Reddito di cittadinanza incondizionato e universale. Giusto! E le risorse? Ecco dove trovarle.

aladin-on-skyIl reddito di cittadinanza (o dividendo sociale) incondizionato e universale convince e conquista molti, dappertutto, ma più all’Estero che in Italia. E le risorse? Quelle che mancando lo rendono una irrealizzabile utopia? E, invece, ci sono eccome! Vero è che quanti dovrebbero metterle a disposizione (con minimi sacrifici) cioè soprattutto i ricchi del mondo, non sono disponibili. La novità del contributo-saggio del gesuita-economista Gaël Giraud sta nel fatto che indica chiaramente dove trovare i soldi: nei “frutti” dei “beni comuni” unito al prelievo fiscale sui grandi (enormi) profitti dei ricchi del mondo, con particolare intervento sui “paradisi fiscali”. È d’obbligo il richiamo alla necessità di Organismi internazionali di garanzia anche con riferimento al “demanio della Terra” e alla fiscalità internazionale, con la costituzione di appositi Fondi (seguendo le indicazioni di Thomas Piketty e di Anthony Atkinson), come esposti con efficace sintesi nella piattaforma programmatica del movimento “Costituente della Terra”. L’utilizzo dei “beni comuni” per ricavarne un fondo che possa sostenere “i poveri del mondo”, attraverso opportune ridistribuzioni (reddito minimo universale) è una tesi sostenuta dal nostro amico economista sardo Gianfranco Sabattini, il quale unisce a tale fonte di risorse quella che deriverebbe dalla ristrutturazione del welfare state [cfr. articolo di G. Sabattini su aladinpensiero del 3/11/2017]. Prendiamo atto di un approfondito dibattito che esce dall’ambito accademico per diventare (in certa parte) progetto/i politico/i. (Franco Meloni)
democraciaoggi-mnifestosardo-aladinpensiero Le tre testate online Democraziaoggi, il Manifesto sardo e Aladinpensiero diffondono (per stralci) il saggio di Gaël Giraud, segnalandolo come materiale prezioso per il grande dibattito su “lavoro, reddito di esistenza e dintorni” nel quale sono impegnate con la pubblicazione di qualificati contributi e con l’organizzazione di apposita convegnistica [undicesimo articolo condiviso]. L’articolo con la premessa di Franco Meloni è pubblicato sempre per stralci anche dalla rivista online Giornalia, mentre l’articolo integrale è disponibile sul sito web de La Civiltà Cattolica.
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UNA «RETRIBUZIONE UNIVERSALE»
Un urgente discernimento collettivo
Gaël Giraud. Chi volesse leggere l’articolo integrale potrà consultare direttamente il sito web de La Civiltà Cattolica, Quaderno 4079 pag. 429 – 442 Anno 2020 Volume II – 6 Giugno 2020.

Nella sua Lettera ai movimenti popolari, pubblicata nel giorno di Pasqua, il 12 aprile 2020, papa Francesco ha chiesto l’istituzione di una «retribuzione universale» di base [omissis] [1].

La proposta non ha mancato di suscitare reazioni, sia entusiaste sia critiche. Queste sue affermazioni significano forse che il Santo Padre abbraccia la causa di un reddito universale, versato a tutti, senza condizioni? O egli intende difendere il principio del giusto salario per tutti i lavoratori? E poi, se davvero si sta parlando di un reddito universale senza condizioni, in che modo un’attenzione autenticamente evangelica ci può orientare per valutare bene le condizioni pratiche di una sua attuazione? Oppure si tratta semplicemente di un’utopia irrealizzabile?

[omissis]
Salario minimo o reddito universale?

È dentro l’orizzonte di questa domanda spirituale e politica che s’inserisce la proposta di una «retribuzione universale». Si tratta di un salario minimo riservato a coloro che hanno un lavoro, o di un reddito universale destinato a tutti, senza condizioni?

