CheFare? Buone pratiche

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CHE FARE?
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Volere la Luna: che fare? Un confronto aperto
22-09-2021 – di: Livio Pepino

L’ultima assemblea e la festa di Volere la Luna appena conclusa ci hanno lasciato alcuni punti fermi e la comune convinzione della necessità, per il nostro futuro, di un supplemento di riflessione. Il modo migliore per farlo è aprire un ampio confronto: tra di noi, con i nostri interlocutori abituali e con chi ci guarda con interesse. Finita l’estate possiamo partire, prendendo le mosse da alcuni dati e dalla riflessione assembleare.

1.
Tre anni fa, quando abbiamo costituito Volere la Luna, lo abbiamo fatto partendo da un’analisi sintetizzata così nel preambolo dello statuto
:

L’Associazione “VOLERE LA LUNA – Laboratorio di cultura politica e di buone pratiche” nasce dalla constatazione degli enormi cambiamenti prodotti dalla grande trasformazione di fine-secolo, con la conseguente crisi economica e sociale, e dalla necessità di sperimentare risposte nuove e adeguate. L’aumento vertiginoso delle diseguaglianze, la rottura dei legami sociali e della solidarietà, la crescita della povertà e dell’indigenza, vissute troppo spesso in solitudine, l’imbarbarimento del comune sentire (con la sua coda velenosa di aggressività, disprezzo di sé e dell’altro, xenofobia e razzismo), sono gli effetti più evidenti. Così come l’indebolirsi delle forme di partecipazione e della rappresentanza, soprattutto per gli strati più fragili, e la sempre più evidente inefficacia degli strumenti tradizionali di difesa e di giustizia sociale, dal welfare alle forme di organizzazione politica e sociale (partiti e sindacati).

La prima verifica deve, dunque, riguardare la perdurante correttezza (o meno) di quell’analisi. E la risposta è, purtroppo, assai agevole.
La situazione economica, sociale e politica si è, in questi tre anni, ulteriormente aggravata, e non solo per la comparsa della pandemia. In estrema sintesi, e limitandosi alla situazione nazionale (che, per quella internazionale, il tragico fallimento dell’ennesimo tentativo di “esportare la democrazia con le armi”, questa volta in Afghanistan, è tanto clamoroso da non richiedere commenti):

a1) l’involuzione del sistema politico ha assunto proporzioni macroscopiche. Abbiamo l’ennesimo governo di tecnici, ancor più inquietante di quelli del passato: guidato dal banchiere simbolo di quel potere economico-finanziario che, nell’ultimo decennio, ha soppiantato la politica; con il potere reale, all’interno del Governo, affidato a un bureau emanazione diretta del presidente; con un prefetto e l’ex capo della polizia in posti chiave; con l’attribuzione dei “pieni poteri” per l’emergenza Covid a un generale che partecipa alle riunioni istituzionali e percorre il Paese in tuta mimetica o con una sfilza di onorificenze sul petto (tanto da evocare inquietanti figure di governi sudamericani di qualche decennio fa). E ciò avviene con l’euforico consenso dei partiti tradizionali (ormai indistinti nelle scelte economiche e di politica internazionale), senza reale opposizione da parte delle organizzazioni sindacali tradizionali (salvo eccezioni impercettibili) e con l’unanime appoggio della grande stampa (segnata da una ulteriore concentrazione). Morta la speranza (dettata dalla disperazione più che da segnali specifici) che il M5Stelle introducesse nella scena politica elementi di rinnovamento e confermata l’incapacità di aggregazione dei frammenti di quella che un tempo si chiamava sinistra radicale, il futuro del Paese, stando ai sondaggi (e ferme le eccezioni di alcune città), vedrà l’egemonia della destra, con l’unica incertezza di chi ne sarà l’azionista di maggioranza;

