UN NATALE DI GUERRA E DI SPERANZA. Per tutti noi: analisi, riflessioni e proposte di Domenico Gallo e Luigi Ferrajoli

68a03d5c-9979-4d4d-9e31-58c2528238f9Costituente Terra, Newsletter n. 103 del 14 dicembre 2022

UN NATALE DI GUERRA E DI SPERANZA

Cari amici,
per la prima volta, dopo molti anni, ci troviamo a celebrare un Natale di guerra. Siamo sgomenti per questa determinazione di tutti gli attori protagonisti a perpetuarla, da Putin che pur dichiara “inevitabile” l’accordo con l’Ucraina e intanto la bombarda, a Zelensky che lo rifiuta sdegnosamente e ora chiede, oltre alle armi, due miliardi di metri cubi di gas per protrarre al suo Paese il lungo suicidio, a Biden che gode del successo del suo Impero, al G7 che infierisce anche da remoto, fino al nostro piccolo governo che assicura le sue armi per la guerra fino a tutto il 2023.
Non si vede come se ne possa uscire; anche la Santa Sede è ora esclusa da una possibile mediazione, per l’errore del Papa che ha addossato crudeltà solo a Russi, Ceceni e Buriati, dopo aver sempre condannato quella di tutti.
Non ci si può rassegnare tuttavia a un sindacalismo della sconfitta. A noi tocca comunque continuare a promuovere l’alternativa politica della pace impegnando nella ricerca di possibili soluzioni questa piccola impresa che è “Costituente Terra”. Per darle impulso convocheremo a breve, pensiamo entro gennaio, la sua assemblea annuale, a cui tutti sono invitati, sia per rinnovare gli organi sociali e approvare il bilancio, sia per avanzare proposte e precisare le nostre prospettive rispetto al fine per il quale questa Associazione è nata: un costituzionalismo mondiale, “perché la storia continui”.
La dura replica della storia, con la perentorietà della guerra in corso, non ci permette di continuare come se nulla fosse, riproponendo illuministicamente le nostre elaborazioni concettuali. Non è pensabile che quegli stessi Stati che ora si stanno dilaniando come lupi rapaci per il dominio del mondo (la “Global domination” di cui già vent’anni fa parlava Zbigniew Brzezinski, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Carter, che però non fu rieletto) si mettano ora attorno a un tavolo e d’amore e d’accordo varino un’unica Costituzione della Terra. Noi, con Ferrajoli, ne avevamo concepito una bozza, che tuttavia non intendeva essere un progetto già definito proposto da Costituente Terra ma, come ha esplicitato lo stesso Ferrajoli, aveva il solo scopo di mostrare che esiste un’alternativa alla selvaggia situazione presente e insieme offrire una base per una concreta discussione.
Si tratta ora di ridisegnare il nostro percorso e gli obiettivi finali, riaprendo un dibattito a tutto campo su quale possa essere un assetto pacifico del mondo, da stabilire sul ripudio della guerra e un rinnovamento del diritto internazionale. Ma perché questo sia un percorso realistico, esso dovrà fondarsi sull’ordinamento già esistente che è quello dell’ONU (rovinosamente assente in questa crisi), e costruirsi su basi pluralistiche (l’armonia delle differenze, dismesso ormai anche il “proselitismo religioso”!), universalistiche e antinazionaliste.
Alla prossima assemblea occorrerà pertanto formulare una proposta politica per l’oggi, e discutere una proposta a più lungo termine in prospettiva antropologica e giuridica. Questa dovrà presupporre il pluralismo delle culture, la diversità, libertà ed eguaglianza delle persone e delle formazioni sociali nelle quali si sviluppano le rispettive identità, e un ordinamento costituzionale locale e internazionale che nella diversità dei reggimenti politici sancisca i diritti fondamentali e istituisca le relative garanzie.
La proposta politica da discutere riguarda la decisione per la fine della guerra russo-atlantica in Europa. Essa non può essere lasciata nelle mani dell’Ucraina e della sua attuale guida sacrificale, né alla discrezionalità delle armi della NATO, non può pretendere né un’umiliazione dell’Ucraina né una resa incondizionata della Russia, dovrà assicurare l’esistenza, l’indipendenza e l’integrazione europea dell’Ucraina e la sicurezza della Russia inclusa in essa la Crimea, nonché statuti concordati con le relative autonomie per i popoli del Donbass.
Quanto al futuro ordine mondiale, esclusa l’aberrazione di un’unica lingua e un unico impero, non potrà essere concepito che come una convivenza di identità diverse, di libera circolazione delle persone, di eguaglianza fondamentale e di pace originaria e realizzata.
Sarebbero questi i temi della nostra prossima assemblea romana, a cui partecipare in presenza o da remoto, aperta a quanti siano iscritti o si iscrivano mediante versamento del contributo associativo, fissato, come indicato nell’Appello istitutivo, nella misura da 0 a 100 euro, da accreditare sul conto BNL intestato a “Costituente Terra”, IBAN IT94X0100503206000000002788.

