La lettera

logo76Newsletter n. 169 del 9 novembre 2019

IL MURO E IL PENSIERO
di Raniero La Valle

Care Amiche ed Amici,
ricorre oggi il trentesimo anniversario dell’apertura del muro di Berlino, e i giornali ne sono pieni. Quello che non viene detto è che l’Occidente sbagliò del tutto la lettura di quell’evento e perse un’occasione storica straordinaria per richiamare in servizio i suoi ideali perduti e dar mano a una nuova costruzione del mondo.
Invece che come inizio del nuovo, l’Occidente visse infatti l’evento come conferma del vecchio, come convalida e premio della sua condotta passata. “La guerra fredda è finita, e noi l’abbiamo vinta”, andò a dire alla Camera il ministro degli esteri De Michelis. C’era, in quel giudizio, l’ultima vittoria dell’ideologia del conflitto, l’ultimo grido della vecchia dialettica non più intesa come strumento della ragione ma identificata con la realtà stessa, una realtà nella quale la differenza è pensata come antitesi, i diversi sono considerati opposti, le polarità come alternative, e perciò non ci può essere quiete, conciliazione, ma contraddizione, tensioni, alienazione e guerra. Coerenti a questa visione furono le conseguenze che se ne trassero: che la riunificazione tedesca avvenisse non per integrazione ma per annessione, e per quelli dell’Est fu un disincanto; che, venuta meno la deterrenza atomica, la guerra fosse ripristinata, e fu subito la guerra del Golfo; che, con la fine dell’URSS, il capitalismo non avesse più bisogno di essere mitigato con welfare e simili per poter sostenere il confronto col socialismo; che ormai, privo di competitori, il vangelo neoliberista del mercato potesse giungere fino agli estremi confini della Terra, e divenirne la Costituzione materiale, e via via anche formale, e che la globalizzazione selvaggia ne fosse il regime, avente le merci e il denaro come sovrani e la gran parte degli esseri umani come esuberi, come residui e come scarti.
Ciò che non si volle vedere fu che l’apertura o la caduta e rimozione del muro, fu un grande evento politico; certo vi sfociava la crisi del comunismo, ma esso fu effetto di una decisione politica presa da Gorbaciov contro la riluttanza dei dirigenti tedeschi dell’Est. Soprattutto però era il frutto di un nuovo pensiero politico, il primo vero, nuovo pensiero politico che si affacciava alla storia dopo la grande stagione costituente che aveva prodotto la Carta dell’ONU, le Convenzioni sui diritti e le Costituzioni postbelliche. Non importa che si chiamasse glasnost o perestrojka; era il pensiero dell’unità umana, il pensiero della fatuità di continuare ad ammassare armi nucleari per guerre che non si potevano vincere e che quindi non potevano essere combattute; era un pensiero per il mondo, un mondo ricomposto, oltre la dialettica signore-servo, amico-nemico che aveva fin lì dominato la filosofia e la storia.
Quando il 9 novembre dell’89, “cadde” il muro di Berlino, era passato un anno dal discorso di Gorbaciov all’ONU che aveva invitato tutti a cambiare le cose, a smantellare le armi, a rimettere i debiti al Terzo mondo, a tutelare l’ambiente, a rilanciare l’ONU , a fare un mondo solidale e interdipendente, unito e diverso, in un sistema di relazioni non settarie; e per convincerli che faceva sul serio aveva annunziato di cominciare da se stesso, di cominciare dall’URSS a ridurre le armi, a togliere mezzo milione di soldati, diecimila carri armati, ottomila artiglierie e 800 aerei da combattimento dall’Europa, a concedere una moratoria di cento anni per gli interessi sul debito ai Paesi poveri o a cancellarlo del tutto, a cessare il fuoco in Afghanistan, a instaurare uno Stato di diritto, a ristabilire il primato dei diritti umani. Ed erano passati tre anni da quel 27 novembre 1986 in cui a Nuova Delhi Gorbaciov e Rajiv Gandhi, a nome di un miliardo di esseri umani e un quinto dell’umanità, avevano lanciato un appello per un totale rovesciamento della politica di dominio e di guerra e avevano proposto di costruire “un mondo libero dalle armi nucleari e non violento” in cui la vita umana fosse considerata il valore supremo, i popoli fossero rispettati, “Est e Ovest, Nord e Sud, indipendentemente dai sistemi sociali, dalle ideologie, dalle religioni e dalle razze” fossero uniti nella fedeltà al disarmo e allo sviluppo; e la catastrofe ecologica fosse scongiurata. Ma l’Occidente ignorò o non volle credere a questa rivoluzione di pensiero e di comportamenti, il sistema di guerra non se ne fece scalfire, e neanche l’apertura del Muro accese la scintilla di un ripensamento, di un’autocritica; la reazione fu quella suggerita dai riflessi condizionati e dagli stereotipi di sempre, dall’idea che questo, dei vincitori, è il modo di stare al mondo.
