Gli Stati Uniti d’America: da “nazione indispensabile” alla “nazione superflua” dell’era Trump. Perché è probabile che anche a causa del coronavirus Trump perda le elezioni.

081829bc-ff0e-40b4-8ee0-e21f36b45257GLI STATI UNITI, UN PAESE DA NON INVIDIARE
marino-de-medici-fdi Marino de Medici*
Non sono molti coloro che ricordano una definizione dell’America pronunciata dall’ex segretario di stato Madeleine Albright: “la nazione indispensabile”. Occorre ricordare che questa definizione fu proclamata nel Febbraio 1998 a sostegno delle pressioni americane sull’Irak e che con essa l’allora segretario di stato intendeva avanzare il concetto degli Stati Uniti come “garante della stabilità come unica superpotenza nel contesto delle istituzioni multilaterali”. Anni più tardi, dopo che il presidente George W. Bush aveva spinto quel concetto a catastrofiche conseguenze con l’invasione dell’Irak, il presidente Obama modificava la portata dell’appellativo affermando che l’America non è solo una grande nazione nel senso che è una potenza, ma per il fatto che “i suoi valori e le sue idee hanno vasta influenza”. A partire dal 2017 un altro presidente, Donald Trump, non perdeva tempo nello scardinare il concetto propugnato dalla Albright con una politica isolazionista che negli ultimi tempi ha reso l’America una “nazione superflua”.
Gli alleati dell’America, pur avendo goduto a lungo della protezione offerta dalla potenza americana, osservano oggi con incredulità le interminabili file di americani che ritirano pacchi viveri preparati da migliaia di organizzazioni sociali e caritatevoli. E’ uno spettacolo che lascia attoniti gli europei. Al tempo stesso, gli europei ormai conosconole cause di un fenomeno che non si presenta nei loro Paesi: la mancanza di una rete sociale e di risorse, a cominciare da quelle ospedaliere, dedicate alle classi meno abbienti.
Il “socialismo” che molti leader americani denunciano come il peggiore dei mali per un
Paese e’ quello che permette agli europei di affrontare la crisi senza cadere nel baratro di una disoccupazione che probabilmente lascerà il segno per anni negli Stati Uniti. In Germania, esiste un sistema, chiamato Kurzarbeit, che permette di regolare e proteggere il mercato del lavoro durante una crisi economica, attraverso la riduzione degli orari di lavoro e la loro distribuzione nella stessa forza lavorativa. Nulla di simile è possibile o previsto negli Stati Uniti. Risultato: i disoccupati e sottoccupati in America sono oggi 44 milioni.
Un gran numero di economisti ritiene che quasi metà delle occupazioni perse a causa del coronavirus diverrà permanente. Le minoranze soffrono gli effetti della crisi in misura sproporzionata: la disoccupazione tra gli hispanici si è quadruplicata mentre tra gli asiatici è aumentata sei volte. Il tasso di disoccupazione tra gli afro-americani ha raggiunto il 16,7 per cento. I settori più colpiti dalla crisi sono quelli definiti “non essenziali”: vendite al dettaglio, ospitalità e alimentazione. Trentatre milioni di americani hanno richiesto gli assegni di disoccupazione che vengono elargiti dagli stati. Questi sono sopraffatti dalle richieste al punto che nove stati hanno chiesto un prestito di 38 miliardi al Federal Unemployment Account per soddisfare le domande dei lavoratori che hanno perso il posto di lavoro.
Il nodo scorsoio della sanità americana è rappresentato da una statistica che sbalordisce gli europei: prima che arrivasse il flagello del coronavirus, 160 milioni di americani ricevevano la loro assicurazione medica attraverso il datore di lavoro. Secondo uno studio dello Urban Institute, da 25 a 43 milioni di lavoratori rischiano di perdere l’assicurazione medica qualora la crisi dovesse perdurare. E’ una prospettiva sconvolgente che dimostra quanto l’America sia vulnerabile a motivo delle differenti regolamentazioni degli stati, in modo speciali quelli retti da repubblicani, che impongono restrizioni ai programmi di assistenza, come Medicaid, a beneficio dei cittadini a basso reddito. Tra questi figurano trenta milioni di americani privi di assicurazione medica ancor prima della pandemia.
