PNRR sotto la lente del Forum delle disuguaglianze e diversità

logo-pnrr-aladinlogo-forumdd-x74988 COSA PENSIAMO DEL PIANO INVIATO ALL’UE E “CHE FARE ORA”?
1. Gli spazi per fare la cosa giusta e un requisito: monitoraggio aperto
11 maggio 2021 su ForumDD.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (235,1 miliardi di euro, di cui 204,5 di Next Generation EU) è all’attenzione formale della Commissione Europea. Dopo avere lavorato dal luglio 2020 per orientarne le scelte, per noi ForumDD, come per tanti altri, è arrivato il momento di prendere atto che questo è quanto le nostre istituzioni sono in grado di fare. Sull’esito pesano l’infelice avvio – a partire dalla raccolta dei progetti esistenti – e la scelta, immodificata da un governo all’altro, di assoluta chiusura al dialogo sociale. Pesa, da ultimo, anche la scelta della classe dirigente europea di anteporre l’obiettivo di “chiudere” i Piani alla presenza di tutti gli elementi di garanzia per il raggiungimento degli obiettivi dichiarati. E allora, se questo è “ciò che passa il convento”, ci sono tre cose da fare: apprezzare alcuni progressi compiuti; segnalare i seri limiti (molti già presenti in gennaio), osando augurarci che alcuni di essi siano superati nel confronto con la Commissione Europea; e poi, comunque, a Piano dato, individuare gli spazi che abbiamo, come società attiva e ricerca, per cavarne il massimo in termini di sviluppo giusto e sostenibile, di giustizia sociale e ambientale, insomma, il nostro “che fare” dei prossimi mesi.
Queste tre cose proviamo a fare in queste note. Lo facciamo, nonostante la valutazione sia resa difficile dal fatto che il Governo non ha ancora reso pubblici al Paese e al Parlamento le informazioni su “Targets e Milestones”, che immaginiamo la Commissione Europea abbia, visto che sono parte integrante del Piano da essa richiesto, e che circolano da poco in modo informale e non facilmente intellegibile. Ma prima un’osservazione generale. [segue]
Come era evidente già in gennaio, l’Italia non sta usando il Piano per costruire una visione condivisa, forte e mobilitante per un futuro migliore del nostro paese. Certo, spronati dall’Europa, ci sono quasi tutti i titoli giusti, molti obiettivi condivisibili, alcuni progetti di riforma convincenti. Ci sono tutti i problemi irrisolti del paese, settanta riforme in attesa da tempo, investimenti in ogni campo possibile. Ma non esiste né una valutazione delle aspirazioni e delle potenzialità straordinarie dell’Italia, né delle ragioni per cui siamo intrappolati da tempo al di sotto di esse, come non c’è un utilizzo efficace e creativo delle linee di indirizzo e delle priorità che l’Europa ha indicato; e dunque i pezzi restano slegati. Non c’è una lettura unificante: che veda negli ostacoli di accesso ai saperi uno dei nostri limiti fondamentali (per l’infanzia, l’adolescenza, le energie micro-imprenditoriali e creative, il dialogo pubblico-privato-sociale nel disegno delle politiche, la predisposizione di appalti innovativi, la strategia delle imprese pubbliche, etc.); che chieda un sistematico riequilibrio di poteri a favore di lavoro, giovani e donne (certo, sia per i giovani che per le donne esistono diversi cenni, ma questi non risultano ancora tali da garantire il passaggio dalle intenzioni ai fatti); che metta al centro la costruzione di uno stato sociale universale alimentato da una prospettiva di genere (una strada “gridata” dalla vicenda pandemica); che favorisca una democratizzazione dei modelli di governance delle imprese e delle relazioni industriali, garantendo la partecipazione strategica dei lavoratori e degli altri stakeholder essenziali; che adatti l’azione a misura delle
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differenze territoriali, delle diverse configurazioni e modalità della marginalizzazione territoriale1; che indirizzi il green deal e la lotta al cambiamento climatico come terreno privilegiato per costruire una nuova giustizia sociale. In mancanza di questo, il Piano resterà un lavoro di Sisifo, e il paese perderà un’opportunità unica di cambiamento. Senza una preventiva distribuzione di diritti e poteri da esercitare nel mercato e nelle organizzazioni di mercato, lo sforzo del welfare state appare non solo sempre più difficile, ma anche frainteso come un aiuto ai perdenti della gara competitiva – mentre si tratta spesso di quanti non hanno neppure potuto entrare in partita, trattandosi di “giochi truccati”, nei confronti dei quali è cioè mancato il dovere di uguale considerazione e rispetto.
In ultima analisi, non vi è quindi nel Piano quel ribaltamento culturale e di prospettiva che consentirebbe con maggior forza di aggredire alla radice i fattori determinanti delle disuguaglianze e di evitare così il semplice ritorno alla normalità di prima, che già prima della crisi impediva al Paese di crescere e alimentava disuguaglianze e povertà diffuse. Da questa assenza di visione derivano anche squilibri e spezzatini settoriali e ministeriali (con poche eccezioni) e finisce per emergere, persino nel linguaggio, un conservatorismo culturale, una continuità con il senso comune degli ultimi trenta anni che, dopo aver tanto parlato di “cogliere l’opportunità dello shock”, rischia di riportarci al meglio al “mondo di prima della pandemia”2 e di depotenziare le spinte politiche e culturali verso il cambio di rotta emerse negli ultimi mesi. E non basta. Dall’assenza di visione deriva un pericoloso deficit di motivazione per l’amministrazione pubblica che dovrà attuare il piano e per le cittadine e i cittadini che il Piano vedranno arrivare.