Nel sito pubblichiamo un articolo di Domenico Gallo [lo riportiamo anche noi di Aladinpensiero, di seguito]: “Come l’Italia ha fomentato le guerre della NATO” e un articolo di Luigi Ferrajoli sulla rivista Giano in cui, già nel 1993, si avanzava la proposta di un costituzionalismo internazionale in alternativa alle spinte verso un imperialismo mondiale.

Con i più cordiali saluti,

www.costituenteterra.it
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COME L’ITALIA HA FOMENTATO LE GUERRE DELLA NATO
14 DICEMBRE 2022 / COSTITUENTE TERRA / LE FRONTIERE DEL DIRITTO /
L’Alleanza atlantica si è arrogata il diritto di guerra con l’intervento in Jugoslavia nel 1999. In Italia c’è voluta anche una crisi di governo

di Domenico Gallo

Pubblichiamo la prefazione di Domenico Gallo al libro “La NATO nei conflitti europei: ex Jugoslavia ieri, Ucraina oggi” (Biagio di Grazia & Delta 3 Edizioni, 2022) del Gen. Biagio di Grazia che ha servito nella NATO ed è stato addetto militare presso l’ambasciata italiana a Belgrado.

Un mondo impazzito.
Nel volgere di sei mesi l’orizzonte di vita dei popoli europei è cambiato bruscamente. Il 24 febbraio 2022 si è fatto buio all’improvviso. Una guerra feroce e catastrofica è scoppiata sul confine orientale dell’Europa, travolgendo i destini di milioni di persone e riverberando i suoi effetti nefasti, a cominciare dall’Europa, in tutto il mondo. La guerra fra l’Ucraina (armata e diretta dalla NATO) e la Russia ha superato i 200 giorni e all’orizzonte non si intravede alcuna possibilità di porre termine ai combattimenti con un accordo di pace. La guerra, le tensioni geostrategiche e la conseguente corsa al riarmo stanno rendendo ancora più acuta la crisi ecologica prodotta dal riscaldamento del pianeta. Le timide misure per la riconversione dell’economia miranti alla riduzione delle emissioni da fonti fossili si stanno trasformando nel loro contrario con la programmata riapertura delle centrali a carbone. La siccità e la crisi energetica prodotta dalla guerra stanno provocando un’impennata dell’inflazione ed una penuria di beni essenziali, destinata ad incidere profondamente sulla vita di milioni di persone. Ci stiamo preparando ad un inverno di razionamenti, di freddo e di fame, come non avveniva dalla Seconda Guerra Mondiale. Dal 1945 gli orizzonti non sono mai stati così cupi. Durante la guerra fredda, anche nei periodi di maggiore tensione, sono sempre entrati in vigore dei meccanismi di raffreddamento, sono scattati dei freni d’emergenza, che adesso non ci sono più. In quel periodo la speranza della distensione non è mai venuta meno, è stata sostenuta da robusti movimenti popolari di massa ed ha consentito a paesi di frontiera come l’Austria, la Svezia e la Finlandia di prosperare mantenendosi indipendenti dai blocchi militari contrapposti. Adesso quei movimenti popolari che si battevano per espellere la guerra dall’orizzonte della politica non ci sono più, i sindacati tacciono, i diversi partiti politici europei fanno a gara ad indossare l’elmetto e a recitare litanie di fedeltà alla NATO e alla sua politica volta ad alimentare la guerra in Ucraina, fino alla vittoria (?). Quello che ci prospettano gli architetti dell’ordine mondiale è un futuro spaventoso, fatto di riarmo, di disastri climatici ed economici, di sfide continue nei confronti della Russia e della Cina, in fondo alle quali l’unica via d’uscita è una nuova guerra mondiale.

E’ questo il volto del nuovo ordine mondiale annunciato dal Presidente degli Stati Uniti, George Bush senior, nel settembre del 1990, preconizzando un nuovo ruolo degli Stati Uniti destinati a modellare l’ordine internazionale grazie alla loro superiorità economica, tecnologica e militare?

L’opinione pubblica internazionale si è resa conto del deteriorarsi irrimediabile delle relazioni internazionali soltanto quando la TV ha mostrato i lampi delle prime esplosioni, ma l’orizzonte di guerra in cui siamo immersi ha avuto una lunga incubazione, è frutto di una politica a guida USA che ha cercato tenacemente la costruzione di un nemico: alla fine, dopo un processo durato oltre venti anni, il nemico si è materializzato e la parola è stata affidata alle bombe.