a2) a fronte di ciò continua, in modo evitabile e sacrosanto, la fuga dei cittadini da questa politica (come dimostra il flop delle primarie del centro-sinistra nelle grandi città) e deperiscono fino a scomparire gli stessi luoghi della rappresentanza, a cominciare dal Parlamento (minato dalla incapacità di affrontare i temi fondamentali, dalla delegittimazione intervenuta con la demagogica riduzione dei parlamentari e dalla sirena vincente del maggioritario) della cui esistenza non si accorge più nessuno;

a3) intanto la povertà e la disuguaglianza sono ulteriormente cresciute (a livello nazionale e nei territori). Pochi mesi fa il report annuale dell’Istat ha fotografato la crisi segnalando che, nel nostro Paese, sono in condizioni di povertà assoluta oltre 2 milioni di famiglie, pari a 5,6 milioni di persone, e in condizioni di povertà relativa 2,6 milioni di famiglie, pari a 8 milioni di persone. E ciò avviene non per mancanza di ricchezza ma per la distribuzione abissalmente diseguale delle risorse, che si è ulteriormente aggravata durante la pandemia (basti pensare che nel 2020 i 36 miliardari italiani hanno guadagno 45,6 miliardi in più rispetto al 2019). Né si vedono prospettive di una inversione di tendenza, neppure grazie agli ingenti fondi europei di prossima erogazione, posto che il Piano nazionale di ripresa e resilienza – al di là di alcuni riconoscimenti di facciata – resta solidamente ancorato al modello di sviluppo che ha portato alla crisi sociale, economica e ambientale in atto, come dimostra icasticamente il fatto che in una delle sue ultime formulazioni il PNRR ripeteva ben 257 volte i termini “concorrenza”, “impresa” e “competizione”, mentre la parola “disuguaglianze” si affacciava solo 7 volte (due delle quali riferite al genere).

In questo quadro è verosimile che la conflittualità diffusa prodotta dalla catastrofe sociale (che si acuirà con lo sblocco dei licenziamenti e degli sfratti) non trovi interpreti adeguati e che ad essa si risponda con una ulteriore involuzione autoritaria del sistema (già anticipata dalle politiche migratorie e dai vari decreti sicurezza). Lo segnalano anche fonti non sospette, come il papa di Roma: «La persona fragile, vulnerabile, si trova indifesa davanti agli interessi del mercato divinizzato, diventati regola assoluta. Oggi, alcuni settori economici esercitano più potere che gli stessi Stati: una realtà che risulta ancora più evidente in tempi di globalizzazione del capitale speculativo. Il principio di massimizzazione del profitto, isolato da ogni altra considerazione, conduce a un modello di esclusione – automatico! – che infierisce con violenza su coloro che patiscono nel presente i suoi costi sociali ed economici, mentre si condannano le generazioni future a pagarne i costi ambientali. […] Questo fenomeno mette a rischio le istituzioni democratiche e lo stesso sviluppo dell’umanità. In concreto, la sfida presente […] è quella di contenere l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, la criminalizzazione della protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali» (discorso indirizzato dal Papa il 15 novembre 2019 ai partecipanti al XX Congresso mondiale Associazione internazionale di diritto penale).
L’analisi che stava alla base della costituzione di Volere la Luna ne esce ampiamente confermata e, con essa, la scelta di rimanere fuori dalle dinamiche della politica istituzionale e delle competizioni elettorali (anche solo per sostenere il meno peggio).

2.
Più complicato è, come sempre, il che fare. Anche in questo caso conviene partire dal progetto esposto nel preambolo dello statuto
:

Volere la luna significa proporsi quello che può sembrare impossibile a molti, ma che in realtà dovrebbe essere normale: cambiare radicalmente il proprio modo di essere, di pensare, agire, cooperare e aggregarsi, tenendo fermi i valori di riferimento di un solidarismo radicale. Il mondo è cambiato, è ora di cambiare noi stessi. E il nostro modo di stare insieme. A cominciare da tre obiettivi primari: contrastare le diseguaglianze, promuovere ma soprattutto praticare forme di partecipazione solidale, favorire la rinascita di un pensiero libero e critico. Cioè non limitarsi a proclamare i propri valori, ma praticarli concretamente, con azioni positive quotidiane, creazione di occasioni di prossimità, di spazi, anche limitati, di relazione, di strumenti di comunicazione aperti e critici.

