Una vecchia nuova storia.

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POVERO MARIO
Dedicato a Massimo Roccella
di Gianni Loy
Povero Mario, l’hanno licenziato. Eppure era il più bravo di tutto il capannone.
Era capace di impilare i pezzi con celerità sorprendente, uno dopo l’altro. Pigiando su di un pedale, faceva avanzare il prodotto del suo lavoro lungo la catena, dove un altro compagno avrebbe aggiunto un altro pezzo, un altro compagno avrebbe poi stretto i bulloni. Mentre la catena avanzava, tirava un sospiro, ma solo per un attimo. In quel breve momento poteva sorridere al compagno che riceveva il frutto del suo lavoro. Con quel sorriso, seppure a volte affaticato, rinnovano un patto di solidarietà, dichiaravano la loro comune appartenenza alla classe, a quella operaia, si ripromettevano di cambiare il destino. [segue]
Pezzo dopo pezzo, grazie al lavoro di tanti compagni, alla fine del nastro sarebbe comparsa una vespa, fiammante, per la gioia di chi se la sarebbe potuta permettere.
“Chi non vespa non mela!”, recitava accattivante, ed allo stesso tempo minaccioso, un grande manifesto affisso sui muri di tutto il paese. Chi non si può permettere una vespa non potrà addentare la mela, con tutto il carico di significati, sacri e profani, di quel morso. Per la verità, qualcuno che proprio non se lo poteva permettere, di comprarsi una vespa, si ingegnava come poteva, la rubava, come spiegava Franco Oliverio, pur di poter addentare il frutto proibito.
Ma tutto questo, a Mario, non interessava. Il frutto del suo lavoro non gli apparteneva, perché era un lavoratore subordinato, come non gli appartenevano gli strumenti che, con maestria, faceva danzare con ritmo incessante. Con un ritmo che cessava solo alla sera, quando suonava, perentoria, una sirena. Quando Mario e i suoi compagni potevano finalmente sollevare lo sguardo dalla catena e guardarsi attorno, quasi increduli. Quando le braccia abbandonavano i gesti ripetitivi della giornata e riacquistavano, a poco a poco, nuova vita.
Povero Mario, l’hanno licenziato.
Soltanto perché, da qualche giorno, non riusciva a mantenere il ritmo di trenta operazioni all’ora, numero che la direzione aveva fissato quale obiettivo della produzione. Si diceva che fosse stato lo stesso Piaggio, il sciur padrùn, a comunicarlo ai dirigenti in occasione dell’ultima riunione.
Trenta è la regola, si intende, ma un po di più non guasta. Così aveva sentenziato il padrone, così aveva ripetuto il caporale. Era la regola del cottimo, dove non sei pagato per il tempo della tua vita, per le energie che vendi al datore di lavoro, durante le ore e i giorni che passi alla catena (di montaggio), ma per il prodotto del tuo lavoro. Per alleviare il padrone di una parte del rischio connaturato con l’esercizio dell’impresa.
Mario, in realtà, una giustificazione l’aveva, perché era il più bravo di tutto il capannone. Solo credeva che, un giorno, gli operai di tutto il mondo, uniti, avrebbero sconfitto i padroni ed imposto una nuova dittatura, la dittatura del proletariato. Magari non ci credeva sino in fondo, ma voleva almeno cambiare le regole del contratto, ottenere un salario più dignitoso, ridurre la durata della giornata lavorativa, sopprimere il cottimo, quel sistema che ti umiliava e ti uccideva, minuto dopo minuto, ora dopo ora. Per questo, a partire dall’autunno caldo del 1969, i sindacati avevano inserito l’abolizione del cottimo tra le principali rivendicazioni per il rinnovo del contratto.

Per questo aderiva agli scioperi per il rinnovo del contratto e partecipava alle manifestazioni indette dai sindacati. Sempre in prima fila, sostenendo un cartello o incitando, con il megafono, i compagni di lotta. Ma quel giorno la situazione era degenerata. Le camionette della celere erano arrivate a sirene spiegate e si erano disposte proprio davanti al corteo. I celerini si erano avventati sugli scioperanti per disperdere la manifestazione. A Mario era toccato il peggio, una manganellata sulla spalla.

Una giustificazione l’aveva: con la spalla conciata a quel modo era impossibile tirar su trenta pezzi all’ora, che già sono una fatica quando sei sano; con la spalla gonzia diventano un’agonia. Provare a marcar visita, con il medico del padrone, neppure a parlarne.

Povero Mario, non è stato un algoritmo a stabilire che non aveva rispettato la consegna; all’epoca non usava. È stato un capo reparto, uno di quei dipendenti, ruffiani del padrone, messi a controllare il rispetto dei tempi, con l’orologio in mano. L’imperativo era non fermare la catena: “chi fa di meno si cambia, mi dispiace”. Forse, il fatto di esser stato notato all’interno della manifestazione, e tra i più scalmanati, non aveva giovato alla sua causa. Discriminato?

Povero Mario, s’era fatto male proprio due giorni prima, quando un celerino, con la ghigna cane, gli aveva calato una mazzata sulla spalla.

No non era stato un algoritmo a decidere del suo licenziamento.