Per gli economisti esperti in queste distinzioni, la formulazione del Papa è ambigua. Ad esempio, agli occhi di un sindacalista francese come Joseph Thouvenel, segretario della Confederazione francese dei lavoratori cristiani, le osservazioni di Francesco non possono essere interpretate come un alibi per coloro che «oziano»[8], ma possono essere solo un’allusione alla teoria del «giusto salario», formalizzata da Tommaso d’Aquino e poi ripresa da Leone XIII nell’enciclica Rerum novarum (1891). [omissis]

Diversi economisti, tra cui Thomas Palley[9], propongono di imporre un salario minimo, pari al 50% del salario mediano di tutti i Paesi del Pianeta. In Italia, ciò equivarrebbe a fissare uno stipendio mensile minimo di circa 1.860 euro (anziché i 500 attuali): un quarto della forza lavoro italiana attualmente riceve uno stipendio inferiore a tale importo, e questa quota rischia di aumentare nei prossimi anni. Contrariamente a quanto di solito si afferma, questo non causerebbe un’esplosione della disoccupazione[10], porterebbe ad aumenti abbastanza piccoli dei costi di produzione[11] e, d’altra parte, cambierebbe la vita a molti «lavoratori poveri», anche in Germania.

Tuttavia l’elenco dei beneficiari della «retribuzione universale» alla quale allude papa Francesco va oltre la categoria dei salariati stricto sensu: «venditori ambulanti, raccoglitori, giostrai, piccoli contadini, muratori, sarti, quanti svolgono diversi compiti assistenziali […], lavoratori precari, indipendenti, del settore informale o dell’economia popolare, non avete uno stipendio stabile per resistere a questo momento»[12]. Le varie traduzioni della Lettera pontificia fanno pensare che il termine «salario» non possa essere interpretato rigorosamente: salaire, salarios, salário e wage, ma anche Grundeinkommen e retribuzione. Coloro che devono uscire dall’invisibilità sono anche i «malati e [gli] anziani. Non compaio­no mai nei mass media, al pari dei contadini e dei piccoli agricoltori che continuano a coltivare la terra per produrre cibo senza distruggere la natura, senza accaparrarsene i frutti o speculare sui bisogni vitali della gente»[13].

A chi si rivolge, dunque, la proposta del Papa? A tutti i «lavoratori». Una casalinga, per esempio, i cui servizi, dal momento che non sono sul mercato, non vengono mai presi in considerazione nel calcolo del Pil, fornisce una prestazione «lavorativa»? Chi sono questi «lavoratori», se non vengono riconosciuti da uno status che li qualifichi come tali? È proprio in questa loro invisibilità che sta il problema che Francesco vuole risolvere. Crediamo che la risposta si trovi negli stessi «invisibili». [omissis]

Dopotutto, i dibattiti che ruotano attorno alla definizione di un salario minimo o di un reddito universale sono prevalentemente condotti da coloro che appartengono al centro della società. È senza dubbio il momento di dare voce ai senza voce, in modo che essi stessi possano aiutare a decidere quale significato dovrebbe essere dato a una «retribuzione universale», piuttosto che subire ancora la violenza delle definizioni e degli standard imposti dal centro.

atd-4-mondoÈ questa inversione di prospettiva – dal centro alla periferia – che guida, per esempio, il movimento ATD-Quarto mondo e il pensiero di padre Joseph Wresinski[16]. Questo cambiamento di prospettiva non è estraneo all’approccio di alcuni economisti. Esso sta alla base, per esempio, della costruzione di indicatori statistici su base partecipativa, come il Barometro delle disuguaglianze e povertà (BIP 40), realizzato in Francia nel 2002 da e con comuni cittadini[17].

Utopia o riforma profetica?

È quindi giustificato che il Movimento francese per un reddito di base concluda cautamente che il Papa «si sta avvicinando alla causa del reddito universale»[18]. A patto di comprendere che, se «si avvicina» a esso e basta, non è per timidezza, ma è perché sta prima di tutto alle stesse persone senza voce decidere ciò che vogliono per loro. Il rispetto della dignità delle persone deve spingersi fino a tal punto.

Tuttavia, l’interpretazione che proponiamo qui implica che sia possibile che la «retribuzione universale» a cui allude Francesco sia intesa come «reddito universale» nel senso comune, qualora gli invisibili delle nostre periferie decidessero così.