Ci abbiamo provato e ci stiamo provando. Ed è dalla valutazione dell’esperienza che dobbiamo muovere per definire le prospettive future. Due le principale linee su cui ci siamo mossi:

b1) anzitutto abbiamo cercato e trovato un luogo in cui radicarci, almeno a Torino, convinti che senza una presenza fisica sul territorio non ci siano le condizioni per promuovere partecipazione solidale. Quel luogo è la casetta di via Trivero, con annessi capannone e pergolato. Lì abbiamo cominciato a costruire relazioni (con le persone e con le realtà associative più prossime) e a sviluppare attività sociali (sportelli gratuiti di consulenza legale, sanitaria e sulla casa; partecipazione a interventi di aiuto materiale alle fasce di popolazione più in difficoltà; offerta di “pasti sospesi”, anche per promuovere socialità) e culturali (film, dibattiti, presentazione libri, mostre, biblioteca). I risultati sono, per ora, ridotti, per un doppio ordine di ragioni: i limiti imposti dalla normativa per la prevenzione della pandemia (che da un anno e mezzo hanno inevitabilmente abbattuto le attività in presenza e i rapporti diretti) e il mancato incremento del numero di persone coinvolte, in particolare di giovani (per ragioni molteplici, non ultima delle quali ancora la pandemia). Non mancano, peraltro, i progetti, considerata l’auspicabile normalizzazione delle attività e i lavori in programma per rendere i locali più agibili soprattutto nel periodo invernale, a cominciare dall’apertura di un’aula studio, di un forno per la panificazione comunitaria una volta la settimana e via elencando;

b2) parallelamente abbiamo cercato di contribuire alla rinascita di un pensiero libero e critico, essenzialmente su due piani: la realizzazione e l’implementazione del sito e l’organizzazione di momenti di formazione via web (ultimo dei quali il ciclo di studio sul Piano nazionale di ripresa e resilienza dello scorso luglio). Il sito ha raggiunto in questi anni un numero lusinghiero di collaboratori (oltre 100, a dimostrazione della progressiva costruzione di una vera e propria comunità di riferimento) e di visitatori (una media di 60.000 mensili, che non sono pochi per un sito funzionante esclusivamente sul volontariato dei redattori) ed ha avuto molti riconoscimenti circa la qualità e tempestività di interventi. Più difficile si è rivelato, invece, il decollo degli incontri di formazione che, forse anche per la stanchezza del lavoro via web, hanno avuto un numero di fruitori modesto.

Quali, a questo punto, le direttrici e le prospettive di lavoro? Essenzialmente tre, secondo le indicazioni emerse dall’assemblea:

c1) proseguire e intensificare il radicamento nel territorio con una presenza continuativa e solidale capace di creare comunità e partecipazione. È questo il presupposto per un reale rinnovamento della politica: non andare nei territori (come ormai tutti, a parole, sostengono) ma esserci (che è cosa profondamente diversa e che risponde a una logica di coinvolgimento e non di colonizzazione). Ciò significa, da un lato, consolidare l’esperienza torinese e promuovere e realizzare altrove esperienze analoghe; dall’altro, definire meglio le attività e modalità di presenza nel territorio;

c2) potenziare il sito come luogo di confronto, di approfondimento, di segnalazione di buone pratiche nella direzione di “un altro mondo possibile”. Ciò richiede una supplemento di riflessione sulle nostre modalità di comunicazione, un ulteriore allargamento della comunità dei collaboratori e, soprattutto, la costruzione di una rete con siti analoghi (nella convinzione che solo una dimensione collettiva può determinare, per tutti, un salto di qualità);

