CAMBIAMENTI CLIMATICI: ecologia dei grandi incendi

ffe611f4-b071-424c-aab0-e0f5f353da38di Pietro Greco, Rocca.
Tre grandi incendi – tre grandi insiemi di incendi – hanno caratterizzato questa estate, mandando in fumo milioni di ettari di foreste. Due di questi fuochi enormi hanno avuto l’onore delle cronache: quello che ha interessato la foresta boreale in Siberia e quello che ha interessato la foresta tropicale in Amazzonia. Il terzo di cui si è parlato poco o nulla e che ha dimensioni, almeno come numero di incendi che l’hanno caratterizzato, riguarda la foresta tropicale nell’Africa centro-occidentale.
Questi grandi fuochi hanno un filo rosso in comune: sono favoriti dal gran caldo e dai cambiamenti del clima globale. Ma hanno cause e, forse, effetti diversi. Le une e gli altri ci interessano direttamente.
[segue]
incendi fantasma in Africa
Iniziamo dagli incendi fantasma, quelli dell’Africa. Secondo dati della Nasa, che li monitora coi satelliti dall’alto, a fine agosto erano attivi 6.902 focolai in Angola e 3.395 in Congo (Repubblica democratica). A puro titolo di paragone, perché le realtà sono diverse, in Brasile era attivo un numero di focolai (2.127) cinque volte inferiore.
Il numero degli incendi africani è maggiore, ma l’estensione della foresta bruciata è inferiore. Per un motivo molto semplice: gli incendi africani, pur essendo di origine antropica, non sono sistematici e pianificati. Sono piccoli fuochi che sfuggono al controllo degli agricoltori locali. Si calcola che il 10% dei fuochi appiccati dai contadini africani per bruciare foglie e sterpaglia sia sfuggito loro di mano e si sia trasformato in un incendio che ha attaccato la foresta.

la foresta amazzonica
Gli incendi in Brasile hanno cause diverse. Non sono casuali, ma sono molto spesso pianificati, con l’intento di sottrarre definitivamente terreno alla foresta amazzonica. Inoltre sono stati quantomeno favoriti dalle politiche del nuovo presidente carioca, Jair Bolsonaro. Politiche che sono, come dire, molto attente alle esigenze di latifondisti e speculatori, nazionali e internazionali. Per questo saranno minori in numero, ma molto più devastanti di quelli africani.
Gli effetti ecologici di questi incendi tropicali sono invece molto (ma non del tutto) simili. Intanto ad essere distrutti dal fuoco sono interi ecosistemi con una perdita enorme di biodiversità. Inoltre si riduce una delle fonti naturali di ossigeno. E, infine, c’è un impatto immediato sul clima globale, perché gli incendi liberano gas serra, in particolare anidride carbonica. Fra poco vedremo che la situazione è più complessa. Ma intanto diciamo che la perdita di alberi è reversibile: nel giro di due o tre decenni la foresta può ricrescere completamente e riassorbire persino più del carbonio rilasciato con l’incendio. Diventa irreversibile, invece, se, come vorrebbero molti tra gli incendiari brasiliani, il terreno bruciato viene destinato ad altro uso. Ecco perché gli effetti dei fuochi brasiliani sono, forse, più perversi di quelli africani.

la triplice valenza dell’incendio boreale
Veniamo ora all’enorme incendio boreale che ha interessato soprattutto la Siberia. Non ne conosciamo esattamente le cause. Forse le foreste siberiane sono andate bruciate per ragioni naturali: per autocombustione, favorita dalle alte e per molti versi inedite temperature che hanno interessato la regione. Il fenomeno ha almeno una triplice valenza.
La prima è analoga a quella degli incendi ai tropici: ad aver subìto uno shock è stato un intero ecosistema, con perdite di alberi, di sottobosco e di animali.
La seconda è che gli incendi oltre il circolo polare artico sono un indizio chiaro che i cambiamenti del clima stanno procedendo a un ritmo forse più veloce del previsto. Un altro indizio, lì alle alte latitudini, è stato il rapido scioglimento di una gran quantità di ghiaccio in Groenlandia. E, anche, i record raggiunti dalle temperature tra fine luglio e inizio agosto in Francia e in gran parte dell’Europa centro-settentrionale.
La terza valenza, tra le principali, riguarda le cause del cambiamento del clima. Si è detto, giustamente, che gli incendi siberiani hanno liberato in pochi giorni una quantità di anidride carbonica pari a quella emessa dal Belgio in un intero anno. Il paragone regge, ma solo fino a un certo punto. A grana grossa, possiamo dire che le emissioni annue del Belgio hanno un carattere diverso da quelle siberiane. Le prime sono irreversibili, in tempi brevi e medi. Le emissioni dei paesi avanzati, infatti, sono dovute soprattutto all’uso dei combustibili fossili. Il che significa che viene liberato il carbonio congelato da milioni di anni nel carbone, nel petrolio e nel gas naturale e poiché non c’è un «pozzo» in natura che lo assorba completamente, questo «carbonio congelato» finisce per accumularsi in atmosfera (oltre che negli oceani).
Il carbonio liberato dall’incendio degli alberi in Siberia o altrove comporta una modificazione potenzialmente reversibile della chimica dell’atmosfera. Infatti, come abbiamo detto, può essere completamente riassorbito nel giro di qualche decennio: basta che siano riforestati i boschi distrutti. La riforestazione avviene in maniera più lenta se lasciata alla spontaneità della natura o in maniera più veloce se eseguita ad arte e in maniera ecologica- mente sostenibile dall’uomo.
Dunque l’incremento di anidride carbonica dovuto agli incendi è reversibile. Fa danni a breve, ma nel medio periodo può essere facilmente riassorbito.

