Quale democrazia oggi?

Il ragazzo con la lampada Ferdinand Georg Waldmuller
Le cause della crisi della democrazia

di Gianfranco Sabattini

Esiste una percezione crescente della crisi delle democrazia in tutto il mondo; secondo Steven Lavitsky e Daniel Ziblatt, autori del recente saggio “Come muoiono le democrazie”, ciò che maggiormente stupisce è il fatto che, a differenza del passato, in cui la “morte” delle democrazie era causata da rivoluzioni o da colpi di Stato perpetrati da gruppi armati, oggi essa è invece determinata da un processo messo in atto dall’interno delle stesse istituzioni democratiche, con mezzi legali e per iniziativa di leader eletti.
Sebbene tra il 1945 e il 1990 i sistemi democratici siano sembrati diffondersi e consolidarsi in tutto il pianeta, in realtà, molte di questi sistemi devono la loro “sopravvivenza” al fatto che, in quel periodo, a causa della Guerra Fredda, sono stati sostenuti dalle potenze occidentali per ragioni prevalentemente ideologiche. Essi, infatti, al di là delle apparenze, erano intrinsecamente minati da un “mal sottile”: come afferma Walter Lippmann in “Il grande vuoto” (un saggio – iniziato negli anni Trenta e finito negli anni Cinquanta del secolo scorso – che, per quanto datato, è considerato una magistrale analisi della crisi delle democrazie liberali, valida ancora oggi), mentre nel passato la difesa delle democrazie è stata resa possibile dal lento consolidarsi, nella coscienza dei cittadini, di una “filosofia pubblica” (intesa come l’insieme delle condizioni civiche che rendevano possibile il funzionamento delle istituzioni democratiche), nella prima parte del XX secolo vi è stata di “una massiccia controrivoluzione popolare”, che ne ha fortemente incrinato il corretto funzionamento.
Si è trattato, sostiene Lippmann, di una reazione all’insufficienza del liberalismo “ad affrontare le miserie e le angosce del secolo”, ovvero all’incapacità delle democrazie liberali a governare con efficienza le società capitalisticamente avanzate nei periodi di guerra e di sollevazioni; ma anche per la loro scarsa idoneità a difendere e conservare la filosofia pubblica nella quale si sostanziava il “costume di vita liberale”. Qual è stato l’impatto delle conseguenze della “controrivoluzione popolare” sul funzionamento delle democrazia?
A parere di Lippmann, quando si vuol mettere in evidenza il malfunzionamento dei regimi democratici, è inevitabile che esso (il malfunzionamento) sia riferito ad “un’alterazione del rapporto tra le masse popolari e i governi”, nel sottinteso che possa esistere tra le prime e i secondi “una relazione normale” e che si sia in grado di stabilire quale essa sia. Per analizzare, dunque, il malfunzionamento dei regimi democratici, ciò a cui occorre fare riferimento è la relazione “che corre tra il potere governativo ed esecutivo da una parte e i votanti nei collegi elettorali dall’altra”. Questa relazione non potrà dirsi normale, finché le funzioni di governo e di rappresentanza non si siano “differenziate”. Si tratta di una condizione ineludibile per un regime democratico, perché dalla tensione e dall’equilibrio tra i due poteri (quello dei governanti e quello dei governati) nascono regole, scritte e non scritte, sulle quali è stato fondato il patto costituzionale della convivenza collettiva.
L’esecutivo è depositario del “potere attivo”, che “chiede e che propone”, mentre alle assemblee rappresentative dei governati compete il “potere che consente, che presenta petizioni, che approva o critica, che accetta o respinge le proposte del governo”. I due poteri sono entrambi necessari, se si vuole che vigano ordine e libertà, ma ciascuno di essi deve essere conforme alla sua natura, in modo da limitare e integrare l’altro; ciò significa che il governo deve essere sempre nella condizione di poter governare, mentre i cittadini devono sempre, al fine di non essere oppressi, poter fare sentire la loro voce attraverso le loro assemblee rappresentative.
Il normale funzionamento delle democrazie, quindi, dipende dalla normalità della relazione tra i due poteri: se l’uno assorbe o distrugge le funzioni dell’altro, è inevitabile che il patto costituzionale venga alterato. Se ciò accade, le democrazie entrano i crisi, non però, secondo Lippmann, per cause attinenti alle vicende esistenziali dei cittadini (propensi, ad esempio, a farsi governare in determinate circostanze da governi autoritari e non da governi liberi), ma per cause che attengono ai loro governi, quando, con la loro inefficienza, rendono le democrazie incapaci di affrontare i motivi delle crisi, sia economiche che sociali e politiche; motivi che, se non curati, continueranno “a corrodere le garanzie contro il dispotismo”, sino alla totale perdita della libertà e alla “conseguente necessità, per restaurarla, di una rivoluzione”.
