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Italia e Francia di fronte all’incertezza che grava sul destino dell’Africa settentrionale

di Gianfranco Sabattini

Sul piano politico, le relazioni dell’Italia con la Francia non si sono mai svolte all’insegna di un corretto rapporto tra vicini. Lungo sarebbe l’elenco delle situazioni in cui i due Paesi sono stati i destinatari del comportamento “scorretto” dell’uno nei confronti dell’altro; uno dei motivi delle polemiche italo-francesi di maggior rilievo (che dura dall’inizio del secolo scorso, trascinandosi sino ai nostri giorni) è il “conflitto di interessi” nato sul problema delle ex colonie del Nordafrica.
Il contrasto era sembrato appianato alla fine della seconda guerra mondiale; ma non è stato così, perché, a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, dopo l’inizio della rivolta algerina del Fronte di Liberazione Nazionale, l’Italia si è adoperata, sia pure indirettamente e senza troppo scoprirsi, nel sostenere l’indipendenza dell’Algeria, al fine di sottrarla all’influenza esclusiva francese. Il motivo dell’appoggio italiano al movimento di liberazione algerino è stata la propensione dell’Itala a trovare fonti di approvvigionamento energetico, necessarie per portare a compimento la propria ricostruzione post-bellica e supportare l’inserimento del suo sistema industriale nel nuovo mercato internazionale.
La nascita dell’ENI e la vicenda Mattei (il suo dominus) – afferma Mario Giro, in “Così Roma e Parigi possono mettersi d’accordo nell’Africa settentrionale” (“Limes”, n. 6/2019) – sono state “uno dei maggiori dossier” che hanno separato in quegli anni del dopoguerra i due Paesi, soprattutto per l’interesse immediato che il presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi (Mattei, appunto) nutriva per la potenziale disponibilità di risorse energetiche nell’intero Maghreb (l’area più a ovest del Nordafrica, che si affaccia sul Mediterraneo e sull’Oceano Atlantico). Per questo motivo, il vero “nemico”, se così si può dire, della Francia in Nordafrica in quel torno di tempo non è stato il governo italiano, ma l’ENI, per il modo in cui l’Ente ha iniziato a condurre in modo autonomo una propria politica estera per i problemi energetici.
L’Italia ha assunto nei confronti della Francia una posizione prudente, ma critica, anche in occasione della “Crisi di Suez”, del 1956, limitandosi a sostenere presso i responsabili della politica estera francese che l’interesse italiano prevalente era la pace e la stabilità nell’area mediterranea.
A parere di Giro, quello italiano è stato, in realtà, un atteggiamento “volto a non mettere in crisi il processo di integrazione europeo dopo l’istituzione, nel 1955, della Comunità del carbone e dell’acciaio, che costituiva un passo avanti sulla via del Trattato di Roma del 1957, col quale venivano istituiti il Mercato Comune e la Comunità Economica Europea. In conseguenza di ciò, a parere di Giro, i francesi avrebbero capito che il comportamento dell’Italia riguardo ai problemi riguardanti il quadro occidentale del Mediterraneo era da ricondursi ad una “rivalità pacifica, più economica che politica”.
La “rivalità pacifica”, tuttavia, ha impedito sin da allora di definire quale dei due Paesi dovesse svolgere il ruolo “di potenza” nell’ambito del Mar Mediterraneo occidentale; questo stato di incertezza perdura ancora, “senza che nessuna delle due nazioni abbia mai deciso di giocarsi tutte le sue carte in tale questione”. Dopo il 1962, la Francia ha teso a concentrare la cura dei propri interessi africani indirizzando la propria politica nei confronti dell’Africa sub-sahariana del Sahel, una regione che comprende la fascia equatoriale che va dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso, includendo gli Stati della Mauritania, del Mali, del Burkina Faso, del Niger, del Ciad e del Sudan, alcuni dei quali facenti parte delle Comunità formate di Paesi che hanno adottato il “franco FCA”, nell’ambito della “zona di cooperazione monetaria” con il Paese transalpino.
