Omaggio a Gino Strada

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Un santo, laico.
di Gianfranco Fancello, su fb.
Per descrivere la grandezza di Gino Strada non servono grandi discorsi, ma sono sufficienti due parole: santo laico.
Perché non può che essere definito così chi, come lui, ha letteralmente salvato dalla morte migliaia di vite umane mettendo, ogni volta, a repentaglio la propria. Lo ha fatto sotto le bombe, in mezzo al mare, fra le mine antiuomo. Lo ha fatto perché, da ateo (quale si professava), aveva un altissimo concetto di sacralità dell’uomo che, in quanto tale, in quanto persona, in quanto essere vivente, doveva essere sempre protetto e tutelato, indipendentemente dal colore della pelle, dal credo religioso, dall’etnia, dalla condizione economica. Sempre protetto, accolto, difeso. Sempre. A costo, anche della vita, la propria.
Dove c’era bisogno di soccorso, lui c’era. Dove c’era bisogno di aiuto, lui c’era. Dove c’era bisogno di medici, di ospedali, di chirurghi, lui c’era. Un santo, appunto.
Mi sono spesso interrogato sul suo ateismo che, lo confesso, un po’ mi sorprendeva. In realtà l’ho sempre considerato (è così continuo a farlo) un ateismo militante: infatti ho sempre visto Gino Strada molto più vicino a Dio di tanti “falsi” credenti, che si dichiarano tali per convenienza, per abitudine, o, peggio ancora (e gli esempi non mancano) per spudorato interesse personale: questi in realtà, basano il proprio credo sull’egoismo, sull’arroganza, sulla centralità della persona, la propria. Esattamente il contrario di Gino Strada, che, da ateo, ci ha mostrato una strada (ops… ma guarda un po’…) di fratellanza, di solidarietà, di amore per il prossimo, per il diverso, per il debole, per il ferito, molto spirituale e di forte impronta morale.
Forse il suo ateismo era frutto delle sue tante vite, passate negli angoli sperduti del mondo, a curare le ferite di cristiani, mussulmani, induisti, buddisti, pagani, non credenti; con ognuno di loro entrava in empatia, ad ognuno di loro apriva il suo cuore, soprattutto per sanare le cicatrici dell’anima. Con ognuno di loro parlava lo stesso linguaggio, quello della pace, del rifiuto della guerra, della concordia, linguaggio trasversale fra le religioni e quindi universalmente valido. Ateismo quindi non come rifiuto, ma come somma di pluralità, come incapacità di scelta di un credo a scapito degli altri.
Cosa ci lascia in eredità? Tante cose: un’associazione umanitaria fra le più grandi al mondo, diversi ospedali localizzati in zone difficili e dì frontiera, tanti medici, infermieri ed operatori che si spendono in prima persona in condizioni di difficoltà e di disagio.
Ma soprattutto un grande insegnamento morale, quello della solidarietà a prescindere, di lotta alla discriminazione, di amore e fratellanza per il diverso. Tutti insegnamenti degni di un santo. Laico, ma sempre santo.
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Gino Strada, laico ma sempre santo. E titolare della “cattedra dei non credenti”.
lampadadialadmicromicro132Nel condividere le riflessioni di Gianfranco Fancello sulla figura di Gino Strada, per il quale propone l’attribuzione della qualità di “santo laico” scopro che nella sostanza poco differirebbe dalla qualità di “santo religioso” secondo quanto prevede la Chiesa cattolica, prescindendo per un momento da quanto differenzia i credenti dai non credenti. Leggo su Wikipedia alla voce “santo”:
“Per i cattolici, il santo è colui che pienamente risponde alla chiamata di Dio a essere così come Egli lo ha pensato e creato, frammento nel quotidiano del suo amore per l’umanità. La fede cattolica insegna che Dio ha per ogni persona un’idea particolare, e assegna a ognuno un posto preciso nella comunità dei credenti. Non esistono dunque caratteristiche univoche di santità, ma nella teologia cattolica, ognuno ha una santità particolare da scoprire e porre in atto. Santo, per la fede cattolica, può e deve essere chiunque, senza la necessità di particolari doni o capacità. (…) Il santo viene proposto come modello a tutti i fedeli e agli uomini di buona volontà non tanto per quanto ha fatto o detto, ma poiché si è messo in ascolto e a disposizione di Dio accettando, nella fede, che fosse Lui a dirigere attraverso l’opera dello Spirito Santo la sua vita. Per la Chiesa cattolica, dunque, a dover essere imitato è soprattutto l’atteggiamento di obbedienza a Dio e l’amore per il prossimo che ogni santo ha reso reale nei modi più diversi”. La vita di Gino Strada corrisponde proprio alla chiamata di Dio perché si ponesse a totale servizio dell’umanità (frammento nel quotidiano del suo amore per l’umanità), come davvero ha fatto. Certo Gino non credeva che questa sua missione provenisse da una chiamata divina. Ma, all’atto pratico, che ci importa? Avessimo tanti Gino Strada credenti o non credenti, o diversamente credenti!
Un’altra riflessione. Per connessione pensando a Gino Strada mi è venuta in mente l’esperienza della “Cattedra dei non credenti” inventata e praticata dal card. Carlo Maria Martini negli anni 1987-2002 durante il suo episcopato nella Diocesi di Milano, che sarebbe bene riproporre, aggiornata in metodi e contenuti ma mantenendo motivazioni e impostazione (ne riparleremo). Si trattava di una proposta insolita “non solo ascoltare i non credenti o dialogare con loro, ma metterli ‘in cattedra’, per farsi interrogare da loro e dalla dinamica generata dal confronto”. Di questa cattedra sicuramente Gino ne sarebbe stato uno dei degni titolari. E nel tempo che verrà, se come auspichiamo l’iniziativa verrà riproposta, lo sarà, attraverso le testimonianze che ci ha lasciato (scritti, video) e con la presenza dei suoi continuatori della missione di Emergency.
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Riportiamo di seguito l’intervista che Gino Strada rilasciò nel 2019 al Corriere della Sera, che ci sembra utile segnalare, soprattutto in alcuni passaggi, anche in relazione alle riflessioni che precedono di Gianfranco Fancello e Franco Meloni.
Gino Strada: intervista al Corriere [2019]