Ma questo non ci sconforti. Non serve a nulla. Al contrario, muovendo dai titoli e dagli obiettivi che ci sono e sfruttando gli spazi aperti vuoi da indicazioni promettenti, vuoi dalla carenza stessa di programmazione, dobbiamo essere tutti noi a dare anima al Piano, a costruire le motivazioni mancanti, a dare spazio e forza agli obiettivi di giustizia sociale.
Larga parte degli interventi verrà attuata da amministrazioni locali (soprattutto Comuni) e da articolazioni territoriali di istituzioni pubbliche nazionali (università, porti, scuole). Esistono allora le condizioni perché il processo di attuazione sia innervato, sorretto, sollecitato, indirizzato dalle organizzazioni territoriali della cittadinanza, del lavoro e dell’impresa, in uno stretto collegamento con i soggetti attuatori. E per gli interventi aggregati nazionali e per le innumerevoli riforme, sarà possibile stare addosso ai governi che si succederanno, prima che sia Bruxelles a scoprire che gli impegni non sono rispettati. Perché ciò avvenga serve un monitoraggio accessibile e di alta qualità: un monitoraggio finanziario, fisico – “attraverso la rilevazione degli appositi indicatori”, scrive il Piano – e procedurale usabile da tutte le organizzazioni della società. Serve conoscere tempestivamente obiettivi, tempi, responsabili, stati di avanzamento di ogni riforma e di ogni dato progetto in ogni dato luogo, con un formato aperto che sia usabile almeno quanto OpenCoesione. E serve avere informazioni pubbliche su ogni stadio del processo attuativo attivato da ogni misura del Piano: per incalzare, per smontare burocratismi e collusioni anti-concorrenziali, per portare nelle scelte i saperi diffusi, evitare il finanziamento di progetti inutili o dannosi.
Ecco dunque l’obiettivo primario da perseguire ora, che segnaliamo con forza al Parlamento – che ha dato un chiaro segnale in questo senso, recepito in modo vago dal Governo – e alla Commissione Europea. Il Piano correttamente prevede “un apposito sistema informatico sviluppato dal MEF – Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato come previsto dall’articolo 1, comma 1043, della legge 30 dicembre 2020, n. 178.”, denominato ReGiS, che garantisca “la semplificazione dei processi di gestione, controllo, monitoraggio e rendicontazione dei progetti finanziati” e consenta “contestualmente di aderire ai principi di informazione,
1E’ questa ad esempio la lettura unificante proposta sin dal marzo 2019 dal ForumDD, sulla cui base abbiamo costruito le nostre proposte. 2Era questo il timore espresso dal ForumDD sin dal giugno 2020 ne suo Un futuro più giusto è possibile. Promemoria per il dopo-Covid-19 in Italia.
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pubblicità e trasparenza prescritti dalla normativa europea e nazionale”. Questo sistema dovrà consentire la verifica dei “Target e Milestone”, i risultati attesi degli indicatori e le scadenze di attuazione al cui conseguimento sono subordinati i rimborsi. Ma dovrà consentire anche di conoscere tempestivamente gli stadi del processo attuativo che conducono dalle indicazioni del Piano agli interventi concreti. A queste informazioni, scrive il Piano, “hanno accesso gli utenti delle Istituzioni nazionali coinvolte, nonché la Commissione Europea, l’OLAF, la Corte dei conti”. Bene, a queste stesse informazioni devono avere accesso tutte le cittadine e tutti i cittadini. Non richiede un euro né un atto di più. È il solo modo di dare adeguata attuazione all’art 1, comma 1044 della stessa legge3. È decisivo per l’attuazione del Piano.
Veniamo dunque al contenuto del Piano. Prima i progressi e le tare. Poi l’azione davanti a noi.
2. Progressi e tare
Rinviamo, per partire, al Documento con cui commentammo la Bozza approvata il 16/01 dal Governo Conte per analisi più approfondite. Nella struttura, nelle principali debolezze, nella stragrande maggioranza dei progetti, il nuovo testo non si allontana da quello di allora, ed è inutile ripetersi. Sia per i progressi, sia per le tare, ci limitiamo allora a commentare alcuni specifici profili. Segnalandoli sia per eventuali, auspicabili revisioni, sia per il lavoro successivo.
• Risultati attesi. Permane una forte e grave opacità: sono assai limitati i casi in cui i risultati attesi vengono chiaramente individuati (quali specifici aspetti della qualità del vivere ci si prefigge di migliorare) e non confusi con indicatori di realizzazione (le infrastrutture materiali e immateriali, le azioni da compiere, per conseguire quei risultati) o di altro tipo. Da questa mancata esplicitazione derivano: il venir meno, per cittadine e cittadini, imprese, organizzazioni del lavoro e di cittadinanza, le stesse Pubbliche Amministrazioni attuatrici del Piano, della motivazione e dello sprone ad agire; la rinuncia ad un filtro che consenta di valutare i diversi progetti in funzione della loro efficacia; l’assenza di una specificazione territoriale degli interventi, che rafforzi e dia concretezza al loro impatto sui divari territoriali e consenta alle amministrazioni locali che devono attuarli di attrezzarsi per tempo, accelerando l’attuazione; la possibilità di rendere il “come” dei processi attuativi il più possibile rispondente al “cosa” si vuole raggiungere. Ci auguriamo che la lettura dei Targets e Milestones chiarisca una parte delle attuali opacità.