Sono cinque i criteri usati normalmente per definire il reddito universale. Esso è:

- un versamento periodico [omissis] [19];
- un trasferimento monetario, cioè non in natura, che offre a tutti la libertà di fare ciò che vogliono con i propri soldi [omissis];
- universale: non viene sottoposto ad alcun particolare requisito;
- incondizionato: il pagamento non è coperto da alcun obbligo per il beneficiario, in particolare quello di dover cercare lavoro.
Ricordiamo alcuni ordini di grandezza. La Banca mondiale ha identificato la soglia della povertà estrema al livello di 1,9 dollari di retribuzione giornaliera, a parità di potere di acquisto. Ma è opinione largamente condivisa tra i ricercatori economici che questa convenzione sottostimi ampiamente i bisogni reali di un essere umano sano, capace di condurre una vita dignitosa. Un reddito minimo di 7,4 dollari al giorno sembra molto più ragionevole[20].

Nel 2018, oltre 4,2 miliardi di persone (il 60% della popolazione mondiale) vivevano ancora al di sotto di tale soglia, e questo numero aumenterà notevolmente nei prossimi mesi a causa delle conseguenze catastrofiche del lockdown. Quale flusso di reddito annuale sarebbe necessario per consentire a questa gente di vivere al di sopra di tale soglia? Senza entrare nei dettagli dei calcoli sulla parità del potere d’acquisto, possiamo rispondere che costerebbe meno di 13 mila miliardi di dollari. Questa può sembrare ad alcuni una cifra considerevole: è vicina al Pil nominale della Cina nel 2018. Tuttavia, uno studio della Ong Oxfam[21] mostra che, nello stesso anno, l’1% degli individui più ricchi del Pianeta ha percepito un reddito annuo di 56.000 miliardi di dollari (pari all’80% del Pil mondiale). Se solo «prelevassimo» un quarto di tale reddito, esso sarebbe sufficiente per finanziare un reddito base di 7,4 dollari al giorno (e anche di più) per quella parte dell’umanità che ne è privata. Dopo il «prelievo», al più alto percentile di questi super-ricchi resterebbero ancora in media 47.500 dollari di reddito mensile a persona: questo dovrebbe essere sufficiente per consentire loro di continuare a condurre una vita «dignitosa».

Non pretendiamo di sostenere che un tale «prelievo» sia politicamente facile da mettere in pratica. Tuttavia queste semplici cifre ci ricordano che, contrariamente a una comune convinzione, il problema del finanziamento di un reddito di base non consiste nella «mancanza di risorse». [omissis]

L’immaginario neo-liberale della scarsità, che ci conduce facilmente a pensare che una proposta generosa sia impossibile, è fuorviante: viviamo su un Pianeta sovrabbondante – sebbene minacciato da una crisi ecologica – e in un’economia mondiale molto ricca, sebbene rischi di diventare considerevolmente più povera a causa del lockdown e del confinamento.

Le due forme di reddito universale

Per andare oltre nell’esaminare la loro concreta fattibilità, dobbiamo distinguere almeno due forme di «reddito universale»: la prima, diremmo, «di destra», ispirata a criteri di efficienza economica; l’altra, «di sinistra», orientata dal desiderio di giustizia sociale. Questa distinzione elementare ci costringe però immediatamente a uscire da facili dicotomie: il reddito universale non è né di destra né di sinistra, ma è trasversale alle nostre categorie politiche tradizionali.

Il primo tipo di reddito di base ha le sue origini nel lavoro dell’economista di Chicago Milton Friedman[22] ed è pensato per sostitui­re tutti gli altri tipi di trasferimenti sociali, rendendo così superflua l’introduzione di un salario minimo. I suoi promotori nutrono la speranza di un’ulteriore flessibilizzazione del «mercato del lavoro» e di una riduzione della spesa pubblica per la solidarietà, o persino di un completo abbandono, da parte dello Stato, del suo ruolo decisionale sui redditi da lavoro dei cittadini. La carità, «più adattabile e flessibile» rispetto allo stato sociale, afferma Friedman, riacquisterebbe così un posto di rilievo nella lotta contro la povertà.

Chi contesta tale proposta sostiene che essa equivarrebbe a garantire un reddito minimo di sussistenza che rende schiavo l’«esercito di riserva» dei cittadini, costretti a farsi assumere a qualsiasi condizione pur di migliorare le proprie condizioni di vita ordinaria. È senza dubbio questo tipo di preoccupazione che alimenta il rifiuto, da parte di una certa parte del mondo sindacale, del reddito universale.