Venerdì 13 agosto, è scomparso Gino Strada. Aveva 73 anni. Medico, filantropo, attivista, nel 1994, insieme alla moglie Teresa Sarti, Strada ha fondato la ong umanitaria Emergency. Riproponiamo qui l’intervista che ha concesso al Corriere nel 2019, in occasione del 25esimo anniversario della fondazione di Emergency.

Emergency fa 25 anni. Che cosa si regala?
«Un ospedale in Uganda, disegnato gratis da Renzo Piano. Costruito con terra di scavo. Poi andremo a farne uno in Yemen».

Altro bel posto complicato…
«Il peggio è la Somalia. Ci ho provato per dieci anni: con gli Shabaab non si parla. Idem in Cecenia, rien à faire. Tirano su il muro. A un certo punto, devi rassegnarti».

Ma come fa, Gino Strada, a entrare in questi posti?
«Non ho ricette. In Sudan, ci chiese d’intervenire il governo. In Iraq, andammo alla ventura con tre macchine da Milano. Prima di partire si parla con tutte le parti: guardate che non c’entriamo con la vostra guerra… Mai avuto un morto, facendo le corna. Ma la gestione della sicurezza dev’essere precisa».

Come fu la prima riunione, nel 1994?
«A casa mia a Milano, fino a ore tarde. Carlo Garbagnati, una ventina d’amici, non tanti medici (erano scettici). E la mia adorata Teresa, che sarebbe diventata insostituibile. Ci fu una cena al Tempio d’Oro, in viale Monza. Raccogliemmo 12 milioni di lire, ma volevamo cominciare dal genocidio in Ruanda e non bastavano. Ne servivano 250. Io dissi: beh, ragazzi, firmiamo 10 milioni di cambiali a testa… Per fortuna venni invitato da Costanzo e, puf, la tv è questa cosa qui: in un paio di mesi, arrivarono 850 milioni. Gente che mi suonava al campanello di casa, ricordo una busta con dentro duemila lire spillate».

È vero che litigò con la Croce rossa?
«Quella italiana non esiste. Ma della Croce rossa di Ginevra ho gran stima. Avevo girato per loro, dall’Etiopia al Perù. Solo che a un certo punto s’erano disimpegnati dalla chirurgia di guerra. Che è difficile, costosa, rischiosa».

E il nome?
«Lo scelsi io. Era l’aggettivo all’inizio d’Emergency-Life Support for Civilian War Victims. Troppo lungo: l’aggettivo diventò sostantivo».