• Pubblica Amministrazione e semplificazione. È avvenuta qui una delle due modifiche più positive del Piano, con una rottura rispetto al senso comune dell’ultimo trentennio e il riconoscimento del drammatico sottodimensionamento e invecchiamento della PA e della mortificazione della formazione. Nell’indicare le linee di azione, particolarmente importante è l’enfasi sulla necessità di un reclutamento di qualità, fondato sulla valutazione dei nuovi fabbisogni, celere e attento non tanto alle conoscenze nozionistiche quanto a capacità organizzative e attitudini. Come in altre parti positive del Piano, i dubbi riguardano l’attuazione di questi principi, assieme alla possibilità di incidere sul sostegno all’occupazione delle donne. Pressati dalle
3Vi si legge: “Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono definite le modalità di rilevazione dei dati di attuazione finanziaria, fisica e procedurale relativi a ciascun progetto, da rendere disponibili in formato elaborabile, con particolare riferimento ai costi programmati, agli obiettivi perseguiti, alla spesa sostenuta, alle ricadute sui territori che ne beneficiano, ai soggetti attuatori, ai tempi di realizzazione previsti ed effettivi, agli indicatori di realizzazione e di risultato, nonché’ a ogni altro elemento utile per l’analisi e la valutazione degli interventi.”
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esigenze di reclutamento per il Piano stesso, si introduce una differenziazione netta tra le assunzioni a regime per il tempo indeterminato e quelli che sono indicati come “altri percorsi di reclutamento”, prevedendo ambigui “accordi con Università, centri di alta formazione e ordini professionali”: questi ultimi, certo, non devono precludere per nessuno una valutazione autonoma, come del resto il Ministro della Funzione Pubblica ha precisato in Parlamento. Importante è qui una revisione del dettato dell’art. 10 del DL 44/21 in fase di conversione in Parlamento. Manca infine un impegno a investire in modo innovativo nell’inserimento dei nuovi assunti.
Alcuni dei punti previsti nella nuova ulteriore proposta di “semplificazione” appaiono convincenti – come la definitiva limitazione del “danno erariale ai casi in cui la produzione del danno è dolosamente voluta dal soggetto che ha agito, ad esclusione dei danni cagionati da omissione o inerzia”, o la piattaforma unica per la trasparenza amministrativa o l’impegno a riorientare le amministrazioni verso una outcome-based performance – altri appaiono ambigui o rischiosi – se la semplificazione della verifica si traduce nel suo venir meno. Positivo è l’impegno a usare il digitale per rendere più efficaci le procedure di acquisto, ma colpisce l’assenza di un pari impegno nel formare gli amministratori a realizzare le molteplici forme di appalto innovativo e partecipato – assolutamente sottoutilizzate in Italia – come la stessa CE raccomanda nella sua Comunicazione del 2018.
• Concorrenza. Fra i moltissimi impegni di riforma, uno riguarda la concorrenza. Richiederà un forte monitoraggio. L’impegno a introdurre modifiche in senso pro-concorrenziale dei regimi concessori “eliminando o riducendo le previsioni di proroga o rinnovo automatico (entro il 2022)” è decisamente positivo perché può consentire la rottura di posizioni di rendita maturate in molti ambiti di concessione di beni pubblici, ma deve essere accompagnato da misure per assicurare modalità di bando pubblico partecipato che non costruiscano nuovi e peggiori posizioni di monopolio, precludendo l’accesso a iniziative maturate nella comunità (cfr. punto precedente). Palesemente distorto e da rigettare è invece l’impegno a introdurre per i servizi pubblici locali “norme finalizzate a imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, come se tale ricorso non abbia prodotto in questi anni degenerazioni pari a quelle della proprietà pubblica. È l’interesse pubblico che va tutelato, non una particolare forma di proprietà. Mentre la natura di “bene comune” di molti servizi pubblici locali richiederebbe l’attuazione di forme di autogoverno democratico da parte delle comunità che ne affermino, e disciplinino efficientemente ed equamente, la non escludibilità.
• Riforma fiscale. Con un cambio di rotta rispetto a quanto annunciato nel discorso con cui il PCM ha chiesto la fiducia al Parlamento – il lavoro approfondito di una Commissione avrebbe elaborato un progetto che il Governo avrebbe fatto proprio e sottoposto a esame e approvazione del Parlamento – il Piano ora impegna il governo a presentare un disegno di legge delega entro luglio 2021 tenendo conto del documento conclusivo dell’“indagine conoscitiva sulla riforma dell’IRPEF e altri aspetti del sistema tributario” avviata dalle Commissioni parlamentari e tuttora in corso di svolgimento. Gli indirizzi che dà il Piano sono minimi: l’invito a “codificare” (predisporre un testo unico delle norme esistenti); e un riferimento alla “possibile revisione dell’Irpef, con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo e di ridurre gradualmente il carico fiscale, preservando la progressività e l’equilibrio dei conti pubblici.”, dove colpisce per ambiguità l’espressione “preservare la progressività”. L’assoluta eterogeneità della maggioranza rendeva chiaro già dal discorso in Parlamento che non è da questo governo che ci si possono attendere le scelte sostanziali di riforma che la fase richiede (come ridurre iniquità orizzontali e verticali? Come tassare
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rendite finanziarie e immobiliari? Come ridurre le spese fiscali? Come costruire la tassazione ambientale?). Ma il metodo prima prefigurato poteva consentire la predisposizione di un’analisi che, con il concorso del Parlamento, mettesse sul tavolo della prossima legislatura il materiale per una decisione. Ora, sorge il rischio che l’accelerazione fortissima costringa vuoi a una soluzione minimalista, che tutto sarà meno che una riforma, anche se discussa come tale, vuoi a una legge delega ambigua e dunque poi inutilizzabile o aperta a contestazioni.
