Lavoro

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Ritorno all’antico.
di Ritanna Armeni, su Rocca.

Sappiamo, sappiamo bene, che il mondo del lavoro oggi è difficile, precario, soggetto a ricatti. Sappiamo che entrarci è spesso impossibile, che la disoccupazione è tanta e che quella giovanile in Italia è da record. Ma abbiamo anche pensato – cercando di illuderci un po’ – che ciò che del lavoro restava aveva le caratteristiche della modernità, era esente dai mali più gravi delle prime fasi dello sviluppo industriale, dagli anni cinquanta, ad esempio, quando lo sfruttamento, la mancanza di controlli e di regole costituivano lo stesso modo di essere del lavoro.
Pensavamo, per fare ancora qualche esempio, che le morti sul lavoro, che quegli anni erano tante, fossero conseguenza di un mancato sistema di controllo e di sicurezza che poi, negli anni successivi, era stato introdotto e avevano migliorato sensibilmente la situazione. Che il caporalato fosse una piaga delle campagne del sud, da combattere ed estirpare certo, ma che le vittime fossero gli immigrati, i braccianti che vengono dall’Africa per raccogliere arance e pomodori. Che non riguardasse certo i giovani del nord che sono acculturati e fanno mestieri moderni. Eravamo convinti, infine, che l’emigrazione italiana fosse finita, che i giovani del 2020, contrariamente ai loro bisnonni, non avessero bisogno di lasciare il loro paese per trovare lavoro.

Le notizie di questi giorni smentiscono queste idee e queste illusioni.
I morti sul lavoro. Sono aumentati, i dati degli ultimi dieci anni parlano di diciassette mila contando anche quelli che hanno perso la vita mentre andavano o torna- vano dal posto in cui erano impiegati. «Sono numeri di una strage», ha commentato il segretario della Cgil. Lo stesso Maurizio Landini ha fatto notare che oggi «si continua a morire come quaranta o cinquanta anni fa». L’ultima brutta notizia è giunta qualche giorno fa dall’Inail, nel 2019 sono già settecento le vittime del lavoro. E sono in aumento.
Il caporalato. Nonostante le leggi non si riesce a estirpare quello che alligna nel no- stro meridione dove il sistema di compravendita delle braccia a prezzi miserevoli in questi anni si è solo nascosto e raffinato. Non più e non solo nelle piazze del paese, ma attraverso agenzie e intermediari più feroci dei vecchi caporali che proteggono e coprono i datori di lavoro e impongono le stesse terribili condizioni ai lavoratori. La brutta novità è che il caporalato si è esteso anche ai moderni mestieri, quelli che fanno i giovani – italiani e immigrati – delle grandi città. Prendiamo i riders che con la bicicletta o lo scooter consegnano il cibo (ma non solo) a domicilio. Le condizioni di precarietà, i bassi salari, sono stati più volte denunciati e oggetto d’indagine della magistratura. I tentativi di porre un argine di legge a un lavoro privo di assicurazione infortuni e di qualunque tipo di garanzia ci sono stati e sono in gran parte falliti. Adesso si è scoperto che proprio in questo settore del lavoro moderno e a maggioranza giovanile vige un sistema di caporalato. È telematico, usa gli smartpho- ne e le app, agisce nelle ricche città del nord ma consiste nello stesso sistema di ricatto e di sfruttamento.
Anche in questo caso il lavoro è tornato all’antico.
C’è poi il fenomeno migratorio. Non quello che riempie le pagine dei giornali e le parole dei politici: gli sbarchi, i morti del mediterraneo, le tragedie del mare. Quelle ci sono e ogni giorno colpiscono le nostre coscienze. Più segrete e sotterranee in questi anni ci sono state le migrazioni dei giovani italiani in cerca di lavoro in altri paesi europei, dove i loro studi e le loro competenze possono diventare mestiere, professione, reddito e futuro.
Il fenomeno, iniziato in sordina e ritenuto all’inizio di élite – si parlava di «cervelli in fuga» –, è diventato via via più consistente. Questi giovani non hanno la valigia di cartone ma il trolley, sono già in grado di padroneggiare la lingua del paese che li ospiterà, e comunicheranno facilmente via skype con i loro cari ma, come i loro predecessori dei primi anni del ’900, abbandonano la loro famiglia, il loro paese per trovare un lavoro. L’alternativa, esattamente come per chi li ha preceduti, è la disoccupazione. Quali conclusioni trarre dalle situazioni che ho appena descritto? A me una pare evidente. La ristrutturazione mondiale del lavoro che è stata chiamata globalizzazione e l’ideologia liberista che l’ha accompagnata e che non ha trovato ostacoli neppure a sinistra, non solo hanno eliminato le regole costruite faticosamente dalle lotte dei lavoratori e i diritti acquisiti, ma hanno riportato l’orologio indietro al punto da rafforzare e far rinascere fenomeni che parevano scomparsi o in via di estinzione. La mancata risposta alla precarietà non ha solo creato un mondo del lavoro instabile e soggetto a ricatti ma ha fatto rinascere fenomeni che si pensava appartenessero a un mondo in via di estinzione: le morti sul lavoro, il caporalato, l’emigrazione.
«La storia non si ripete ma fa rima con se stessa» ha detto una scrittrice come Margaret Atwood che sulla possibilità di un ritorno indietro della condizione femminile ha scritto libri memorabili. Ecco la storia fa rima con se stessa anche quando guardiamo la condizione dei lavoratori. E non è una bella rima.

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L’illustrazione in testa è tratta dal sito ASviS.

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