Un fatto saliente dell’economia degli Stati Uniti è che decine di milioni di americani non dispongono di risparmi tali da far fronte ad una emergenza ma vivono “da paycheck a paycheck” ossia da una busta paga all’altra. E’ una situazione che perdura da molto tempo a questa parte ma l’attuale crisi ha portato le economie familiari ad un punto in cui non possono autosostenersi. La conseguenza più grave è quella di causare forti restrizioni nella condotta di vita, e addirittura la ricerca di viveri alla quale si assiste in tutto il Paese, con una forte contrazione della domanda. Va tenuto presente che il PIL americano dipende per il 70 per cento dalla spesa dei consumatori in negozi, acquisti online, ristoranti e sedi di sport ed intrattenimento. La previsione di una maggioranza degli economisti è che non ci sarà un rapido recupero dell’economia americana in termini della cosiddetta “curva a forma di V”. E’ sulla V che fa conto il presidente Trump, in tempi relativamente brevi, per assicurarsi la rielezione. Ora però gli stessi consulenti economici del presidente, tra i quali il Segretario al Tesoro Mnuchin, ammettono a denti stretti che il protrarsi della crisi potrà produrre “un danno economico permanente”.
Tutto ruota attorno ad un interrogativo, se l’andamento nella rimozione delle misure restrittive porterà ad una recrudescenza dei contagi e lamentabilmente ad una media ancor alta di decessi. A solo sei mesi dalla consultazione presidenziale, Donald Trump gioca una carta disperata, quella di convincere una massa di elettori che il ritorno alla normalità può avvenire in piena sicurezza. Le morti causate dal perdurare del virus sono in pratica il prezzo da pagare per la normalità, una congiuntura che per Donald Trump significa esclusivamente piena ripresa finanziaria – economica. Trump ignora un fatto drammatico, che la pandemia sta alterando le condizioni di vita in tutto il Paese, ma in modo speciale negli ambienti urbani più popolati. Tra l’altro, è probabile che molti abitanti di città infestate dal virus decidano di trasferirsi in zone rurali. A New York ed altre grandi città questo fenomeno non mancherebbe di modificare a fondo la natura del mercato residenziale.
Economisti, epidemiologi e studiosi della sanità sono tutti d’accordo che in America la rete di sicurezza sociale non funziona. Joseph Stiglitz in particolare attribuisce questa situazione alla diseguaglianza che colpisce soprattutto coloro che non godono di buona salute. Ed aggiunge, con un pessimo presagio, che una massa di americani spenderà esclusivamente per procurarsi da mangiare, “la definizione di una Grande Depressione”. Sul piano globale, le catene di approvvigionamenti si accorceranno, ed i Paesi daranno la priorità all’autosufficienza per il cibo ed energia.
Ed infine, va tenuto conto delle ripercussioni sul tessuto connettivo dell’America in termini di accesi contrasti tra il potere federale e gli stati. Basti pensare alle acerbe polemiche sulla disponibilità di test diagnostici e sulla ripartizione di attrezzature medicali. Il discorso purtroppo riguarda anche i singoli stati. Quando un gruppo di facinorosi armati di fucili d’assalto penetra nel governatorato del Michigan urlando “tirannia” e invocando la libertà di fare la spesa, consumare ed agire senza restrizioni, non è ingiustificato parlare di “guerra civile” con la maggioranza che si attiene alle norme anti-epidemiche. Invocare la liberazione dal “lockdown”, la chiusura su scala nazionale, è un simbolo di libertà stravolto in quanto comporta la libertà di morire di coronavirus e di minacciare di malattia e morte coloro che non hanno la possibilità di sfuggire al contagio. Altrettanto “incredibile” – per usare un aggettivo prediletto da Trump – è che il presidente sottoscriva questo concetto di “libertà”. Tale constatazione indubbiamente spiega perché la crisi globale in atto non trovi alcun Paese incline a seguire la leadership della nazione “indispensabile”.