• Transizione digitale. Appare decisamente migliorata la focalizzazione della componente infrastrutturale della digitalizzazione della PA, ma emerge una perdita di respiro strategico sull’obiettivo fondamentale di recuperare “sovranità tecnologica” a livello nazionale ed europeo. E preoccupa l’ambiguità della formulazione delle caratteristiche del cloud pubblico, che porterebbe a rendere ancora meno realizzabile un cloud non commerciale, gestito a livello nazionale, per effetto della sottrazione della domanda pubblica che tale formulazione sembra prefigurare. Il punto debole principale resta quello di gennaio: la digitalizzazione appare spesso come obiettivo in sé, l’innovazione digitale dei servizi viene fatta coincidere con la realizzazione di App con una disattenzione al miglioramento ultimo dei servizi (se non per i tempi). È un’impostazione sbagliata che non solo rischia di non fare ottenere risultati, ma si propone anche esplicitamente come perno di una più generale strategia di “disintermediazione” digitale del servizio pubblico, anziché indicare in che modo la gestione automatica di una parte dei servizi possa consentire il rafforzamento della “componente umana” e quindi anche della qualità, a un tempo, dei servizi e lavoro pubblico. È invece decisamente positiva l’eliminazione dei fondi sostitutivi destinati alla diffusione dei pagamenti digitali (erano ben 4,75). Appare anche positivo l’obiettivo di rendere non solo accessibili, ma anche “conoscibili” e quindi utilizzabili, i dati generati dai progetti di innovazione digitale, anche se tale obiettivo è inspiegabilmente limitato ai progetti promossi dalla PA. Preoccupano la cancellazione del centro di ricerca dedicato all’Intelligenza Artificiale, sostituito con quello dedicato a Simulazione e Big Data e l’assenza di un esplicito orientamento all’utilizzo di tecnologie digitali non proprietarie.
Transizione ecologica. Emerge un ulteriore scivolamento tecnologico, già riscontrato nella precedente versione del Piano, senza attenzione alle trasformazioni sociali e culturali necessarie a supportare il cambiamento. A fronte delle assai chiare indicazioni europee sulla natura trasversale della transizione ecologica, non è presente al momento alcuna indicazione su come si raggiunge il 37% di green né quale sia il tasso di green presente nei vari progetti (l’UE richiede di esplicitare tre valori: 100% – 40% o 0 di contributo al green). Modeste le ambizioni: perfino gli obiettivi per il clima sono inferiori a quelli europei: 51% di riduzione di CO2 al 2030 (contro il 55%). Ambigue alcune scelte tecnologiche, come la sopravvalutazione dell’idrogeno o il depotenziamento dell’elettrico rinnovabile. Molto debole la considerazione degli aspetti sociali della giusta transizione, fa eccezione la rapida citazione della povertà energetica tra le motivazioni dell’efficientamento energetico in edilizia, a cui però non fa seguito alcuna proposta di contrasto, mentre si registra un drastico taglio dei finanziamenti rispetto al precedente Piano (da 29,23 a 15,22 miliardi), particolarmente accentuato nell’edilizia pubblica, senza alcuna considerazione delle misure proposte (anche dal ForumDD) per evitare che il super-bonus vada solo ai ceti più abbienti. Preoccupa infine la sproporzione tra investimenti per il trasporto locale e ferroviario regionale e quelli per l’alta velocità. Non mancano le innovazioni positive, come l’agrivoltaico, il risanamento degli edifici dall’amianto, anche se solo in agricoltura, le risorse per il TPL, gli investimenti nel biometano, pur se appaiono sovradimensionati, l’inclusione della salvaguardia della biodiversità tra le azioni da finanziare, anche se con risorse molto

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limitate. Vi è, infine, una nutrita previsione di riforme strettamente legate all’attuazione della Missione, su cui occorrerà vigilare affinché le pur necessarie semplificazioni non si trasformino nella generalizzazione del così detto modello Genova.
• Dalla ricerca all’impresa. Permangono alcune delle criticità già evidenziate a gennaio. Su tutte, la debolezza dell’impianto complessivo della missione, costruita come aggregazione di progetti facenti capo a Ministeri diversi, senza una visione strategica unitaria ispirata all’obiettivo di stimolare gli scambi di conoscenze tra università, enti di ricerca e altri soggetti sociali e senza un’adeguata attenzione al ruolo dell’innovazione per il contrasto alle disuguaglianze. La debolezza è accentuata dall’assenza di motivazioni in alcune delle scelte quali quelle riguardanti gli ecosistemi dell’innovazione e i centri di trasferimento tecnologico da finanziare o potenziare. Nel caso degli ecosistemi dell’innovazione, è anche venuto meno il collegamento, prima presente, con gli interventi speciali per la coesione territoriale. In positivo, si osservano una maggiore chiarezza nella definizione di alcuni obiettivi e un maggior dettaglio nella descrizione di alcuni interventi. E soprattutto per quanto concerne i cosiddetti “campioni nazionali di R&S” vengono individuati i temi di intervento senza invece predeterminarne il numero, che resta subordinato agli esiti di procedure competitive. Non vi sono modifiche positive per quanto riguarda i finanziamenti diretti alle imprese, ma essi potranno ora beneficiare della previsione di condizionalità per il finanziamento delle imprese, introdotta nella parte generale del Piano, che dovrà condurre all’inserimento nei bandi di gara di specifiche clausole con cui indicare i requisiti da rispettare per perseguire le pari opportunità, generazionali e di genere.