Settantanove progetti in sette Paesi, 120 dipendenti, 9 milioni di persone curate. Questa nuova sede vicino a Sant’Eustorgio…
«È la chiesa più antica di Milano, sa che non ho ancora avuto il tempo di visitarla? Nessuno pensava a dimensioni simili. Anni lunghi, faticosi. Siamo cresciuti con la solidarietà della gente. Anche ora che le Ong sono criminalizzate. Quel procuratore di Catania, Zuccaro, ci ha provato e non è uscito niente. Quando ammetterà che era tutta una balla?».

Volevano la tassa sulla bontà per colpire chi s’arricchisce…
«Anche noi avevamo una nave per salvare i migranti, ma costava troppo: 150mila euro al mese. È verosimile che certi meccanismi lascino spazio a comportamenti illegali. Ma non cambi la tassazione delle Ong solo perché tre sono poco chiare: indaghi su quelle tre!».

Vi sentite danneggiati?
«Han creato sfiducia nella gente. Dal 2011 abbiamo raddoppiato il budget, ma i progetti sono tanti. Un ospedale è un debito continuo, ogni anno i ricoveri aumentano del 30%. In Afghanistan, il sistema sanitario siamo noi».

Un caso che non dimentica?
«Un ragazzino, Soran, operato in Iraq. Aveva una gamba amputata da una mina. Qualche anno fa è venuto a trovarmi. Fa l’avvocato».

Il giorno più duro?
«Quando rapirono i nostri in Afghanistan e in Sudan. Anche nel caso Mastrogiacomo rischiai. Mi chiedevo: ha senso mediare? Sì, perché c’era un uomo che rischiava più di me».

Ha lavorato con Christiaan Barnard…
«Elegantissimo, con la sua Mercedes, ma ormai operava poco per l’artrosi alle mani. I miei modelli furono Staudacher e Parenzan».

E la chirurgia di guerra chi gliela insegnò?
«Era un’attività di nicchia. La faceva la Croce rossa. E i militari, che però erano proprio un altro mondo. Nel ’91, guerra del Golfo, i militari chiesero a Ginevra d’andare in Bahrein. Avevano allestito un ospedale da 5mila posti letto. Vuoto. Mandammo 101 chirurghi inglesi. Ma fecero un solo intervento: a un mignolo».

Il mondo umanitario a volte è pura rivalità. In Sierra Leone, i medici olandesi e francesi di Msf nemmeno si parlavano…
«C’è anche molto dilettantismo, favorito dai grandi donatori. In Kurdistan, vidi un palazzo per la posta aerea pagato dall’Ue. Gli aeroplanini dipinti, la scritta Air Mail. Inutile, costava un’enormità. Lo usavano come hotel».

Libia, Palestina… Perché state alla larga?
«I libici sono tosti, chiudemmo perché non arrivavano feriti di guerra, solo delinquenti locali. E ci pigliavano a sassate. Coi palestinesi ci ho provato, un ospedale a Ramallah. Andai dal ministro. Mi disse: “Ma voi avete 5 milioni da spendere? Sa, un posto letto vale 100mila dollari”. Arrivederci… Ho sempre pensato che una parte d’aiuti alla Palestina finisca altrove».

Paesi nel cuore?
«L’Afghanistan. E il Sudan: non ci credeva nessuno che si potesse fare cardiochirurgia in uno Stato canaglia. C’era una rivista di sinistra, Aprile, con un solone della Cooperazione che mi spiegava di che cosa c’era davvero bisogno in Sudan… Perché? Gli africani non hanno bisogno d’essere operati al cuore? La salute non è solo un diritto degli europei. Qui hai la tac e la risonanza magnetica, lì due aspirine e vai? L’eguaglianza dev’essere nei contenuti, non solo nelle idee».

Trattate col dittatore Bashir…
«Se un regime è oppressivo, la gente sta male. E noi ci andiamo. Quelli che noi chiamiamo dittatori, in Africa sono presidenti. E loro come dovrebbero chiamare i nostri “presidenti” Orbàn o Erdogan?».

Quando pecunia olet?
«Quando arriva dal crimine. E chi dona, pretende di decidere chi devi operare e chi no».

Le amicizie d’una vita?
«De André, Eco, Chomsky. Adesso, Renzo Piano. Quando morì Teresa, mi scrisse una lettera splendida. Gli telefonai a Parigi per ringraziarlo. Ci siamo chiamati per quattro anni senza vederci. Amicissimi, ma non sapevo nemmeno che faccia avesse».