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JOSEPH BIDEN E LE SUE IPOTECHE

Bernie Sanders ha detto addio alle sue aspirazioni presidenziali, ma cosa faranno adesso i suoi sostenitori, per la maggior parte giovani? Questo è l’interrogativo che domina tra gli osservatori politici americani, molti dei quali – ma non tutti – non sono ignari che tra i tanti indici della popolarità di un candidato, e quindi della possibilità di elezione, ve ne è uno che è difficile quantificare ma che alla fine può decretare l’esito del voto. E’ il cosiddetto “entusiasmo dell’elettore”, ossia il rilevamento demoscopico che confronta la propensione di un elettore di rimanere a casa contro la decisione di andare alle urne per esprimere il proprio appoggio ad un
candidato. Questo è il problema di Joseph Biden come lo fu quattro anni fa per Hillary Clinton che per colpa di quel fattore finì per perdere l’elezione presidenziale. Un’inchiesta demoscopica della ABC ha portato alla luce un dato interessante: gli elettori repubblicani sono molto più entusiasti di votare per Trump rispetto ai democratici chiamati a votare per Biden. Soltanto il 24 per cento degli elettori democratici hanno fatto sapere di essere “entusiasti” della candidatura Biden, uno dei livelli piu’ bassi di popolarità di un candidato tra i suoi potenziali elettori.
Vi è adesso un certo numero di esperti – ma non tra la stampa che ha sempre disdegnato la candidatura Sanders – che scorge nell’indice di “entusiasmo dell’elettore” un importante segnale di debolezza del candidato che ha già in tasca la nomination del partito democratico. Per contro, gli stessi esperti riconoscono che Bernie Sanders aveva dietro di se una massa di potenziali elettori entusiasti ed intensamente impegnati a favore della sua candidatura. Purtroppo per Sanders, non era una massa critica, come del resto veniva dimostrato dal risultato delle elezioni primarie a partire dal famoso “supermartedì”.
Vi è stato comunque un momento, all’indomani delle primarie del New Hampshire e del Nevada, in cui è sembrato che Bernie potesse farcela a conquistare la nomination. In quei frangenti, è prepotentemente entrato in gioco un altro indice, quello della “eliggibilità”, che ha coagulato il fronte dei “never Bernie” (mai Bernie), dei democratici che non condividono le idee progressiste del senatore del Vermont. Dalla sera alla mattina, Joe Biden è divenuto il portabandiera di questo blocco di elettori democratici. Ma quanti di loro sono così “entusiasti” di Joe Biden da andare a votarlo? E’ una “big question”, dalla quale dipende il risultato del 3 Novembre. Una cosa è certa, ed è che i sostenitori di Trump voteranno in blocco e con forte affluenza. Le indagini demoscopiche calcolano costantemente una percentuale a favore di Trump del 45 per cento dell’elettorato. Tutto lascia pensare insomma che l’elezione presidenziale verrà decisa sul filo di lana in tre stati (Michigan, Pennsylvania e Wisconsin), che nel 2016 diedero a Trump la vittoria con un margine totale di appena 80.000 voti. Quei tre stati avevano votato per Obama nel 2012.
Bernie Sanders si è ritirato dalla corsa presidenziale e ha promesso a Biden di appoggiare la sua candidatura. Ma non gli ha concesso un vero e proprio “endorsement” ossia un’incondizionata approvazione. Le condizioni, anzi, ci sono eccome. Sanders
vuole che Biden abbracci elementi fondamentali della sua politica sociale ed economica, ben sapendo che Biden non appoggia il piano di “Medicare for All”, che a suo tempo non incontrò favore alcuno tra gli altri aspiranti alla candidatura presidenziale, con la sola possibile eccezione della senatrice Elizabeth Warren. Sanders ha citato la pandemia del covid-19 come prova della necessità di adottare “Medicare for All” al fine di garantire l’assistenza medica a tutti gli americani. La maggioranza dei media ha accusato Sanders di essersi servito dell’epidemia per sollecitare l’adozione dei suoi programmi, come se l’appello alla protezione sanitaria fosse in fondo una
manovra opportunistica. Da tempo, la stampa in America ha acquisito una fisionomia corporativa al servizio dei poteri forti, che si esprimono attraverso gli ingenti contributi dei “grandi donatori”, oltre agli stretti legami dell’Establishment con i dirigenti del partito deocratico. Per contro, Donald Trump ha pochi giornali al suo fianco ma ha una alleato formidabile nella catena televisiva Fox. Non solo, perché i mezzi busti trumpisti della Fox sono per molti versi gli ispiratori della sua politica. Il presidente dedica ore della sua giornata ad ascoltare la versione degli eventi ed i commentari della Fox.
L’insistenza di Sander nel sollecitare una politica sanitaria finanziata dal governo è strettamente legata alla sua campagna contro l’ineguaglianza sociale ed economica.