• Lavoro. L’attenzione alla qualità del lavoro e alla qualità dei posti di lavoro creati è pressoché inesistente: si rinviene una sola menzione, nella parte introduttiva della Missione relativa alla coesione sociale. È uno dei segnali gravi di un Piano che non riesce a uscire dalla cultura perdente del precedente trentennio. Che in un paese nel quale una donna su due non lavora, non assume la necessità di rimuovere i vincoli all’accesso e alla permanenza sul mercato del lavoro, senza i quali tutte le misure programmate possono risultare inefficaci. Che non riesce a comprendere che la partita dello sviluppo economico e sociale si gioca in larga misura non solo sul piano del numero di occupati o di ore di lavoro, ma su quello della qualità dei lavori, della loro stabilità, remunerazione, e delle condizioni di lavoro. Ancora più grave è questo in un paese con un elevatissimo numero di infortuni e morti sul lavoro – tema ignorato dal Piano – di un’elevata diffusione di lavoro atipico e di working poor. In questo contesto è sorprendente e grave l’assenza – mancava anche a gennaio ma era comparso in una delle bozze circolate successivamente – fra le 70 riforme di un impegno all’introduzione del salario minimo legale, magari combinata, come il ForumDD propone, con la validità erga omnes dei contratti firmati dalle organizzazioni più rappresentative. Eppure, l’UE ce lo chiede da tempo e secondo l’ILO, tra i paesi in cui il salario minimo legale non esiste, l’Italia sarebbe quello in cui l’introduzione garantirebbe la maggior riduzione nelle disuguaglianze di reddito. Su questo fronte un solo miglioramento, assai significativo, peraltro, anche alla luce della situazione dei prossimi mesi: l’impegno alla riforma degli ammortizzatori sociali. E tuttavia il fatto che la necessità di rafforzare la protezione sociale sia presentata come conseguenza dell’incoraggiamento della concorrenza fa temere nuove e improprie misure di ancora maggiore flessibilità nel mercato del lavoro.
• Sistema del welfare. Come osservato, manca nel Piano la complessiva consapevolezza, pure spronata dalla pandemia, che il paese ha bisogno di riprendere la costruzione di un sistema adeguato di welfare universale, interrotta ormai da decenni, con un cambio di prospettiva che dia centralità al tema della “riproduzione sociale” quale dovere pubblico per garantire i bisogni prioritari della sostenibilità della vita.

Sebbene permanga ancora una dimensione culturale molto lontana dal welfare comunitario e capacitante, che evidenzia molta frammentazione sui target, anche per l’inadeguato ricorso alla programmazione partecipata, nel Piano vi sono impegni di riforma e investimenti che, se attuati e attuati bene, possono muovere in questa direzione. Ci riferiamo soprattutto all’impegno di un passo innovativo per l’assistenza (sanitaria e sociale) agli anziani non autosufficienti, e i fondi messi a disposizione, pur con ambiguità (cfr. oltre) degli asili nido. Ma sono significativi anche l’impegno ad adottare una Strategia Nazionale per la Parità di Genere, con esplicito riferimento al tema del potere, anche se mancano riferimenti puntuali a misure di empowerment, e quello rivolto al recupero dei divari di cittadinanza, prevedendosi una specifica “azione di riforma per la definizione del livello essenziale delle prestazioni per alcuni dei principali servizi alla persona, partendo dagli asilo nido, in modo da aumentare l’offerta delle prestazioni di educazione e cura della prima infanzia”. Importante anche la spinta verso il ripristino dei servizi di territorio (domiciliarità, medicina di territorio) e dell’integrazione socio-sanitaria (case della salute) perché propongono, almeno in prospettiva, un’idea di cura come responsabilità pubblica, dentro alle comunità e in un’ottica inclusiva.
• Anziani non autosufficienti. Sta qui, sul piano della visione e dell’impegno, l’altro più significativo passo in avanti (assieme all’impegno sulla PA). La differenza con la precedente versione del Piano è netta. Grazie alla spinta esercitata dalle organizzazioni di cittadinanza attiva e alla disponibilità al confronto delle istituzioni, il Piano assume infatti un impegno molto chiaro per l’adozione di una riforma organica dell’assistenza agli anziani non autosufficienti, attesa da decenni (dalla fine degli anni ’90). Una riforma finalizzata all’introduzione dei livelli essenziali delle prestazioni e basata sull’integrazione fra servizi sanitari e servizi sociali, da realizzare entro la fine naturale della legislatura (primavera 2023). L’impegno è accompagnato da un significativo incremento degli investimenti dedicati, in particolare da 1 a 3 miliardi per i servizi domiciliari: non si tratta ancora, secondo le valutazioni fatte, di una cifra adeguata a raggiungere gli obiettivi fissati, che vanno oltre la sola domiciliarità, e soprattutto deve essere accompagnata da impegni permanenti a valere sulle risorse ordinarie, ma è un passo che apre la strada e che chiama a un rinnovato impegno della società civile.