Ma, sia che si tratti di porre in essere le necessarie azioni per impedire l’ulteriore deterioramento delle istituzioni democratiche, che di impedire il ricorso ad una rivoluzione per il ricupero di tali istituzioni, occorre – a parere di Lippmann – avere un’adeguata consapevolezza circa le funzioni dei due poteri (del governo e delle assemblee rappresentative), della loro natura e delle loro alterazioni. A questo fine è necessario, soprattutto, avere presente il “vero” significato dell’elemento che costituisce il pilastro delle democrazie, cioè del “popolo”; nella percezione dell’opinione pubblica, quest’ultimo ha due significati diversi, che occorre tenere distinti. Quando si parla di “sovranità popolare”, come fonte originaria della legittimità delle istituzioni democratiche, occorre tenere presente che il popolo non coincide con l’elettorato che si pronuncia in un determinato momento, bensì con “l’insieme dell’intera popolazione, compresi i suoi ascendenti e discendenti”, un aggregato quindi che rappresenta il popolo “quale comunità storica”.
L’assunzione che le “opinioni dell’elettorato possano valere come espressione del popolo quale comunità storica” ha originato, secondo Lippmann, il “problema cruciale” delle democrazie moderne, dovuto all’assunzione del “falso postulato” implicante che l’elettorato possa rappresentare integralmente la comunità storica e che le opinioni della stesso elettorato “possano essere accettate senza discussione come autentico giudizio degli interessi vitali di essa”. A causa della differenza esistente tra “popolo come somma di votanti” e “popolo come organica unità di votanti”, i “primi non hanno alcun titolo per considerarsi arbitri dello Stato e per pretendere l’identità dei loro interessi con quelli della comunità”.
Una maggioranza di votanti, perciò, non è il popolo quale comunità storica, per cui la contraria pretesa della maggioranza è stato il “pretesto per giustificare la manomissione del potere esecutivo da parte delle assemblee rappresentative”, nonché l’intimidazione esercitata sugli uomini dell’esecutivo perché fossero soddisfatti prioritariamente gli interessi dell’elettorato.
In tal modo, essendo venuta meno la considerazione del popolo come comunità storica, ovvero come “ininterrotto fluire di individui e di generazioni”, è venuto meno il “cemento” che tradizionalmente l’ha teneva organicamente unita, ovvero è venuta meno la solidarietà non solo “tra coloro che sono ora viventi”, ma anche con “coloro che sono morti e coloro che nasceranno”. Rimossa la comunità storica, quella che tradizionalmente conferiva razionalità e giustificazione all’azione politica dell’esecutivo, “da dove viene – si chiede Lippmann – il dovere e l’impegno di difendere il pubblico interesse?” Senza l’idea di una comunità trascendente – continua Lippmann – perché la maggioranza dell’elettorato della popolazione presente “dovrebbe darsi il pensiero della posterità” e perché la posterità dovrebbe aver riguardo per la maggioranza dell’elettorato? Senza questo “pensiero” e senza questo “riguardo”, una nazione non può progettare razionalmente il proprio futuro, rendendo inevitabile che le strutture del proprio Stato scontino un processo di decadimento.
Dopo il prevalere degli egoismi di parte, che ha determinato la totale dipendenza degli esecutivi dagli elettorati, è seguita la rottura dell’equilibrio tra le due funzioni dello Stato democratico: l’esecutivo ha perduto legittimazione sul piano politico, mentre gran parte delle sue originarie funzioni è passata alle assemblee dominate dalle maggioranze degli elettorati. Questa condizione delle democrazie è stata la risultante di una sorta di “rivoluzione interna che ha ‘inquinato’ il sistema costituzionale degli Stati liberaldemocratici”. Si è trattato di una rivoluzione compiutasi nella prima parte del XX secolo e il suo successo, non casualmente, ha dato luogo all’avvento, in alcuni dei Paesi di più antica democrazia, di regimi liberticidi che hanno indebolito tutte le forme di governo democratico.
Il secondo conflitto mondiale è valso a restaurare, soprattutto in alcuni Paesi dell’Europa occidentale, la democrazia soppressa, senza però che fosse rimossa la falsa credenza che l’elettorato possa rappresentare la comunità storica e che le sue opinioni debbano essere accettate come valutazione degli autentici interessi della stessa. Sebbene le rinate democrazie siano sembrate consolidarsi e diffondersi, in realtà, come si è detto, esse hanno potuto conservarsi per il sostegno dato loro dalle potenze occidentali per ragioni ideologiche, senza però impedire che il “virus” dell’egemonia delle assemblee rappresentative potesse continuare a pervadere e condizionare totalmente il loro funzionamento.