c3) lavorare a una formazione-azione politica a livello nazionale. È, all’evidenza, il settore più difficile per carenza di risorse e di presenza nel Paese ma è una prospettiva ineludibile (anche qui senza velleità di autosufficienza e nella consapevolezza che il percorso sarà lungo e senza scorciatoie). Le vie principali finora perseguite e da consolidare – certamente insufficienti ma utili come punto di partenza – sono la costruzione di una sorta di scuola di formazione politica (da organizzare con una pluralità di altri soggetti e con metodologie partecipative) e l’impegno in alcune campagne politiche strategiche e capaci di coinvolgimento (la modifica in senso proporzionale della legge elettorale, una politica dell’abitare solidale e che salvaguardi il territorio, nuove tutele del lavoro etc.)

È, quella sin qui esposta, una semplice scaletta, una traccia per un confronto di cui abbiamo bisogno per proseguire. Speriamo che sia un confronto ampio, franco e propositivo. Ad esso vogliamo dedicarci nei prossimi mesi.
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DIBATTITO. CHE FARE?
Stare nei territori, ma anche ridefinire un progetto
11-10-2021 – di: Riccardo Barbero su VOLERELALUNA.
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È difficile non essere d’accordo con le proposte emerse dall’ultima assemblea di Volere la luna e riepilogate con chiarezza da Livio Pepino (https://volerelaluna.it/che-fare/2021/09/22/volere-la-luna-che-fare-un-confronto-aperto/).

Forse sul tema importante del radicamento nel territorio, almeno per Torino, si può cercare di fare di più rete con altre iniziative affini alla nostra, ma operanti in altri quartieri o Comuni della cintura; si può inoltre cercare un maggiore confronto con altre realtà associative simili alla nostra e presenti in altre città, su altri territori. Sarebbe importante trovare anche interlocutori in altre parti d’Europa. Sono aspetti importanti ma, in tutta evidenza, sono solo sviluppi ovvi di quanto si sta già facendo. Aggiungo che forse nell’analisi impietosa della situazione politica e sociale che Volere la luna ha fatto al suo inizio e che è ampiamente confermata e drammaticamente accentuata da quanto è accaduto a livello nazionale, europeo e mondiale negli ultimi tempi, bisognerebbe tener conto anche dell’esistenza dei tanti movimenti ambientalisti, giovanili, femministi, territoriali, per i diritti civili e per quelli sociali, sindacali (questi ultimi anche e soprattutto – ahimè – al di fuori delle confederazioni storiche) in Italia, ma anche nel resto d’Europa e negli USA.

La constatazione dell’esistenza di una vasta articolazione di movimenti di opposizione e critica a questo sistema sociale non va intesa, però, come un elemento di consolazione rispetto al quadro buio della nostra analisi. Anzi è, secondo me, proprio il contrario: perché il più grosso problema che da trent’anni non riusciamo ad affrontare è quello di costruire un progetto di società alternativa a quello presente, pur in presenza di una sua crisi profonda e radicale. È anche questo vuoto di proposta che rende frammentati e parziali, diversi e divisi, i tanti, anche generosi e partecipati, movimenti di opposizione e critica al capitalismo sul piano economico e sociale e al liberismo su quello politico e ideologico.

Abbiamo tanti e articolati programmi di riforme economiche e sociali, di modifica dello stile di vita e di consumo in un’ottica rispettosa dell’ambiente, di crescita del ruolo delle donne in tutti i campi sociali, economici e politici, di innovazione e miglioramento della democrazia, di crescita e di liberazione dei diritti civili e di quelli sociali, di salvaguardia del territorio, di inclusione delle diversità, di modalità nuove di abitare e vivere le città e via aggiungendo: ognuno di questi programmi nasce dalla constatazione che il sistema socioeconomico capitalistico e la sua ideologia liberista sono un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi elaborati. Tutti, quindi, sappiamo che nessuno o ben pochi di tali progetti sono concretamente realizzabili all’interno dell’attuale sistema socioeconomico. Ma lì ci si ferma: un altro mondo è possibile, ma nessuno osa delinearne i lineamenti fondamentali. Naturalmente c’è un perché.