Ciò ha consentito all’Italia di concentrare la propria politica mediterranea nei confronti della Libia, dopo aver ricuperato su di essa l’influenza politica perduta a seguito del secondo conflitto mondiale; i legami del nostro Paese con la Libia si sono approfonditi dopo la sostituzione, nel 1969, di Re Idris con il colonnello Gheddafi, al cui avvento al potere l’Italia non era stata estranea; malgrado i rapporti non sempre “distesi” con il “rais” di Tripoli è stato possibile per l’Italia allargare il volume degli scambi economici con l’ex colonia, impostati sulla base di un contesto economico nel quale era preminente il ruolo dall’impresa pubblica. Il rinnovato interesse economico dell’Italia per la Libia ha consentito, malgrado la guerre arabo-israeliane e quelle del Golfo, che le relazioni tra Italia e Francia proseguissero, lasciando ognuno dei Paesi intento a ”difendere il proprio spazio, senza che ciò significasse una particolare avversione l’uno per l’atro”.
Tuttavia, dopo l’improvvida iniziativa dell’ex presidente gollista Nicolas Sarkozy di destabilizzare il regime di Gheddafi, nel convincimento che in tal modo sarebbe stato possibile ridare slancio alla presunta “grandeur” francese, si è instaurato tra Italia e Francia un sorta di clima di “guerra fredda del petrolio”, senza che i due Paesi si rendessero conto – secondo Giro – che il mondo della globalizzazione era sempre più dominato, per quanto riguardava il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, dalla competizione tra le grandi potenze (Stati Uniti, Cina e Russia), da rendere necessario l’avvio di una crescente collaborazione tra loro in sostituzione del conflitto permanente. Il settore energetico era infatti divenuto un terreno sul quale Italia e Francia – afferma Giro – avrebbero dovuto trovare un’intesa, allargandola all’intera Unione Europea, in considerazione del fatto che l’energia che veniva dal Sud era più cara di quella che veniva dall’Est, ma che quest’ultima era caratterizzata da “pesanti condizionamenti politici”. Un accordo tra Italia e Francia, che includesse i Paesi produttori di petrolio dei Paesi rivieraschi e alcuni altri della regione del Sahel, avrebbe potuto costituire la base per l’espansione dell’interscambio in condizioni di stabilità politica ed economica dell’intera area.
Le relazioni con i Paesi della costa mediterranea occidentale e di quella atlantica e con quelli della fascia sub-sahariana (in particolare, i Paesi del Sahel occidentale) sarebbero state – a parere di Giro – “un banco di prova per i rapporti italo-francesi”. Ciò perché tutti questi Paesi formavano un’area che, sebbene costituita quasi tutta da ex colonie francesi, non era più, come accadeva nel passato, chiusa politicamente e subalterna alle direttive dell’Eliseo; la situazione era cambiata e l’Italia poteva trovarvi il proprio spazio attraverso una politica di penetrazione economica basata prevalentemente su investimenti privati, oltre che pubblici.
Inoltre, il proliferare di zone fuori controllo, soprattutto nella fascia equatoriale, con Paesi insofferenti rispetto ai vincoli imposti da una circolazione monetaria interna ancora basata sul “franco CFA”, avrebbe potuto costituire, secondo Giro, un valido motivo per un’alleanza, a guida franco-italiana, che avrebbe potuto affievolire l’accusa di neocolonialismo rivolta contro i francesi. Non bastava più, infatti, l’uso delle armi per reprimere una protesta che considerava anacronistica e penalizzante per gli interessi nazionali la sopravvivenza di “residui coloniali; sarebbe stato più conveniente a tale scopo un progetto di sviluppo a lungo termine, che Italia e Francia avrebbero potuto proporre ai Paesi africani che ancora oggi continuano a soffrire della maggiore instabilità politica e di un forte ritardo sulla via della crescita e dello sviluppo economico. L’interesse nazionale di Francia e Italia – afferma Giro -, così come l’interesse europeo, doveva essere quello “di non lasciare fuori controllo interi Paesi”, con il rischio di causare situazioni caotiche sul tipo di quella attualmente esistente in Libia.
Sennonché, è proprio la Libia l’altro grave problema rispetto alla cui soluzione si stanno confrontando da tempo Italia e Francia; fino ad oggi, dopo la destituzione di Gheddafi, i due Paesi hanno sostenuto parti diverse: il generale Khalifa Belqasim Haftar, i francesi, e Fāyez Muṣṭafā al-Sarrāj, gli Italiani. Parigi supporta Bengasi, credendo sia “più facile dare unitarietà al futuro esercito libico a partire dal vecchio generale”; dopo la caduta di Gheddafi, la posizione francese è dipesa anche dalla paura dell’intromissione dei fratelli mussulmani sostenuti dalla Turchia e dal Qatar. Si tratta, per Giro, di una specie di trappola nella quale i due Paesi europei sono caduti, “senza riuscire ad elaborare una loro indipendente politica estera”, nei confronti dei Paesi africani a loro più strettamente legati, non solo per ragioni economiche.