Il contenimento della primazia delle assemblee è venuto però totalmente meno a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, con l’inizio del processo di globalizzazione delle economie nazionali, sorretto dal prevalere dell’ideologia neoliberista. Perché il mondo si è frammentato sotto l’effetto delle forze che hanno sorretto il processo di globalizzazione delle economie nazionali? A partire dagli anni Novanta, nel linguaggio economico e in quello politico, è invalso l’uso del termine “neoliberismo”, come sinonimo di “libero mercato”.
Questo termine ha una “sua storia”; esso è “nato” a seguito dell’elaborazione, negli anni Trenta del secolo scorso, di una linea di pensiero critico dell’originario liberismo “laissezfairista”. Nel 1938, si è svolta a Parigi una conferenza internazionale, intitolata “Colloque Walter Lippman”, organizzata per discutere l’analisi che il famoso saggista e giornalista americano aveva svolto nel libro “The Good Society”, pubblicato nel 1937. Alla conferenza era presente, oltre a Lippmann, il fior fiore degli “ordoliberisti” tedeschi, quali Wilhelm Röpke e Alexander Rüstow e, tra gli altri, i teorici della scuola economica austriaca Friedrich Hayek e Ludwig Mises. Alla fine della conferenza, i partecipanti hanno deciso di dare luogo ad una organizzazione, con lo scopo di promuovere la diffusione del pensiero critico sugli esiti sociali, economici e politivi negaivi del “laizzez-faire” del primo liberismo. Dopo il conflitto, l’organizzazione è stata sostituita, per iniziativa di Friedrich Hayek, dalla Mont Pelerin Society.
Alla fine degli anni Settanta, il neoliberismo proposto dal “Colloque”, per iniziativa del sodalizio della Mont Pelerin Society, ha “cambiato pelle”; esso si è trasformato nella negazione del neoliberismo formulato alla fine degli anni Trenta e ispirato al contributo del keynesismo; in altri termini, esso è stato finalizzato a propagandare la necessità di ridurre la regolamentazione alla quale era stato assoggettato il libero mercato.
L’idea centrale che i neolibersiti montpeleriniani hanno teorizzato del mercato è stata la sua presunta pervasività riguardo ad ogni aspetto della vita a livello globale; così che ogni individuo, per soddisfare nel migliore dei modo i propri interessi, doveva accettare un mondo in cui il prodotto dell’agire umano fosse stato l’esito della conformità di tale agire alle forze di mercato.
Per il neoliberismo montpeleriniano, quindi, perdeva significato ogni distinzione tra economie di mercato e società di mercato; ciò perché, quando i comportamenti umani fossero risultati conformi ai principi dell’ideologia neoliberista, il mercato sarebbe diventato il fondamento di tutto, nel senso che sarebbe esistita solo una società di mercato, una cultura di mercato, valori di mercato e persone plasmate dal mercato, che avrebbero interagito a titolo individuale, sulla base di una valutazione strettamente individuale dei propri interessi, con altre persone ugualmente plasmate dal mercato.
Da qui è derivato un radicale mutamento circa il modo di concepire il funzionamento delle società democratiche, nelle quali cessava completamente il rispetto delle regole che avevano permeato ed educato i popoli ad accettare come irrinunciabili i due poteri sui quali si reggevano gli ordinamenti democratici, nonché a rispettare la contrapposizione dialettica tra esecutivo e assemblee rappresentative; regole che nel tempo si erano radicate, nella percezione dei cittadini, nella forma di una “filosofia pubblica” idonea a costituire il supporto del corretto funzionamento della democrazia.
L’avvento dell’ideologia neoliberista e della globalizzazione è valso a rimuovere dalla coscienza di cittadini tale filosofia pubblica, concorrendo a creare il “grande vuoto” al quale, sia pure con riferimento a tempi e situazioni diverse, accennava Lippmann nel saggio degli anni Cinquanta. E’ così che le moderne società, un tempo regolate e governate da regimi democratici, hanno assistito al crescere dell’importanza di uno sfrenato individualismo; questo, distruggendo la tradizionale azione dell’esecutivo, ha reso possibile che le società democratiche fossero additate come forma di organizzazione sociale superata e irrazionale, fondando così l’dea che alle società industriali moderne si addicano, in quanto più convenienti, forme di “democrazia illiberale”.
Il caso italiano può essere assunto a paradigma rappresentativo di una situazione divenuta comune a gran parte delle società di più antica tradizione democratica; un fenomeno che allo stato attuale rende difficile la ricerca di una possibile strategia con cui porvi rimedio.

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