• Asili nido e istruzione. Il Piano si impegna, come già in gennaio, per un primo significativo investimento su alcuni dei presidi fondamentali per la crescita (asili nido, tempo pieno, mense scolastiche, sicurezza e qualità degli ambienti dell’apprendimento) e per la Riforma dell’organizzazione del sistema scolastico. Positivo anche il nuovo finanziamento per il contrasto alla povertà educativa, con il coinvolgimento del Terzo Settore. Da accogliere con favore la scelta di utilizzare le risorse che si libereranno nei prossimi anni come conseguenza della denatalità, per contrastare le carenze al sistema educativo, un netto cambio di rotta rispetto ai due miliardi di euro di tagli precedentemente previsti dal Governo, per la stessa ragione, nel 2022 e 2023. Ma restano molti problemi e alcuni paiono aggravati.
Molto preoccupante appare, in particolare, l’intervento rivolto al potenziamento dell’offerta di asili nido. In primo luogo, esso tradisce una forte sottovalutazione della valenza per bambine e bambine stessi della loro presa in carico educativa, e quale strumento cardine per il contrasto precoce della povertà educativa e delle disuguaglianze di partenza oltre che presidio indispensabile per scardinare stereotipi di genere. Una sottovalutazione che favorisce l’idea che i nidi servono solo quando i genitori, in particolare le mamme, lavorano. A fronte delle enunciazioni di principio, non è più esplicitato il target di copertura del 33% del fabbisogno, così come non vi sono indicazioni sulla necessaria concentrazione dell’intervento nelle aree più fragili. Manca, inoltre, un’indicazione forte sulla titolarità pubblica del servizio così come si intravedono rischi
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(cfr. Family Act) del ricorso ai voucher. La dotazione finanziaria appare insufficiente ad assicurare il target del 33% in tutte le regioni (per il quale occorrerebbero 300mila posti in più a fronte dei 228mila previsti, con un investimento di 4,8mldi di euro per i soli nidi) anche se non è possibile, al momento, quantificare con esattezza la distanza dal target, per mancanza di chiarezza sulla distribuzione interna fra nidi e altri servizi. Infine, anche l’integrazione delle risorse ordinarie per la gestione risulta inadeguata.
Quanto alle misure rivolte al contrasto della dispersione scolastica e della povertà educativa, la previsione di interventi unicamente orientati dall’acquisizione delle competenze di base, che resta essenziale, evidenzia una sottovalutazione della multidimensionalità di questi fenomeni. A ciò si aggiunga, che il disegno degli interventi di recupero formativo appare inadeguato rispetto agli obiettivi perseguiti. Infine, pur se cospicue, le risorse programmate per l’Edilizia scolastica appaiono insufficienti, soprattutto se dovesse essere confermato il taglio di 2,5 mldi rispetto alla precedente versione del Piano. Una insufficienza aggravata dalla mancanza di una visione, che, nel tenere assieme le tre dimensioni indissolubili del rinnovamento degli edifici scolastici (sicurezza, sostenibilità e valorizzazione di tutti gli spazi fisici che possono favorire l’innovazione didattica) non aiuta a stabilire gli ordini di priorità.
• Rigenerazione urbana e casa. Per la rigenerazione urbana permangono tutti i limiti della versione precedente, ma con un progresso significativo e potenzialmente produttivo. A questo obiettivo, peraltro, sono riconducibili molte diverse iniziative (non solo quelle espressamente dedicate), fra loro prive di raccordo. Ne conseguono forti rischi di incongruenze e/o di non valorizzazione delle complementarietà, che solo una governance complessiva fortemente rinnovata e appropriate forme di coordinamento nella definizione dei meccanismi operativi può scongiurare. Inoltre, pesa sull’attuazione la persistente assenza di impegni nella direzione del superamento della logica del bando (più esattamente della sommatoria di bandi) in favore di una programmazione pluriennale che dia certezze e stabilità all’intervento e apprenda dalle lezioni del passato, che invece pare volersi ripete. Innovativa in questo contesto è la previsione di Piani Urbani Integrati, destinati alle periferie delle aree metropolitane, costruiti in modo partecipato attraverso la co-progettazione con il Terzo Settore. Un salto di qualità, rispetto alla precedente versione, da promuovere in modo ancora più sistematico.
Senza alcun segnale di miglioramento resta l’azione sulla casa. Resta confermata la non valorizzazione del Piano quale leva per l’avvio di una nuova stagione delle politiche per la casa, tanto più necessaria alla luce del drammatico esacerbarsi delle disuguaglianze nell’accesso a questo diritto fondamentale. Lo stesso intervento sull’Edilizia Residenziale Pubblica, già impropriamente limitato nell’ammontare, sembrerebbe essere stato spostato, per una parte assai significativa, sul Fondo Complementare: una scelta, se confermata, molto discutibile, in quanto non riconducibile né al dovuto rispetto delle regole di ammissibilità, né a una tempistica fisiologicamente incompatibile con l’orizzonte temporale del Piano.
• Coesione Territoriale e Sud. Come già nella versione di gennaio, questa sezione risente della permanente ambiguità in Italia del termine “coesione territoriale”. Esso non dovrebbe infatti riferirsi a singole specifiche misure ma ad una metodologia di intervento pubblico – rivolto alle persone nei luoghi – che dovrebbe toccare tutte le diverse politiche settoriali (scuola, salute, mobilità, cultura, agro-alimentare, etc.) quando esse sono rivolte a aree marginalizzate del paese (aree interne, periferie, campagne deindustrializzate, coste in crisi, etc.). Era questo il metodo che proponevamo nel luglio 2020 già al precedente governo nel documento Liberiamo il Potenziale di tutti i Territori, e che avrebbe contribuito a
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dare una visione al Piano. Non è stato e non è così. In questa voce sono allora compresi interventi di assai diversa natura, che inevitabilmente, in quanto residuali, hanno visto un calo di allocazione finanziaria, e la comparsa di un intervento molto tradizionale di “compensazione” dei ritardi (le Zone economiche Speciali). Per quanto riguarda la più strutturata delle strategie per le aree marginalizzate – la Strategia Aree Interne – secondo quanto riferito dalla Ministra nell’incontro con la Federazione delle Aree Interne (che raccoglie gli oltre 1000 sindaci della corrispondente strategia), la riduzione di finanziamenti a carico del Piano troverebbe compensazione non solo nel Fondo complementare ma in un impegno a valere sul Fondo Sviluppo e Coesione.