Per una singolare coincidenza il giorno prima della caduta del Muro, l’8 novembre, noi eravamo a Washington, al Pentagono e al Congresso, con una delegazione della Commissione Difesa della Camera in viaggio negli Stati Uniti per una missione conoscitiva. C’era tra l’altro da discutere il trasferimento dalla Spagna in Italia, da Torrejon a Crotone, di una base e uno stormo americano di F16, cosa per nulla gradita ai calabresi. Gli interlocutori del Pentagono e della Camera, pur esprimendo speranze nella distensione, si mostrarono del tutto inconsapevoli e scettici sul reale mutamento della politica sovietica, ci sommersero di dati e tabelle sulla perdurante minaccia militare russa, ci dissero che non si sapeva come sarebbe andata a finire. Non sospettavano quello che sarebbe accaduto l’indomani, e sostenevano che comunque Stati Uniti e NATO dovevano persistere nel potenziamento della loro forza militare. Nei giorni successivi, ormai caduto il Muro, andammo ad Omaha, nel Nebraska, al Comando Aereo Strategico titolare della potenza nucleare degli Stati Uniti, che aveva come motto “la guerra è il nostro lavoro, la pace il nostro prodotto”, e poi al Comando del NORAD, che è quello della difesa spaziale, scavato all’interno dei monti Cheyenne nel Colorado; in ambedue i luoghi i discorsi e il viso dell’armi furono gli stessi. Andammo pure alla base di Nellis, nel Nevada, da cui attraverso un maxischermo fu possibile seguire la manovra militare interalleata “Red flag” che in quei giorni si stava svolgendo. Potemmo anche parlare con gli aerei in volo. Ce n’era uno che volava sempre, non atterrava mai, perché a bordo c’era un signore, un generale, che lontano da terra, girando sopra l’America, doveva garantire che in caso di un attacco nucleare che distruggesse i comandi dei missili al suolo, ci fosse sempre qualcuno lassù che potesse lanciare la ritorsione atomica e fare l’Armageddon. Collegati con lui, gli dicemmo: “generale, scenda giù che la guerra è finita” e lui rispose no no, non si può essere sicuri, dobbiamo restare sul piede di guerra. Scoprimmo anche una buona dose di religiosità in quella fede nelle armi: nelle tre Accademie militari che abbiano visitato alla fine, dell’Esercito, dell’Aereonautica e della Marina, la prima cosa che ci fu mostrata fu la rispettiva cattedrale: una con l’organo più grande del mondo, l’altra con la croce fatta di pale d’elica, l’altra con un Gesù frangiflutti che cammina sulle acque, e l’urna dell’eroe portata al cielo sul dorso di delfini.
La morale è che ci vuole un pensiero per far cadere i muri, ma se pur cadono i muri e non cambia il pensiero tutto continua come prima e anche peggio. Quel 9 novembre di Berlino fu un momento unico, irripetibile, un tempo favorevole, un “kairόs”, come lo chiamavano i Greci, che corre fuggendo con le ali ai piedi, e se non l’afferri al passaggio non torna più. Ma ora c’è da fare un miracolo: quel kairόs della caduta dei Muri dobbiamo farlo ripassare e non lasciarlo fuggire più.
Nel sito riportiamo una cronaca del discorso di Gorbaciov del 1988, la Dichiarazione di Nuova Delhi per un mondo senza armi nucleari e nonviolento, un articolo di Alfiero Grandi che illustra i rischi per la democrazia della riforma costituzionale che sopprime molti seggi parlamentari, e un commento del cardinale Hummes sul documento conclusivo del Sinodo per l’Amazzonia, con particolare riferimento al futuro, ai popoli indigeni, al compito impellente di salvare l’umanità e la Terra, fuori da ogni apocalisse.