Superato lo stupore per questo brusco cambiamento degli orizzonti internazionali, dobbiamo chiederci dove questo processo ha avuto inizio e quali sono le cause che lo hanno determinato, quando si è determinata la svolta nella storia che ci ha fatto imboccare il sentiero in discesa che ci ha portato ai drammatici avvenimenti di questi ultimi mesi.

A questi interrogativi, offre una risposta sensata e autorevole il generale Biagio di Grazia, avvalendosi della sua esperienza professionale maturata in Germania nel Comando della Forza di Reazione Rapida della NATO, e poi a Bruxelles, a Zagabria, a Sarajevo e infine a Belgrado, come addetto militare dell’ambasciata italiana.

L’autore è stato testimone privilegiato di quell’inspiegabile evento che è stata la campagna di bombardamento condotta dalla NATO per 78 giorni, diretta a disgregare quello che restava della ex Jugoslavia, “guerra umanitaria”, la cui memoria è stata velocemente rimossa e cancellata dall’immaginario collettivo. Eppure è in quell’evento, come ci avverte il generale di Grazia nella prefazione, che vanno ricercati gli antecedenti di quello che sta succedendo oggi nel teatro di guerra dell’Ucraina.

Con l’intervento armato della NATO contro la Jugoslavia sono state poste le basi per un cambiamento della Storia, è stato introdotto un nuovo paradigma nella vita della Comunità internazionale, di cui adesso raccogliamo i frutti velenosi.

Per comprendere la portata di questo cambiamento della Storia bisogna risalire ad un altro evento che convenzionalmente viene considerato un momento di passaggio da un’epoca ad un’altra: il crollo del muro di Berlino, il 9 novembre 1989.

Il crollo del muro: l’annuncio di una nuova epoca.
Fu una notte di festa straordinaria a Berlino quando i vopos si ritrassero ed una folla sterminata si precipitò a scavalcare quel muro che per 28 anni aveva diviso in due il cielo dei berlinesi; diviso le famiglie; separato i destini di chi si trovava al di là o al di qua del muro. Una barriera luttuosa non solo in senso metaforico, se si considera che furono uccise dalla polizia di frontiera della DDR almeno 133 persone mentre cercavano di superare il muro verso Berlino Ovest; una ferita sanguinosa inferta nel corpo vivo del popolo tedesco che, improvvisamente, spariva nel corso di una sola notte.

Il crollo del muro di Berlino fu lo sbocco di un processo di distensione dovuto allo straordinario rinnovamento delle relazioni internazionali introdotto dalla perestroika quando l’Unione Sovietica guidata da Gorbaciov depose le armi del confronto militare facendo franare la reciprocità violenta dell’equilibrio del terrore e restituendo la libertà di autodeterminazione ai popoli che teneva assoggettati al suo controllo. Il crollo del muro fu vissuto in tutto il mondo come l’epifenomeno che annunciava la fine di un’era, quella della guerra fredda che aveva ingessato l’ordine pubblico mondiale. L’epoca dei muri, del confronto brutale fondato sulla forza, della corsa agli armamenti, dell’equilibrio del terrore franava sotto i nostri occhi come sotto l’effetto del terremoto della storia. Al suo posto nasceva la speranza di una nuova epoca in cui si potesse avverare la profezia della Carta della Nazioni Unite, di un’umanità liberata per sempre dal flagello della guerra, dove le relazioni internazionali ed interne agli Stati fossero regolate dal diritto e dalla giustizia. In quell’epoca furono stipulati accordi sul disarmo impensabili fino a qualche anno prima, furono delegittimate le alleanze militari contrapposte, fino al punto che si arrivò allo scioglimento del patto di Varsavia. In quell’epoca si riducevano in tutto il mondo le spese militari e i popoli confidavano di ricevere i dividendi della pace ristabilita. In questa breve stagione l’Onu, finalmente scongelata, cominciò a svolgere efficacemente il ruolo per il quale era stata istituita e riuscì a risolvere alcune delle più incancrenite situazioni di conflitto (come quelle della Namibia, della Cambogia, del Salvador) e il suo segretario generale Butros Ghali concepì un’ambiziosa Agenda per la pace. In altre parole, si respirava un clima di euforia che vedeva l’umanità finalmente sottratta al ricatto della violenza bellica e incamminata lungo quel binario, prefigurato dalla carta dell’ONU, che portava alla pace attraverso il diritto. Questa speranza di un futuro radioso e pacifico è stata smantellata rapidamente dagli architetti dell’ordine mondiale che hanno agito coerentemente per porre fine al clima di cooperazione pacifica generato dalla fine della guerra fredda.