da pozzo a fonte di anidride carbonica
Tuttavia il bilancio non è così semplice. Le foreste boreali in Siberia e in altre aree oltre il circolo polare artico costituiscono dal 30 al 40% di tutte le foreste del mon- do. E a causa degli incendi sempre più frequenti – causa cambiamento del clima – minacciano di trasformarsi da pozzo a fonte di anidride carbonica, come hanno sostenuto Xanthe J. Walker – del Center for Ecosystem Science and Society, della Northern Arizona University di Flagstaff, appunto in Arizona (Usa) – e un gruppo di suoi collaboratori in un recente articolo sulla rivista scientifica Nature.
L’articolo è stato pubblicato praticamente negli stessi giorni in cui si consumavano i grandi incendi siberiani. Ma si tratta di una pura coincidenza, perché la ricerca di Walker e colleghi riguarda una serie di incendi verificatisi in Canada nel 2014. Il cui succo è questo: tra il 70% e l’80% del carbonio «congelato» dalle foreste boreali non si trova nelle radici, nel fusto e nei rami degli alberi ma nella materia organica che si trova al suolo. Molto più che nelle foreste tropicali. Questa materia orga- nica, frutto della decomposizione degli alberi morti (anche per combustione), si accumula nel corso di molti decenni. Ebbene, gli ecologi americani hanno ben presente che, almeno negli ultimi 6.000 anni, il maggior fattore di perturbazione degli ecosistemi boreali sono stati proprio gli incendi, la gran parte di origine natu- rale. Ma nel loro studio hanno dimostrato che se in un’area la frequenza di questi incendi si mantiene in un intervallo compreso tra 70 e 200 anni, allora la materia organica del suolo tende ad accumularsi e dunque la foresta boreale costituisce un pozzo di carbonio.
Negli ultimi 6.000 anni la frequenza media degli incendi nelle aree coperte da fo- reste boreali è rientrata perfettamente nell’intervallo 70-200 anni. Dunque, le fo- reste boreali sono state un «pozzo» di anidride carbonica.
Il sistema funziona, più o meno, così: gli alberi muoiono e si decompongono, ma il carbonio di cui sono fatti resta al suolo e si accumula. Su questo materiale organi- co crescono nuovi alberi che sottraggono carbonio all’atmosfera. Ecco perché negli ultimi sei millenni (almeno) le foreste bo- reali hanno contribuito ad abbassare la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera.
Quando, però, la frequenza degli incendi in un’area aumenta e scende sotto i settant’anni, la foresta boreale da pozzo si trasforma in fonte di carbonio. La materia organica al suolo brucia liberando carbonio e non fa in tempo a recuperare tutto quello che ha emesso.
Ebbene, sostengono Walker e colleghi, negli ultimi anni, a causa dei cambiamenti climatici, in molte zone coperte da foreste boreali gli incendi sono diventati più frequenti. La materia organica al suolo brucia con gli alberi e questo enorme riserva di carbonio sta ribaltando il suo ruolo nell’ambito del sistema clima: da pozzo, appunto, a fonte.

spezzare il circolo vizioso
Gli esperti di scienza dei sistemi direbbero che da feedback negativo (da freno) del cambiamento del clima, la foresta borea- le si sta trasformando in feedback positivo (in un acceleratore). O, se volete, la foresta boreale si sta avvitando in una spirale perversa: più cambia il clima con un aumento della temperatura media, più gli incendi aumentano di frequenza, più la foresta boreale aiuta a cambiare il clima con relativo aumento della temperatura media del pianeta.
Occorre, dunque, spezzare questo circolo vizioso, se vogliamo un futuro climatico desiderabile. Con due diverse azioni: una a scala globale, mettendo in atto nel più breve tutte le azioni per prevenire il climate change; la seconda a scala locale (sì fa per dire, perché le foreste boreali occupano aree immense), prevenendo gli incendi, intervenendo in modo rapido per spegnerli e gestendo in maniera attiva il territorio.
Non è facile, questa seconda azione. Così come non è facile la prima. Si tratta di controllare aree grandi quanto la Siberia o la parte settentrionale del Canada. Ma contenere il cambiamento del clima che noi abbiamo provocato e stiamo ancora provocando non è una passeggiata. Occorre cambiare cultura e organizzazione. Mettere a punto nuove tecnologie. Stabilire collaborazioni internazionali più strette ed efficienti.
Pur nella diversità, un’analoga attenzione andrebbe riservata alle foreste tropicali in Africa, in Sud America e anche in Asia.

ipotesi «croce verde»
Molti anni fa Michail Gorbaciov propose la costituzione della «croce verde», una forza internazionale di pronto intervento per affrontare le emergenze ambientali. Se questa struttura fosse stata creata, oggi avremmo avuto la possibilità di un pronto e più efficace intervento tanto in Siberia quanto in Brasile e in Africa.
La «croce verde» non è stata realizzata. E ne paghiamo il conto. Forse è il caso di organizzarla.

Pietro Greco
ROCCA 15 SETTEMBRE 2019
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