Con i più cordiali saluti
www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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Il pensiero che aprì il Muro
IL DISCORSO DI GORBACIOV ALL’ONU L’ANNO PRIMA

Il 7 dicembre 1988 il segretario generale del PCUS annunciava all’ONU un piano di disarmo col ritiro di 50 mila uomini e 10 mila carri armati dal fronte europeo, annunciava il cessate il fuoco in Afghanistan, proponeva di cancellare il debito del Terzo Mondo e di costruire un mondo solidale e interdipendente, intento ad opere di pace a cominciare dalla tutela dell’ambiente
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Dalla Repubblica dell’8 dicembre 1988

NEW YORK “Oggi io posso dirvi che l’Unione Sovietica ha deciso di ridurre le sue forze armate”. In piedi davanti all’assemblea generale dell’Onu, con George Shultz in platea, Mikhail Gorbaciov ha annunciato una svolta storica e spettacolare nella politica militare sovietica, aprendo una nuova fase nella distensione tra Est e Ovest. Sei divisioni corazzate sovietiche se ne vanno dalla Germania dell’Est, dalla Cecoslovacchia e dall’Ungheria, lo spiegamento di uomini e mezzi nella zona europea dell’URSS viene ridotto, la maggior parte delle truppe dislocate in Mongolia ritorna a casa. In totale l’Armata Rossa perde in due anni mezzo milione di uomini (il 10 per cento della sua forza complessiva), 10 mila carri armati, 8 mila 500 sistemi d’artiglieria, 800 aerei da combattimento. E’ l’intera macchina bellica sovietica che cambia volto, mentre tutta la strategia politico-militare del Cremlino viene ridisegnata nel segno della perestrojka, con un’immediata ricaduta economica per la ristrutturazione dell’ industria degli armamenti, con la riconversione di una sua parte a scopi civili.

Ieri, proprio mentre l’assemblea dell’Onu applaudiva a lungo Gorbaciov, da Mosca rimbalzavano a New York voci di inquietudini e malumori negli ambienti militari sovietici, tanto che Gorbaciov ha dovuto pensionare improvvisamente uno dei suoi uomini, il maresciallo Akhromeev, lasciando il posto operativo di Capo di Stato Maggiore a un generale vicino al ministro della Difesa Yazov. E’ il primo contraccolpo tutto interno della rivoluzione militare gorbacioviana.

La mossa su Kabul. Strategica, e non soltanto tattico-spettacolare, la mossa di Gorbaciov ci accompagna ad una nuova iniziativa per l’Afghanistan; egli mentre chiede il rispetto degli accordi di Ginevra e una Conferenza dell’Onu per la neutralizzazione del Paese, propone un completo cessate-il-fuoco dal primo gennaio, con una spartizione del territorio nazionale e dunque un riconoscimento implicito dei mujaheddin.

In più, il leader sovietico chiede ai Paesi sviluppati d’inventare un nuovo meccanismo per risolvere il problema del debito del Terzo Mondo, che non potrà essere restituito nei suoi termini originari e s’impegna a istituire nuove garanzie di legge per i diritti umani, riconoscendo la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

Portata nel cuore dell’impero reaganiano, la proposta di Gorbaciov ha l’impianto di un messaggio al mondo, accompagnato dal tentativo di dimostrare la volontà di passare dalle parole ai fatti, dopo tre anni di perestrojka. Il test è prima di tutto il piano unilaterale di disarmo, non a caso annunciato nella cornice universale-telematica dell’Onu e non nello spazio ristretto del summit, rinunciando ad un possibile scambio negoziale ma guadagnando spettacolarità, e denunciando l’ambizione planetaria della politica gorbacioviana. Proprio nel momento in cui è assediato dalla crisi dei nazionalismi interni e dalla ribellione della periferia, Gorbaciov ha voluto presentarsi come l’ unico pieno titolare di una politica e delle sue svolte. La leadership sovietica, ha detto, ha deciso di dimostrare ancora una volta di essere pronta a rafforzare questo salutare processo di disarmo non solo con le parole ma con i fatti. D’intesa con i Paesi del Patto di Varsavia, il Cremlino ritira dunque entro il 1991 sei divisioni corazzate da tre paesi dell’ Est, insieme con truppe d’assalto da sbarco con le loro armi.