Indipendentemente dalla strumentalizzazione politica che può essere fatta sul reddito di base, è innegabile tuttavia che la sua forza risiede nella semplicità: l’assenza di qualsiasi condizione consente di cortocircuitare l’eventuale inefficacia delle procedure amministrative necessarie per identificare i beneficiari dei trasferimenti sociali tradizionali, i quali, come sappiamo, troppo spesso per questo rinunciano a godere di ciò a cui avrebbero diritto. Di conseguenza, più la pubblica amministrazione di un certo Paese è debole o il sistema di trasferimento sociale farraginoso, o addirittura inesistente, più diviene rilevante l’opzione di un reddito universale. Questo è il motivo per cui, qualunque sia la loro sensibilità politica, diversi economisti raccomandano la messa in atto di un reddito del genere nella maggior parte dei Paesi del Sud globalizzato[23].

Il secondo tipo di reddito universale è stato difeso, almeno dal 1986, da Guy Standing, uno dei fondatori della Basic Income Earth Network (Bien)[24]. A differenza del primo tipo, questo sarebbe un reddito integrativo, e quindi non alternativo ai trasferimenti sociali già attivi, laddove ce ne siano. Sarebbe quindi un ottimo mezzo per risolvere i crescenti problemi di insicurezza finanziaria della classe media e dei ceti popolari e, soprattutto, renderebbe possibile un altro genere di rapporto di lavoro. La disumanità delle condizioni di lavoro in alcune situazioni – di cui la tragedia del Rana Plaza, in Bangladesh nel 2013, è diventato il simbolo – è ovviamente dovuta alla necessità, per coloro che non hanno alternative, di farsi assumere a qualsiasi condizione pur di sopravvivere. Ma anche nei Paesi ricchi un reddito universale di questo tipo implicherebbe sicuramente la fine dei cosiddetti bullshit jobs[25] («lavori-spazzatura»), come sono quelli di una quota crescente di impiegati delle nostre amministrazioni pubbliche e delle imprese private: se posso permettermi di vivere senza lavorare, perché dovrei accettare un lavoro che è socialmente inutile e mi fa star male?

Un simile strumento invertirebbe quindi radicalmente i termini della negoziazione impliciti in qualsiasi rapporto di lavoro, sia esso formalizzato da un contratto o meno. Naturalmente, rafforzando il potere contrattuale dei lavoratori, ciò porterebbe sicuramente a una riduzione della quota di reddito da capitale nel valore aggiunto di un’economia e a un aumento della quota di reddito da lavoro. Però questo correggerebbe la tendenza inversa che si registra da quarant’anni a discapito della stragrande maggioranza di noi: dalla fine del boom economico del secondo dopoguerra, e nella maggior parte dei Paesi precedentemente industrializzati, la quota del reddito da lavoro è scesa dal 70-80% del Pil al 60%.

Le virtù attribuite dai suoi difensori «progressisti» al reddito universale vengono spesso messe in discussione dai loro oppositori: un reddito siffatto non fornirebbe un alibi per non lavorare più? Lungi dal rafforzare i legami sociali, non causerebbe forse la dissoluzione delle relazioni umane? Dietro queste domande si intravedono due filosofie politiche radicalmente opposte: da un lato, quella di Thomas Hobbes o di John Locke, per i quali l’uomo è un atomo, persino un lupo, un essere solitario che si coinvolge in relazioni con altri solo per interesse; dall’altro, quella di un’antropologia relazionale che appartiene alla grande tradizione cristiana[26]. In questa seconda prospettiva, è solo sullo sfondo delle relazioni sociali costitutive dell’umanità in quanto tale che può aver luogo il riduzionismo che consiste nella ricerca del mio interesse particolare.

È possibile risolvere questo dibattito con l’aiuto di ciò che osserviamo empiricamente? È dal 2010 che in vari Paesi hanno avuto inizio esperimenti con il reddito di base. Essi ci testimoniano il crescente interesse per tale misura già prima della pandemia[27], ma hanno rivelato, a volte, una certa mancanza di ambizione da parte dei governi e la durezza del dibattito politico che accompagna tali esperienze: sebbene si sia trattato di strumenti dalla portata limitata, molti sono stati interrotti prima del tempo.