La situazione di incertezza, che da tempo grava sulla Libia, ha creato una situazione che i libici sembra non vogliano cambiare; le varie milizie si sono divise il Paese, approfittando dell’economia di guerra che si è consolidata, in un clima conflittuale da lasciare indifferenti le grandi potenze; l’indifferenza è però cessata dopo il recente attacco haftariano a Tripoli, concorrendo ad aumentare i motivi di instabilità dell’intera area ed a rendere più difficile per Francia ed Italia uscire dall’empasse. Ciò potrebbe essere fatto – sostiene Giro – solo sulla base di un accordo tra Italia e Francia, che “trascini con sé tutta l’UE e gli altri protagonisti: Turchia, Arabia Saudita, Egitto e Stati del Golfo”. Si tratta però di un progetto facile da ipotizzare, ma di difficile attuazione, per via del fatto che l’iniziativa di Haftar ha avuto l’effetto di smuovere dall’apparente “sonno” il conflitto geo-politico-strategico delle grandi potenze: gli Stati Uniti, innanzitutto, i quali (a parte il loro interesse specifico per il controllo del Canale di Suez), pur considerando l’area determinante per la loro strategia globale, intendono ostacolare, da un lato, un rafforzamento della penetrazione di Pechino in Africa, attraverso le vie della seta, e dall’altro lato, una maggiore influenza di Mosca, attraverso la fornitura di armi.
Riguardo alla Libia, per la superpotenza statunitense, dopo la rinuncia alla bomba atomica da parte di Gheddafi, l’ex colonia italiana poteva anche rimanere a lungo nelle mani del colonnello; sennonché, la decisione francese di instaurare un regime alternativo hanno costretto Washington ad intervenire, per evitare la possibile implosione del Paese; non essendo stato possibile evitare la caduta del colonnello, gli USA si sono trasformati nel principale interlocutore di ogni governo autoctono in Libia. In tal modo, afferma Dario Fabbri, in “Cinesi e Russi contro l’egemonia USA in Nordafrica” (“Limes”, n. 6/2019), gli Stati Uniti restano l’unico “patron securitario” dell’intera area nordafricana, in “sprezzo dell’economicismo, che pretende un’influenza direttamente proporzionale ai legami finanziari. In sprezzo dell’equazione costi-benefici, che pretende risultati direttamente proporzionali all’impegno profuso”.
La presenza di basso profilo degli USA nell’area dell’Africa settentrionale è valsa a motivare, sia le iniziative della Cina volte a proseguire il processo di allestimento delle infrastrutture necessarie per rendere operative le vie della seta, sia quelle della Russia, impegnata nel tentativo di ricuperare le posizioni perse in tale area, a seguito del crollo dell’ex URSS.
La Cina considera il Nordafrica una significativa fonte di risorse energetiche e minerarie, oltre che uno snodo delle vie commerciali destinate a potenziare le proprie capacità di esportazione; non casualmente, Egitto, Tunisia, Governo di accordo nazionale libico, Algeria e Marocco hanno aderito al progetto delle vie della seta, nella prospettiva di poter attirare investimenti cinesi. Dal canto suo, la Russia, decisa a soddisfare il suo interesse ad approfondire e potenziare la propria presenza nel Mar Mediterraneo, non manca di cogliere tutte le favorevoli occasioni economiche e le opportunità politiche che l’evoluzione della situazione nordafricana può offrirle, al fine di limitare i danni ed i disagi provocati dall’isolamento e dalle sanzioni dell’Occidente, e naturalmente, al fine di contestare l’egemonia che gli USA esercitano a “basso costo” nell’intero scacchiere nordafricano.
Il lento, ma continuo, sovrapporsi della mancata soluzione del problema libico agli interessi in gioco delle superpotenze globali non può che rendere oltremodo attuale la necessità che Francia ed Italia (grandi sovvenzionatori di Tunisia, Algeria, Libia e Marocco) trovino il modo di collaborare, per assicurare un supporto coordinato alla stabilità ed alla pace di un’area alla quale sono entrambe interessate; ma la persistenza della loro reciproca diffidenza continua ad esporle al rischio d’essere definitivamente estromesse.

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