Ulteriori riduzioni. In totale le truppe sovietiche dislocate all’Est subiranno un taglio di 50 mila uomini e 5 mila carri armati, mentre le altre divisioni verranno riorganizzate e dopo un ulteriore riduzione dei loro mezzi corazzati diventeranno apertamente difensive. La riduzione riguarderà anche uomini e mezzi impiegati nella parte europea dell’URSS, con il risultato finale di un depotenziamento del fronte europeo in URSS e nei Paesi alleati di 10 mila carri armati, 8.500 pezzi d’artiglieria e 800 aerei da combattimento. Parallelamente, Gorbaciov manda anche un segnale alla Cina, con ogni probabilità già anticipato pochi giorni fa al ministro degli Esteri di Pechino ritornato in visita a Mosca: le forze armate sovietiche a distanza nella zona asiatica del Paese verranno significativamente ridotte nei due anni, e la maggior parte delle truppe dislocate in Mongolia ritorneranno a casa.

Con questo piano di riorganizzazione militare, nasce il problema della transizione da un’economia degli armamenti all’economia del disarmo. E l’URSS, garantisce Gorbaciov, è pronta a rendere pubblico il suo piano di riconversione, che scatterà già nel 1989 con un esperimento di produzioni civili in due o tre impianti di industria bellica. L’altra immediata traduzione pratica del progetto gorbacioviano di riduzione unilaterale della presenza militare sovietica, riguarda l’Afghanistan. Qui i fatti sembrano contraddire le parole, perché il piano di ritiro è stato sospeso. Evitando con sorvegliata prudenza attacchi e polemiche dirette dalla tribuna su cui Kruscev battè la sua scarpa di Segretario Generale, nel 1960, Gorbaciov si è limitato ieri a un ammonimento: Pacta sunt servanda. La proposta sovietica prevede un completo ed effettivo cessate-il-fuoco dal primo gennaio, con la fine di ogni operazione d’attacco e dei bombardamenti e con i territori occupati dalle forze di opposizione che rimangono sotto il loro controllo per tutta la durata del negoziato, mentre a Kabul e negli altri centri strategici dovrebbe operare un contingente dell’ Onu.

In tutto il discorso il leader sovietico ha sottolineato la necessità di un nuovo ruolo per le Nazioni Unite, dalla difesa dell’ ambiente all’ esplorazione dello spazio, alla soluzione del problema del debito estero dei Paesi sottosviluppati. L’URSS è pronta ad una moratoria fino a cento anni degli interessi, e in alcuni casi limitati e disponibili a cancellare il debito del tutto. L’invito rivolto agli altri Paesi sviluppati è quello di creare un’agenzia specializzata che dovrebbe rilevare le esposizioni debitorie, nel quadro di una consultazione a livello di capi di governo tra Paesi debitori e Paesi creditori, sempre sotto gli auspici dell’Onu. E’ la visione (che lo stesso Gorbaciov definisce romantica) di un mondo solidale e interdipendente, pronto, all’unità nella diversità, in un sistema di relazioni deideologizzate, con la perestrojka strumento di una sorta di nuovo imperialismo sovietico di pace.

Il sostegno del Paese. Il leader dell’URSS assicura che i sovietici di ogni generazione sostengono la nuova politica del Cremlino e garantisce che lo stato di diritto si svilupperà nel suo Paese, cambiando radicalmente il quadro dei diritti umani. Già oggi, ha ripetuto Gorbaciov, non ci sono persone costrette al confino per il loro credo politico e religioso: in futuro profonde modifiche al codice penale (compresi gli articoli sulla pena di morte), insieme con la revisione della politica dei visti, introdurranno nuove regole, cancellando dall’ agenda il problema dei cosiddetti refuznik.

È la cornice della nuova URSS nell’età della perestrojka che Gorbaciov offre a Bush, nel momento in cui cambia l’amministrazione americana. Nel discorso del segretario-presidente c’è solo un profondo rincrescimento per l’incidente con l’OLP; ma c’è la promessa che Bush troverà al Cremlino un interlocutore aperto e pronto a continuare il dialogo, in uno spirito di realismo.

8 dicembre 1988, dall’inviato della “Repubblica” Ezio Mauro

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