In Canada, l’Ontario Basic Income Pilot Project, avviato nel 2018 per testare l’impatto di un reddito di base su 4.000 canadesi, è stato annullato dopo pochi mesi dal partito conservatore appena eletto. L’obiettivo era sperimentare l’effetto del reddito di base su sicurezza alimentare, stress e ansia, salute – inclusa quella mentale –, casa, istruzione e partecipazione al mondo del lavoro[28]. Ci si può domandare: se è così ovvio che un reddito universale risulterebbe dannoso per tutti, perché non lasciare che l’esperimento lo provi? In realtà, sperimentazioni di un salario minimo (o del suo aumento) hanno dimostrato molto spesso il contrario di quanto previsto dai suoi oppositori, ossia un aumento generalizzato dei salari e del numero di ore lavorate, nonché una riduzione della disoccupazione[29]. Forse c’è qualcuno che teme che si possa dimostrare che un reddito di base andrebbe a beneficio della maggioranza?

Nel 2014, un esperimento in India si è posto l’obiettivo di testare il reddito universale come mezzo per introdurre liquidità in ambienti in cui lo scambio monetario è limitato. Le conclusioni di tale esperimento, che avrebbe potuto essere condotto fino alla fine, sono sfumate, ma estremamente positive. Esse suggeriscono che, a causa delle sue ricadute sociali, il «valore» economico del reddito universale supera di molto l’importo nominale assegnato a ciascun destinatario[30]. Infine, numerosi esperimenti di trasferimento di denaro si sono rivelati fruttuosi in Namibia, in India e in una dozzina di Paesi del Sud del mondo, al punto che, dopo decenni di sarcasmo, diversi analisti ora lo vedono come «la chiave dello sviluppo»[31].

Beni comuni contro privatizzazione del mondo

L’esperimento condotto in Alaska dal 1982 merita una menzione speciale. Ogni anno, infatti, una frazione dei dividendi petroliferi viene distribuita ai residenti, incondizionatamente e su base individuale. Gli importi – tra i 1.000 e i 2.000 dollari l’anno, a seconda del periodo[32] – sono nell’ordine di grandezza della soglia di povertà di 7,4 dollari al giorno ricordati sopra. Si tratta di importi piccoli, ovviamente, considerando il tenore di vita medio in questo Stato americano. Ma la cosa più interessante è il principio usato dallo Stato dell’Alaska per giustificarli: si tratta di una compensazione per il diritto di sfruttamento di un bene comune, il petrolio, che in realtà appartiene a ciascuno dei residenti.

Per comprendere il significato di questo modo originale di finanziare un reddito universale occorre fare un passo indietro. Nel 1217, la Carta foresta aveva dato ai contadini britannici il diritto di godere dei commons («beni comuni») – foreste, pascoli, alpeggi, fiumi – per poter fare scorta di legna, acqua e dare da mangiare alle loro mandrie ecc. L’Inghilterra ha formalizzato un diritto che veniva percepito dalla maggior parte della popolazione come naturale e che era stato già riconosciuto dalla legge romana con la categoria della res communis, collocata dal Codice di Giustiniano al vertice della gerarchia dei beni, mentre la proprietà privata occupava l’ultimo posto.

Già nel XV secolo, come sappiamo, la nobiltà britannica promosse il movimento degli enclosures («recinzioni»), per delimitare i commons e decretare così che da quel momento in poi essi erano proprietà esclusiva del signore locale. Privando i poveri contadini di ogni forma di sussistenza, questo movimento ha contribuito a spingerli verso le città, alla disperata ricerca dei mezzi per sopravvivere. Senza questo esodo rurale la rivoluzione industriale non avrebbe mai visto la luce. Quindi, da principio, fu la privatizzazione dei beni comuni a produrre e incentivare quelle forme disumane di lavoro salariato che conosciamo da tre secoli[33].

Un reddito di base, anche solo parzialmente universale, spezzerebbe questa logica perversa. È possibile che uno strumento del genere si articoli in qualche modo con l’onnipotenza della privatizzazione, che oggi si traduce in un secondo movimento di enclosures, che colpisce i nuovi commons, come i beni e i servizi dell’ecosistema, il genoma umano, la proprietà intellettuale, le produzioni artistiche e potenzialmente tutte le attività umane?