Dicono, che l’algoritmo sia più neutrale, e quindi imparziale, di qualsiasi essere umano. Perché chi lo progetta può solo stabilire l’obbiettivo, lo programma per garantire la massima efficienza, mica per discriminare chi sia iscritto al sindacato, o sia straniero, o madre di famiglia con 4 figli a carico. E poi, come faccia l’algoritmo a decidere chi debba lavorare o chi debba tornarsene a casa, è un segreto, gelosamente costudito in una scatola nera, un black box dove l’algoritmo elabora le proprie decisioni con il massimo rigore, attingendo alla sua intelligenza, artificiale, certo, ma pur sempre intelligenza. Neppure chi crea l’algoritmo, il più delle volte, così si dice, potrà carpire i segreti nascosti nel cuore della sua creatura.

Mario, che dopo l’avventura alla Piaggio si è ricostruito una vita, pensava che il futuro che gli è toccato di attraversare fosse fantascienza. La storia gli è passata addosso, ha preso a scorrere come sullo schermo di un cinematografo. Anche grazie alle sue lotte, il cottimo, nelle grandi fabbriche, è stato drasticamente ridimensionato. Ai lavoratori è stato riconosciuto uno Statuto fatto di diritti; tutele, questa volta reali, contro il licenziamento illegittimo, un medico imparziale per la malattia, il diritto di svolgere attività sindacale all’interno della fabbrica.

Ma proprio quando sembrava che si potesse solo progredire, quando hanno incominciato a diffondersi forme raffinate di tutela che mai si sarebbe immaginato, come quelle contro tutte le discriminazioni, la mala pianta dello sfruttamento ha ripreso a crescere. Al posto del vecchio padrùn da li beli braghi bianchi, c’è un datore di lavoro sconosciuto, misterioso, un algoritmo a dirigere, ad impartire ordini, a decidere chi lavora e chi no, misurando, impietosamente, la velocità e il rendimento. Cresce, ogni giorno, l’esercito delle persone assoggettate al potere di un algoritmo senza che neppure siano lavoratori dipendenti. Persone che si prendono il rischio, tutto il rischio, della pioggia, dell’incidente, della rapina, della malattia, senza neppure conoscere il colore degli occhi del proprio padrone. Corrono, possono solo correre, questi imprenditori di sé stessi, in bici, a piedi, in motorino.

Finché, un giorno. si sono fermati questi nuovi proletari – probabilmente ignari di esserlo – e sono scesi in sciopero con i cartelli: «il cottimo uccide, non si può rischiare di morire per portare una pizza». Imbracciando la stessa parola d’ordine portata in piazza, mezzo secolo prima, dai loro nonni. Se Mario doveva correre per ammontare i pezzi, oggi l’algoritmo ti misura sul numero di pizze: «Più consegne facciamo e più guadagniamo e questo ci spinge a correre sempre più rischi».

Povero Mario, avrebbe voluto fermare la catena, ed invece l’hanno licenziato, perché non c’è ragione per fermare la catena; perché con quella spalla gonzia andava piano ad ammontare i pezzi.

Un giudice, tuttavia, – che magari neppure ha mai sentito parlare dei suoi vecchi antenati, di quei pretori “d’assalto” che, nei tempi in cui sognavamo, cercavano di dar vita alla legge scritta – un giudice, a Bologna, ha sentenziato che neppure gli algoritmi possono godere dell’immunità. Che la piattaforma – nonostante il suo nome rassicurante: Frank, per gli amici – non può discriminare, anche se giura di non sapere cosa sia la discriminazione e, tanto meno, quella dovuta all’esercizio dei diritti sindacali o di altre condizioni personali tutelate dalla Costituzione.
Il giudice di Bologna non crede all’innocente stupore della piattaforma: la Machine learning, o il caro amico Frank, se preferite chiamarlo così, «quando vuole, può̀ togliersi la benda che la rende “cieca” o “incosciente” rispetto ai motivi della mancata prestazione lavorativa da parte del rider».
Corsi e ricorsi storici? Compare persino un parallelismo, probabilmente non arbitrario, tra l’esercito di riserva di cui discettavamo un tempo, caro Marco, e la massa di disoccupati che oggi, loggandosi con Deliveroo, si contendono una “proposta di servizio”, cioè qualche euro per qualche consegna, che il nostro Frank riserva immancabilmente ai più disponibili, a chi è disposto, o costretto, a sacrificare i propri diritti di lavoratore, di persona, persino la sua dignità

Mario si compiace ogni volta che un diritto viene riconosciuto. È solidale con gli sfruttati di oggi nel ricordo degli sfruttati di ieri. Che viviamo in un’altra epoca lo sa. Forse è per questo che non canta più le sue canzoni, anche se non ha rinunciato alla sua chitarra. Lo si può ancora incontrare, se si è fortunati, ed ascoltarlo nel suo nuovo repertorio, De André e Guccini.

Se ti fai un po’ più in là, caro Marco, potremo fargli posto nella panchina. L’arrivo del suo treno non è programmato, come i nostri, del resto. Sembra proprio che i treni, in questa stazione, facciano sosta senza preavviso. Neppure noi, del resto, abbiamo fretta. Magari potremmo riascoltare la sua storia, un’altra volta ancora (http://www.youtube.com/watch?v=_hv94LbuDJc) dalla sua stessa voce.

Gianni Loy
[Anche su il manifesto sardo]
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La foto è tratta dal sito della Cgil di Modena

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