Guardando, infine, al Sud nel suo insieme, la principale innovazione rispetto a gennaio riguarda l’impegno a destinare alle otto regioni del Mezzogiorno non meno del 40 per cento delle risorse territorializzabili del PNRR (pari a circa 82 miliardi). E’ un obiettivo che non trova però una puntuale declinazione nella descrizione dell’impatto territoriale delle singole Missioni del Piano, fatta eccezione per gli interventi rivolti ad assicurare la connettività a Banda ultralarga, che si prevede siano rivolti per il 45% al Sud e assicurino la copertura di tutte le aree interne e delle isole minori.
3. Che fare ora
Prima di tutto, teniamo bene a mente che la fase ascendente non è chiusa. In primo luogo, si è aperto un dialogo con la Commissione Europea che proseguirà fino a giugno. E vogliamo credere che l’attenzione della Commissione, a queste come ad altre osservazioni fatte in Italia dalle organizzazioni sociali e del lavoro, possa condurre a migliorare alcuni profili del Piano.
In secondo luogo, ogni Piano o Programma ha la prova del nove nell’attuazione dove non solo possono sorgere ostacoli, ma dove si possono trovare strade adatte e non pensate. Questo è particolarmente vero per un Piano che non ha voluto (salvo pochi casi) cercare il dialogo sociale e che è assai aperto, per non scrivere vago, nelle sue indicazioni attuative. E’ sull’attuazione che l’Italia ha spesso mancato. Ed è qui che sarà possibile fare la differenza.
La condizione perché le organizzazioni della società possano svolgere un ruolo nella fase attuativa, sia a livello nazionale sia, soprattutto, a livello territoriale, è che esse siano informate. Per questo motivo abbiamo indicato (cfr. par. 1) come obiettivo prioritario che a tutte le informazioni previste dal sistema di monitoraggio affidato (ex lege 178/20 e ex Piano) al Ministero Economia e Finanze possano accedere tutte le cittadine e tutti i cittadini.
Su queste basi, spetta poi a noi, a tutti noi, attrezzarci per poter contare e dare al Piano la forza e l’indirizzo che lo rendano utile al paese. Lo potremo fare, analizzando e valutando le informazioni sui processi e avanzando e battendoci per chiare proposte. Lo potremo fare attraverso un monitoraggio civico sui cantieri, sui luoghi dove gli interventi al fine verranno realizzati. Questo sarà possibile in molteplici aree tematiche del Piano. Ma vogliamo indicarne alcune dove, anche per le competenze del ForumDD, ci sembra particolarmente produttivo investire:
• Pubblica Amministrazione. Ferma restando la necessaria modifica dell’art. 10 del DL 44/21, è possibile migliorare le modalità per la selezione del nuovo personale, rendendole pienamente coerenti con l’obiettivo di rinnovamento generazionale, valorizzando al meglio le lezioni apprese dalle esperienze esistenti, come emerge dal Vademecum predisposto assieme a ForumPA e Movimenta. Con pochi ritocchi alla governance, sarà inoltre possibile recuperare l’integrazione, ora mancante, tra digitalizzazione e modernizzazione della
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PA. Dai positivi riferimenti al ruolo del Terzo Settore e alle pratiche partecipative, si può trarre spunto per un forte rafforzamento e diffusione dell’amministrazione condivisa, lungo le linee già tracciate.
• Transizione digitale. E’ in questa fase che si potrà spingere per imporre una condizione che obblighi i soggetti attuatori, non solo quelli pubblici, a rendere aperti, accessibili ed utilizzabili i dati generati dai processi innovativi realizzati con il PNRR. Infine, in continuità con le positive indicazioni sulle misure di accompagnamento sul territorio e di formazione, affidate alle regioni e alle città, e sull’inclusione, come possibili attuatori, delle organizzazioni del terzo settore, si dovrà ampliare il ventaglio delle competenze e dei processi formativi (es. Scuola POP sui dati digitali) per promuovere utenti e lavoratori pienamente consapevoli e non solo protesi addestrate dei dispositivi digitali.
• Transizione ecologica: l’indeterminatezza di molti degli impegni assunti apre rischi, ma al tempo stesso offre la possibilità di influenzare i processi di attuazione, soprattutto per evitare il rischio, sempre presente, di riforme al ribasso. Uno specifico spazio di lavoro di assoluta rilevanza è quello che riguarda la messa a punto, misura per misura, delle condizioni che devono assicurare il pieno rispetto del principio “do not significant harm” in tutte le decisioni di finanziamento e nelle riforme correlate alle diverse missioni.
• Dalla ricerca all’impresa. Esistono ampi spazi di miglioramento possibili nella fase di preparazione dei bandi e nella fissazione dei requisiti per accedere ai finanziamenti, come pure nella definizione del percorso di valutazione propedeutico al finanziamento dei centri di trasferimento tecnologico esistenti. A tale ultimo riguardo, vanno articolate le domande di valutazione coinvolgendo i sistemi locali (con grande attenzione ai fattori di successo e insuccesso e alla rilevanza dei contesti) e fissata la tempistica.