L’esempio dell’Alaska fornisce l’abbozzo di una risposta positiva. Perché non immaginare che una frazione del reddito derivante dallo sfruttamento dei nostri beni comuni globali sia ridistribuita per finanziare un reddito di base? Non sarebbe questo un modo concreto ed efficace per onorare la destinazione universale dei beni, cara ai Padri della Chiesa e alla dottrina sociale della Chiesa? Ad esempio, l’atmosfera è certamente un bene comune a tutto il mondo: un’imposta globale sul carbonio – come quella fortemente sostenuta dalla Commissione Stern-Stiglitz[34] – di 120 euro per tonnellata di CO2 prodotta[35], applicata alle 100 multinazionali responsabili del 70% delle emissioni, genererebbe un gettito 3,1 mila miliardi di euro all’anno. Estesa a tutti gli altri tipi di emissione, questa tassazione fornirebbe 4.430 miliardi di euro. Gestite da un Fondo internazionale[36], queste entrate potrebbero essere distribuite alle popolazioni che vivono al di sotto della soglia di povertà[37]. Si potrebbe obiettare che non sono abbastanza per far uscire l’umanità dalla povertà estrema. Non importa: un’imposta del 27% sui 32 mila miliardi di dollari attualmente nascosti nei paradisi fiscali sarebbe sufficiente a integrare ciò che manca, affinché tutti possano vivere con più di 7,4 dollari al giorno. Anche le rendite derivanti dalla proprietà di terreni, foreste o persino dei rifiuti – un «male comune» – potrebbero essere soggette a imposizione globale.

Qualunque opzione venga scelta, lo si deve fare dopo aver consultato tutte le parti interessate. Molte altre domande, infatti, emergono sui destinatari di un reddito di base, qualora dovesse essere solo parzialmente universale: dovremmo, ad esempio, riservarlo agli under 25, visto che si può pensare che la maggior parte di loro avrà notevoli difficoltà a trovare lavoro in Europa nei prossimi anni?
[omissis]

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Note
[segue]

[1]. Francesco, Lettera ai movimenti popolari, 12 aprile 2020.

[2]. Cfr G. Giraud, «Per ripartire dopo l’emergenza Covid-19», in Civ. Catt. 2020 II 7-19.

[3]. Francesco, Lettera ai movimenti popolari, cit.

[4]. Tale sfida, per esempio, è al centro delle riflessioni di Axel Honneth, Paul Ricœur e Judith Butler. Cfr A. Honneth, La lutte pour la reconnaissance, Paris, Cerf, 2000; P. Ricœur, «Parcours de la reconnaissance», in Mondes en développement, Paris, Stock, 2004; J. P. Butler, Giving an Account of Onself, New York City, Fordham University Press, 2005.

[5]. G. Le Blanc, L’invisibilité sociale, Paris, PUF, 2009. Questo è anche il tema del bel film Les invisibles, girato dal regista francese Louis-Julien Petit nel 2019.

[6]. Cfr A. Ivereigh, «Il Papa confinato. Intervista a papa Francesco», sul sito de La Civiltà Cattolica.

[7]. Questa affermazione è centrale nella teologia di Ch. Theobald, Le christianisme comme style. Une manière de faire de la théologie en postmodernité, vol. 1, Paris, Cerf, 2007 (tr. it. Il cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella postmodernità, vol. 1, Bologna, EDB, 2009).

[8]. Cfr J. Thouvenel, «Le revenu universel, meilleur ennemi des travailleurs», in Valeurs (https://bit.ly/2Lw3ckZ), 18 aprile 2020.

[9]. Cfr Th. Palley, «A Global Minimum Wage System», in FT Economists’ Forum (http://thomaspalley.com/?p=182), 18 luglio 2011.

[10]. Cfr J. Schmitt, Why Does the Minimum Wage Have No Discernible Effect on Employment? (https://bit.ly/360t5CZ), Washington, Center for Economics and Policy Reasearch, febbraio 2013.

[11]. Soprattutto perché i rischi delle spirali inflazionistiche nel contesto della deflazione in Occidente sono pari a zero, a meno che il costo delle materie prime esploda a causa dell’interruzione di alcune catene di approvvigionamento dovuta alla pandemia. L’inflazione, quindi, non sarebbe la conseguenza del costo del lavoro.

[12]. Francesco, Lettera ai movimenti popolari, cit.

[13]. Ivi.

[14]. Ivi. Il corsivo è nostro.

[15]. Ivi.

