Io farò la parte del Pubblico Ministero e risponderò soprattutto a chi ritiene che “Spostare la statua di Carlo Felice” – come sostiene l’omonimo Comitato, significhi “cancellare la storia”.

Rimuovere la statua di un tiranno significa cancellare la storia?
di Francesco Casula

A questo interrogativo risponde con saggezza, una ricercatrice di storia dell’Università di Cagliari, Valeria Deplano: ”Le statue, come i monumenti commemorativi, o la toponomastica, non sono infatti ‘la storia’, ma uno strumento attraverso cui specifici personaggi o eventi storici, accuratamente selezionati, vengono celebrati; nella maggior parte dei casi – non sempre – sono le istituzioni, in particolare quelle statali, a scegliere chi o che cosa sia degno di essere ricordato e celebrato. Si tratta di un’operazione centrale per la costruzione di una narrativa nazionale funzionale alla visione del potere stesso: il modo con cui si sceglie di ricordare il passato e di celebrarlo infatti influisce sul modo con cui gli individui e le comunità guardano il mondo, sé stessi e gli altri. Questo vale ovunque, e in qualunque epoca”.
[segue]

Oggi venerdì 28 agosto 2020

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—————————Opinioni, Commenti e Riflessioni, Appuntamenti————–——–Prendi nota per sabato 29 agosto:
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Briatore: la sua condotta è solo sconsiderata e ridicola o anche sanzionabile?
28 Agosto 2020
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Da uomo del foro non ho mai avuto pulsioni giustizialiste. Sono sempre stato per le garanzie e mai, nel dibattito pubblico, ho chiesto condanne, anche qundo i fatti lo giustificavano. Non cambio atteggiamento oggi, ma il caso Briatore merita qualche considerazione. Questo vecchio, con ridicoli atteggiamenti giovanilistici, ha cavalcato la tigre negazionista in nome […]
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Il Tar ribadisce il divieto d’importare in Sardegna rifiuti ordinari
28 Agosto 2020
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Mauro Pili su l’Unione di qualche giorno fa ho dato enfaticamente notizia di un’ordinanza cautelare del TAR Sardegna in materia di scarico a Magomadas di rifiuti importati dalla Puglie. E’ una decisione importante certamente, ma – tutto sommato – in linea con i precedenti. Quale è lo stato dell’arte sulla materia in Sardegna? […]
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Che succede?

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IL “NO” SCONSOLATO DI ROMANO PRODI
28 Agosto 2020 by Giampiero Forcesi | Su C3dem.
[segue]

Oggi giovedì 27 agosto 2020

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I costituzionalisti per il No al taglio dei parlamentari superano quota 200
Lanciato un blog per condividere l’appello di docenti e studiosi del diritto.
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Il taglio del Parlamento liquiderebbe la rappresentanza politica su base territoriale
Tonino Dessì su Democraziaoggi.
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c3dem_banner_04Che succede? LA PROTESTA DELLE IMPRESE. PD E 5S. I SÌ E I NO DEI COSTITUZIONALISTI
26 Agosto 2020, by Forcesi, su C3dem.
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