Dio?
«Non ne sento alcun bisogno. Penso che il significato delle cose stia nelle cose stesse, non al di fuori o al di sopra. Questo non m’ha precluso l’amicizia con don Gallo, Alex Zanotelli, don Ciotti, a parte qualche bestemmia che ogni tanto mi scappava. Mi piacerebbe incontrare Papa Bergoglio, parlare dell’abolizione della guerra. Una volta era un tema, oggi è dimenticato».

Dicono che lei sia un pacifista utopista…
«Utopista va bene: secoli fa, era utopia abolire la schiavitù. Pacifista, no: lo sono anche i parlamentari che poi votano per le guerre».

Sergio Romano scrisse: Emergency fa del bene, ma non è neutrale.
«Nessuno può essere neutrale. Non puoi esserlo, su un treno in corsa. Come fai a esserlo in Iraq? Però non siamo neanche di sinistra: scegliamo la vita, la giustizia, l’uguaglianza».

Aveva simpatie per Ingroia, per Tsipras…
«Quelle sono cose che ti appiccicano addosso. Certo, trovo Prodi una persona ragionevole, anche se polemizzammo sull’Afghanistan (credo che oggi saremmo più in sintonia). E trovo Salvini razzista. Io poi sono di Sesto San Giovanni e ieri ho firmato una petizione perché apre Casa Pound. Quest’idea imbecille d’una società violenta e rancorosa, che ti spinge a trovare chi sta peggio di te e a dargli la colpa dei tuoi guai. Mai uno di loro che punti il dito su quelli che stanno meglio, eh?».

In Italia, avete 13 progetti.
«Un’Italia sconosciuta. Castel Volturno, Polistena, questi bei posticini. Povertà, degrado, schiavismo, situazioni che non ho mai visto neanche in Sudan. Quando abbiamo aperto a Marghera, pensavamo d’essere nel ricco Nord Est e d’avere solo stranieri. Invece il primo paziente fu uno di Mestre, un bell’uomo. Era stato un campione italiano alle Olimpiadi. Ma poi aveva perso il lavoro e i denti, mangiava male. E non poteva pagarsi una protesi».

Se i grillini l’avessero candidata al Quirinale, come volevano, sarebbe diventato il capo delle Forze armate. Che cosa avrebbe fatto?
«Ritiro dalle missioni all’estero. Smantellamento degli arsenali stranieri in Italia. Riduzione degli armamenti. Ma era una boutade, non ci ho pensato neanche un momento».

L’hanno candidata al Nobel per la pace…
«Accade ogni anno. Ci sono delle regole, il candidato non sa mai chi lo candida. Accettarlo? Mah, l’hanno talmente svilito: Obama l’ebbe per un semplice discorso, Kissinger con tutti i golpe che ha organizzato, l’Ue che tira su muri e nei Balcani fece una guerra tra le più sanguinose del secolo…».

Sua figlia Cecilia tornerà in Emergency?
«Non lo so. Non discutiamo più delle vicende che l’hanno spinta ad andarsene. Ma abbiamo ancora un buon rapporto».

Che padre è stato? Cecilia raccontò una volta che all’asilo le mandava le cartoline dal mondo, da adolescente lei le vietava la discoteca, da adulta ha imparato la sua ironia…
«L’ironia e la discoteca, è vero. Ma non le mandavo solo cartoline dal mondo. C’inventavamo giochi, letture. All’asilo, sono andato anche a fare il buffone».

Si sente stanco?
«Purtroppo ho 70 anni e sono afflitto da una malattia inguaribile, la vecchiaia. Non so come faccia Renzo Piano, 12 ore d’aereo e subito altre otto in cantiere. Forse la vita del chirurgo è molto usurante e ha ragione Woody Allen: non conta l’età, conta il chilometraggio. In alcuni posti ho lasciato la salute. L’anno in Sierra Leone è stato devastante, perché ebola non è diverso dalla guerra: il nemico non lo vedi, ma ogni passo che fai potrebbe essere l’ultimo».

Hanno dato il suo nome a un asteroide, il 248908 Gino Strada…
«Una volta ho fatto i conti sulla superficie: potrebbe venirci fuori un bilocale. Un buon rifugio per il weekend. Però è a otto milioni di anni luce, un po’ lunga: ho ancora troppo da fare, qui».

3 Responses to Omaggio a Gino Strada

  1. Franco Meloni scrive:

    «Era un santo moderno»: l’omaggio di Patti Smith a Gino Strada
    «Un uomo splendido che si prendeva cura delle vittime di guerra. Viveva per aiutare chi ne aveva bisogno», ha scritto la cantautrice sul suo profilo Instagram
    diROLLING STONE

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