[16]. Cfr G. Mucci, «Joseph Wresinski. Un costruttore sociale», in Civ. Catt. 1996 I 436-445.

[17]. Cfr https://bit.ly/3cvlxuB

[18]. G. Normand, «Le Pape François s’approche de la cause du revenu universel», in revenudebase.info (https://bit.ly/3btqVNA), 16 aprile 2020.

[19]. Sono iniziative che sarebbero benvenute oggi in Europa.

[20]. Cfr D. Woodward, «Incrementum ad Absurdum: Global Growth, Ine­quality and Poverty Eradication in a Carbon-Constrained World», in World Social and Economic Review (https://bit.ly/2WVytTQ), 9 febbraio 2015.

[21]. Cfr Oxfam, Partager la richesse avec celles et ceux qui la créent (https://bit.ly/2y4br4W), gennaio 2018.

[22]. Cfr M. Friedman, Capitalism and Freedom, Chicago, University of Chicago Press, 1963; Id., «The Case for the Negative Income Tax: A View from the Right», in Proceedings of the National Symposium on Guaranteed Income, Washington, D. C., U.S. Chamber of Commerce, 9 dicembre 1966. La proposta è stata subito accettata dagli economisti keynesiani, il che ne indica l’ambivalenza sin dall’inizio: cfr J. Tobin – J. A. Pechman – P. M. Mieszkowski, «Is a negative income tax practical?», in The Yale Law Journal, vol. 77/1, novembre 1967.

[23]. Cfr M. Ghatak – F. Maniquet, «Universal Basic Income: Some Theoretical Aspects», in Annual Review of Economics 11 (2019) 895–928.

[24]. Cfr https://basicincome.org/; si veda anche l’intervento di Standing al Forum di Davos del 2017, in https://bit.ly/3buxu2f

[25]. Cfr D. Graeber, Bullshit Jobs: A Theory, New York, Simon & Schuster, 2018 (tr. it. Bullshit Jobs, Milano, Garzanti, 2018).

[26]. Cfr Ch. Theobald, Selon l’Esprit de sainteté. Genèse d’une théologie systématique, Paris, Cerf, 2015.

[27]. Cfr, per esempio, il rapporto commissionato dalla Scozia: A. Painter – J. Cooke – I. Burbidge – A. Ahmed, A Basic Income for Scotland (https://bit.ly/3fPbBxW), maggio 2019.

[28]. A proposito dell’Ontario Basic Income Pilot Project, cfr https://bit.ly/2y4yUD2

[29]. Cfr P. Constant, «New UW Report Finds Seattle’s Minimum Wage Is Great for Workers and Businesses», in Civic Skunk Works (https://bit.ly/3bwDYxN), 22 luglio 2016.

[30]. Cfr G. Standing, «Why Basic Income’s Emancipatory Value Exceeds Its Monetary Value», in Basic Income Studies 10 (2015/2) (https://bit.ly/3dJvlkO).

[31]. Cfr Oxfam, «“Just Give Money to the Poor: the Development Revolution from the Global South”, an excellent overview of cash transfers» (https://bit.ly/2yWeVa0), 24 maggio 2010.

[32]. Cfr T. J. Isenberg, «What a New Survey from Alaska Can Teach Us about Public Support for Basic Income», in Economic Security Project (https://bit.ly/369xpjH), 28 giugno 2017.

[33]. Cfr G. Giraud, Composer un Monde en commun, une «théologie politique» de l’ Anthropocène, Paris, Seuil, in uscita.

[34]. Cfr Carbon Pricing Leadership Coalition, Report Of The High-Level Commission On Carbon Prices (https://bit.ly/2WP9fq4), 29 maggio 2017.

[35]. Si tratta dell’attuale livello di imposta sul carbonio applicata in Svezia.

[36]. Si potrebbe immaginare una supervisione delle Nazioni Unite, a patto che queste, ora completamente paralizzate dalla pandemia, si riformino per dare pieno spazio ai Paesi emergenti del Sud.

[37]. La proposta di finanziare un reddito di base parziale con un’imposta sul carbonio è stata presentata da due ex Segretari di Stato repubblicani e dal Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Henry Paulson. Cfr M. Howard, «Conservative Carbon Dividend Proposal is a Welcome Development for Introduction of Partial Basic Income», in Basic Income News (https://bit.ly/3cx5Qmt), 11 febbraio 2017.

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