Nel secolo scorso, almeno per tutta la sua prima metà, l’altro mondo possibile era il socialismo, quello statalista e centralista, forgiato nel 1917. L’esistenza di quel modello alternativo, pur con tutti i suoi limiti, errori, orrori e tragedie, aveva permesso alla socialdemocrazia europea, nelle sue varie declinazioni, di strappare importanti concessioni al capitalismo e aveva concesso ai Paesi ex coloniali di rivendicare una loro strada autonoma di crescita e sviluppo. Il crollo, probabilmente inevitabile, di quel modello ha azzerato la situazione e scatenato il capitalismo liberista più selvaggio, ma ha anche annullato il ruolo della sinistra, che è diventata afona, priva di identità e di progetto. La terza via di Blair, Clinton, Schröder, D’Alema e altri si è rivelata come una semplice accettazione dei principi del liberismo dilagante e ha affossato ogni possibilità di riflessione critica e di bilancio dell’esperienza storica passata.

Trent’anni di silenzio pesano come macigni oggi sulle nuove generazioni che manifestano e lottano contro il capitalismo, come se non ci fosse una storia alle loro spalle, dalla quale trarre criticamente spunti e riflessioni. Per molti di loro comunismo e nazifascismo sono stati regimi dittatoriali analoghi, come ha affermato lo stesso Parlamento europeo nella sua maggioranza, e le lotte degli anni ’70 in Italia sono solo gli anni di piombo, come ribadiscono banalmente i mass media. Paradossalmente (ma forse non tanto) solo negli USA i movimenti giovanili di opposizione parlano apertamente di socialismo, per indicare un’alternativa allo stato di cose presenti. Lo fanno con un invidiabile pragmatismo, ma anche saltando a pie’ pari un indispensabile bilancio critico della storia del movimento operaio internazionale. Per noi europei le cose sono indubbiamente più complicate e per quelli di noi che sono ormai vecchi diventa urgente e indifferibile promuovere con i giovani un confronto aperto sul tema del socialismo. I giovani di oggi non hanno bisogno di illusioni ingenue sul “sole dell’avvenire”, ma di una “bussola socialista” – come scriveva Erik Olin Wright – che li aiuti a seguire un percorso difficile ma concreto verso un’alternativa possibile.

Mio nonno paterno era un socialista e quando il fascismo andò al potere dovette rifugiarsi a Parigi, dove era già stato come operaio emigrato all’inizio del ‘900. Qualche mese dopo, fu avvicinato da un agente dell’OVRA che gli disse che se fosse rientrato a Torino senza più occuparsi di politica, nessuno lo avrebbe perseguitato. Accettò e rientrò, accolto dalla moglie e dai suoi due figli ancora piccoli: rispettò rigidamente la promessa fatta, chiudendosi in un mutismo sofferto anche in famiglia. Molti anni più tardi, in uno dei nostri consueti litigi politici, dissi a mio padre, che era cresciuto sotto il fascismo, senza nulla sapere delle opinioni politiche del nonno: «Stai zitto, tu che sei stato fascista…». Ancora oggi mi pento di quella frase, ma allora lui, per una volta senza alzare la voce e con molta calma, mi rispose: «Tu non puoi capire cosa vuol dire crescere senza avere alcun riferimento politico e culturale diverso da quello di un regime totalitario». Anche noi vecchi di oggi siamo stati sconfitti, come la generazione di mio nonno, ma il nostro silenzio verso i giovani non ci è stato imposto da nessuno, se non da un’inerzia che dobbiamo superare.
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