• Asili, dispersione scolastica e povertà educativa. Le molteplici problematiche e i rischi rilevati in merito all’intervento per l’infanzia e, fra questi, il grave rischio che una logica a bando penalizzi proprio le aree dove il paese è più indietro, chiamano all’esercizio di un monitoraggio severo già sulle prime fasi procedurali successive all’approvazione del Piano. Quanto agli interventi per la dispersione scolastica e la povertà educativa, essi richiedono una assai migliore precisazione dell’analisi e delle linee strategiche che, nel caso del contrasto alla povertà educativa, è opportuno si traduca in un piano strategico per le aree maggiormente colpite, da co-progettare con tutti gli attori territoriali: un passo indispensabile per evitare rischi di frammentazione degli interventi e valorizzare l’apporto creativo del Terzo settore.
• Anziani non autosufficienti. Stante l’importante cambio di rotta tracciato dal Piano, un’azione di accompagnamento all’attuazione della riforma può risultare decisiva, per assicurarne sia l’adozione entro la scadenza indicata, sia la qualità. Considerata la necessità di utilizzare lo spazio di intervento assicurato dal Piano per preparare il terreno alla riforma, questa azione dovrà essere rivolta anche ad assicurare un pacchetto di misure coerenti con il disegno complessivo, rafforzando e riequilibrando gli investimenti previsti.
• Rigenerazione urbana. E’ l’ambito nel quale, prendendo spunto dalle esperienze esistenti (Tavolo partenariale del PON METRO), estendendone e rafforzandone l’applicazione, è possibile portare a ricomposizione nella fase della definizione dei meccanismi operativi e in quella di attuazione, le tante iniziative che impattano, direttamente o indirettamente, sulla qualità degli ambienti urbani. Nel fare ciò andrà favorito lo scambio di esperienza e la diffusione di sperimentazioni che abbiano dimostrato la loro validità ed efficacia.
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• Casa e Ricostruzione post-sisma. Anche qui sono ampi gli spazi per trasformare una scelta che può risultare penalizzante (non fosse altro per l’urgenza di sanare odiose ingiustizie e pesanti ritardi) in una opportunità: utilizzando il finanziamento a cura del Fondo Complementare per la riqualificazione energetica e antisismica dell’Edilizia Residenziale Pubblica, la sua maggiore gradualità, quale volano per costruire una risposta strutturale, basata, in entrambi i casi, su programmazioni che diano orizzonti di medio-lungo periodo e certezze e che sfruttino analisi già fatte sia in tema di casa sia di ricostruzione post-sisma.
• Coesione Territoriale: molto si può fare per dare visibilità e forza all’integrazione, ora poco visibile, tra PNRR e programmazioni UE 21-27 e Fondo Sviluppo e Coesione. Si tratta “solo” di far emergere i nessi già esistenti e quelli che si renderanno ancora più visibili, sulla base dell’avanzamento della definizione dei programmi di intervento. Ed è questo l’ambito nel quale il dialogo sociale, l’apertura ai saperi territoriali, rendendo sistematiche le pratiche che proprio la politica di coesione ha promosso, utilizzando bene la leva del Codice UE di condotta del partenariato, possono sostenere il disegno e l’attuazione di una politica effettivamente in grado di Liberare il potenziale di tutti i territori.
• Pari opportunità, lavoro e partecipazione strategica dei lavoratori e delle lavoratrici: cogliendo l’assai significativa indicazione delle clausole condizionanti l’accesso ai finanziamenti alle imprese per questi due obiettivi, molto, moltissimo si può fare per orientare e supportare la costruzione di queste clausole, includendo tra gli obiettivi anche la qualità del lavoro. Al contempo sarebbe possibile specificare quali condizionalità per l’accesso alle risorse previste dal piano, e assieme per l’uso dei crediti agevolati e dei finanziamenti volti a favorire le ristrutturazioni aziendali, l’adozione di forme democratiche nel governo di impresa, grazie alle quali i lavoratori, le lavoratrici e le comunità locali portatrici di preoccupazioni ambientali possano partecipare alle scelte strategiche e vedere i propri interessi far parte degli obbiettivi perseguiti dalle stesse imprese.
• Equità di genere: sarà fondamentale presidiare con continuità e competenza l’attuazione di tutti gli interventi previsti, missione per missione, per monitorare la rispondenza all’obiettivo trasversale declinato come parità di genere con particolare attenzione alle cinque priorità (lavoro, reddito, competenze, tempo, potere) indispensabili per la risalita di cinque punti entro il 2026 nella classifica del Gender Equality Index dello European Institute for Gender Equality ma con la forte spinta ad un radicale cambio di prospettiva che contrasti la disuguaglianza di genere dal suo riprodursi. Fondamentale sarà dare concretezza alle diverse formulazioni vaghe e incidere perché l’investimento sui nidi e su tutto il sistema di welfare sia efficace ed integrato, perché il sostegno all’occupazione delle donne sia immediato e parta dalla rimozione dei vincoli, dalla liberazione dei tempi e dal contrasto delle resistenze culturali vigilando perché il sistema educativo consenta il pieno sviluppo delle potenzialità e non predisponga alla disparità di potere e perché sia garantita la tutela dalla violenza maschile in tutte le sue forme. Bisognerà chiedere a gran voce la concertazione e la progettazione partecipata con la prescrizione di una componente di donne che porti il punto di vista, le pratiche, i saperi e le buone prassi per politiche di empowerment femminile.
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