Questa a sua volta è drammaticamente denunciata dai dati relativi alla pandemia secondo i quali gli afro-americani muoiono in misura molto più elevata rispetto ai bianchi. A Chicago, dove la popolazione nera è del 30 per cento, i decessi tra gli afro-americani toccano il 70 per cento. Lo stesso squilibrio si registra nella contea di Milwaukee (27 per cento di colore, con decessi fino all’81 per cento della popolazione locale).
L’ex vicepresidente Biden non ha fiatato nel merito limitandosi ad affermare che il programma “single payer”, ossia l’assistenza sanitaria con un solo finanziatore, lo stato – “non risolverà la crisi della pandemia”. Lo stesso Biden, in un dibattito con gli altri candidati, aveva citato l’Italia come un Paese in cui il sistema “single payer” era incapace di risolvere la crisi del coronavirus con l’esistente sistema sanitario. A parte l’ignoranza dimostrata nei confronti di un sistema che fornisce assistenza medica a tutti i cittadini su base praticamente gratuita (tutto il contrario degli Stati Uniti dove la medicina è a pagamento), Biden ha ignorato lo sforzo sovrumano di un sistema sanitario sopraffatto da una micidiale epidemia. L’ex vicepresidente propone un’imprecisata estensione di Obamacare ed una altrettanto poco chiara “opzione pubblica”, sottovalutando un importante fatto, che da quando si è diffuso il coronavirus il sostegno dei democratici per “Medicare for All” è salito di nove punti, attestandosi sul 55 per cento degli elettori intervistati dall’organizzazione demoscopica Morning Consult. Ed ancora, anche gli indipendenti sono a favore di “Medicare for All” in ragione del 52 per cento. In generale, l’appoggio a “Medicare For All” è cresciuto di dieci punti tra gli elettori di colore e quelli di età tra i 45 e 54 anni. Di fatto, il picco della pandemia e la conseguente crisi senza precedenti dell’occupazione impongono un approfondito studio delle deficienze del sistema sanitario americano che fa affidamento sul legame tra assicurazioni e impieghi lavorativi. Gli stati governati da repubblicani che non hanno abbracciato il programma Medicaid con le clausole previste dall’Affordable Care Act (Obamacare) corrono il rischio di lasciare ventotto milioni di americani senza assicurazione medica.
La crisi della salute pubblica in America non ha purtroppo assistito il superamento della frattura partigiana che divide gli americani in tema della legislazione sanitaria. Il 44 per cento dei repubbicani si dichiara contrario ad accettare Obamacare, ed ancor meno un programma “single payer”. E’ su questo scivoloso terreno di confronto politico che Biden si accinge a tracciare le line definitive della sua agenda elettorale, che non può non fare a meno di proposte innovative che assicurino la protezione dei lavoratori americani.
Soprattutto, Biden non può fare a meno dell’appoggio di Bernie Sanders. Bernie è riuscito ad imporre il dibattito su temi da tempo cari alla sinistra americana, respinti o disattesi dal grosso del partito fino a tempi recenti. Non sono temi risolutivi in termini di politica nazionale, ma sono rilevanti in funzione dell’afflusso alle urne di nuove leve del partito democratico. Senza un tale afflusso, le possibilità di Joseph Biden di prevalere su un avversario attestato in un fortino di fedelissimi sono limitate.
Gli ultimi sondaggi sono espliciti: la contesa Biden-Trump è data al 50-50 per cento.
Ma le cose possono cambiare rapidamente. Due mesi fa, Sanders era in testa e Biden e Bloomberg erano secondi. In ultima analisi, molto dipende dalla persona che Biden sceglierà come candidato alla vicepresidenza. Sarà una donna, stando a quanto annunciato dallo stesso Biden. Tutti gli occhi però sono puntati sulla Governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, che è all’avanguardia nella lotta contro il virus e la condotta incompetente del presidente Trump. Biden ha bisogno della Whitmer che
può garantirgli i sedici voti elettorali del Michigan. Resta il fatto comunque che l’aiuto decisivo è quello della legione di giovani e indipendenti solidali con Sanders. Da solo, Joseph Biden non ce la farà.
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Marino de Medici: China, a useful target for the candidates.
[segue]
There is one thing that finds Donald Trump and Joseph Biden toeing similar lines, antagonizing the Chinese for their anti-U.S. behavior in as many fields as one can name, from the spreading of the coronavirus to attempting to seize supremacy in the digital field; from their strategic posture to pernicious campaigns aimed at intimidating the Western nations for both political and commercial reasons.
The question is: who can best capitalize best on a virulent offensive against China? President Trump has unleashed relentless attacks against Beijing, pinning on the Chinese the responsibility for hiding the pandemic in Wuhan (and maybe even creating it as the consequence of a misdeed in a laboratory, as many say). His Secretary of State Pompeo went as far as claiming “enormous evidence,” but produced no proof. On the other hand, the president has refrained from taking on the Chinese president Xi, for whom he did not spare obsequious compliments to the point of praising his efforts to contain the virus. As a result, Trump’s anti-Chinese invectives against that country’s leadership are hardly credible. On the other side of the political spectrum, Joe Biden tried to outflank the president when he unleashed an ad that painted Trump as “rolling over to the Chinese” and in particular too willing to accept the Chinese version of what happened in Wuhan.
The question again, is this: who can be more successful in capitalizing on public anger at the Chinese for the astronomic damage that the virus has caused in the United States and other countries? Is it Donald Trump, who is desperately trying to deflect blame for the tardy and chaotic response to the arrival of the virus on American shores? Or is it Biden, who has to defend himself from the accusation of having issued an ad that people of Asian descent consider “insensitive”? Logically speaking, it seems a contest that neither of the two can win. This is especially true if one tries to divine the possible impact of China’s policies, no matter how expansionist and lacking any kind of transparency, upon the U.S. presidential elections.
The scenario is intriguing but far from decisive. One thing is clear, the next election will not be hamstrung by the unrelenting exchange of accusations about Russian interference. Enough damage has been done to American institutions by the perverse efforts of the Russians to intervene and seed disruption in American presidential politics. To a real extent, Americans have been inoculated against that infection.
Impervious as he is to logic, Donald Trump has tweeted that Joe Biden is the “DREAM CANDIDATE of the Chinese.” He does not explain why he thinks that. A minimum of common sense should apply to any interpretation that the Chinese would benefit from having Biden in the White House.
The truth of the matter is that the pandemic has exacerbated a range of xenophobic attitudes that in turn have led to scapegoating for purely political motives.
President Trump has blamed foreigners for the proliferation of the virus and has suspended immigration. In addition, let us not forget the populist autocrats around the world who have taken advantage of the pandemic to become even more authoritarian.
As far as China is concerned, the real problem for America is one of global dimensions.
Under the presidency of Donald Trump, the United States has abdicated the global leadership that was the distinctive mark of the postwar order. The last in a series of such retreats – from the Paris accords on climate change to the most recent decision to disengage from the World Health Organization – cannot but result in a Chinese push to fill the vacuum created by the Trump Administration. In addition, there is a larger set of tectonic changes underway as the distribution of economic power moves away from America and Europe toward Asia and China.
Unfortunately, to say that “we are all in this together” is a delusion in the face of the realignment of forces that the coronavirus crisis has unleashed in the United States and in the nations that up to now were its faithful partners. Blaming others is an empty gesture when American leadership forsakes its traditional role in the world and seems to suggest that every country should look out for itself. Both Trump and Biden should concentrate on the essential focus of the Sino-American relationship: the imperative to ward off the danger that the competitive threat posed by China may evolve into a confrontation in which there would be no winners. Lacking that, the best that we can hope for is that the political exchange concerning China in the next elections remains a zero-sum game.

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*Marino de Medici è romano, giornalista professionista italo americano. Decano dei giornalisti italiani in America, oggi ottantacinquenne, vive negli USA da più di 50 anni. E’ stato Corrispondente da Washington dell’Agenzia ANSA e Corrispondente dagli Stati Uniti per il quotidiano Il Tempo. Ha intervistato Presidenti, Segretari di Stato e della Difesa americani, Presidenti di vari Paesi in America Latina e Asia. La sua produzione giornalistica ha spaziato dalla guerra nel Vietnam, ai colpi di stato nel Cile e in Argentina, a quaranta anni di avvenimenti negli Stati Uniti e nel mondo. Ha anche insegnato giornalismo e comunicazioni in Italia e negli Stati Uniti. Non ha ancora finito di viaggiare e di scrivere dei luoghi che visita. Finora è stato in 110 Paesi e conta di visitarne altri.

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