Le speranze tradite.
Nei circoli occidentali la fine della guerra fredda venne interpretata come una vittoria e il ritiro dell’Unione Sovietica dalla competizione militare come il frutto di una sconfitta determinata dalla forza delle armi dell’Occidente. La lezione che gli architetti dell’ordine mondiale trassero dagli eventi del 1989 fu che dal mondo bipolare si potesse passare all’avvento di un mondo monopolare in cui un’unica superpotenza avrebbe garantito la pace e l’ordine pubblico internazionale. E fu proprio questa l’interpretazione ufficiale di quegli eventi che anche in Italia il ministro degli esteri dell’epoca, Gianni De Michelis, fornì alla camera il 20 marzo 1990. In quest’ottica la logica di potenza non subiva nessun ripensamento, anzi veniva esaltata, la NATO non perdeva la sua ragione di essere, malgrado lo scioglimento del patto di Varsavia, gli strumenti militari non correvano il rischio di essere condizionati dalla spinta globale al disarmo. In questo contesto intervenne il discorso del Presidente Bush che, nel settembre del 1990, reagendo all’invasione irachena del Kuwait annunciò la nascita di un “nuovo ordine mondiale”, basato, non sui principi della convivenza pacifica dettati dalla Carta dell’ONU, bensì sulla capacità della superpotenza americana, non più contrastata dall’Unione Sovietica, di assicurare in tutto il mondo un “ordine” confacente ai propri interessi. Il documento più significativo a questo proposito appare quello pubblicato dal New York Times l’8 Marzo 1992, Defense Planning Guidance for years 1994-1999, redatto da uno staff di funzionari del dipartimento di Stato e del ministero della difesa, presieduto dal sottosegretario alla difesa Paul D. Wolfowitz. Il documento parte dal riconoscimento che gli Stati Uniti, a seguito della scomparsa del blocco sovietico, hanno acquistato lo statuto di superpotenza unica: “tale statuto deve essere perpetuato attraverso un comportamento costruttivo ed una forza militare sufficiente per dissuadere qualunque nazione o qualunque gruppo di nazioni dallo sfidare la supremazia degli Stati Uniti”. Il rapporto si sofferma a lungo sull’esigenza di privilegiare la potenza militare come strumento per garantire la preponderante egemonia internazionale americana. La preoccupazione fondamentale di conservare agli Stati Uniti lo statuto di superpotenza unica non valeva soltanto per gli antichi o i potenziali avversari ma anche per gli alleati: “Noi dobbiamo agire – recita il documento – in vista di impedire l’emergere di un sistema di difesa esclusivamente europeo che potrebbe destabilizzare la NATO.”

La prima guerra del Golfo (16 gennaio-28 febbraio 1991), fu l’occasione per imporre un cambio di passo nelle relazioni internazionali e rilegittimare il ricorso alla violenza bellica come strumento di tutela degli interessi di alcune nazioni e di riaffermare il ruolo egemonico degli Stati Uniti, come unica potenza dotata di una indiscutibile superiorità militare e della volontà di usarla, senza remora alcuna, per perseguire i propri obiettivi.

Tuttavia, l’esperienza della prima guerra del Golfo presentava ancora un tasso di ambiguità perché la coalizione a guida USA aveva agito dopo aver ricevuto il consenso di quasi tutta la Comunità internazionale e del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che aveva autorizzato l’uso della forza per ottenere la liberazione del Kuwait con la Risoluzione 678 del 29 novembre 1990. In quest’esperienza fu osservato che gli USA avevano utilizzato l’ONU come un negozio di abbigliamento giuridico per ammantare di legalità il ricorso al linguaggio della guerra che, nel clima del dopo guerra fredda, veniva pur sempre considerato un tabù da una gran parte dell’opinione pubblica internazionale. Da più parti venne osservato che si trattava di una guerra di “sdoganamento” della guerra.

Questo processo di rilegittimazione della guerra come strumento ordinario della politica di potenza (dell’Occidente), e di delegittimazione dell’ordine giuridico fondato sulla Carta dell’ONU, per realizzarsi compiutamente aveva bisogno di compiere un balzo in avanti. L’occasione propizia fu offerta dal conflitto che portò alla dissoluzione della ex Jugoslavia.

Il retroterra del conflitto
Il generale di Grazia delinea in alcuni capitoli di questo libro gli elementi fondamentali della storia della Jugoslavia ed i passaggi che hanno determinato il crollo della Federazione, la guerra in Bosnia, conclusa con il Trattato di Dayton, e la successiva crisi del Kosovo, mettendo in evidenza la responsabilità degli opposti nazionalismi e l’interazione con gli interventi delle Cancellerie occidentali e della NATO.

Il retroterra dell’attacco della NATO alla Jugoslavia, scattato il 24 marzo 1999, era costituito dal nuovo ruolo strategico militare che gli Stati Uniti avevano concepito per la NATO dopo la fine della guerra fredda e che venne ufficialmente proclamato a Washington il 24 aprile dello stesso anno, proprio mentre veniva sperimentato in vivo.

Pochi ricordano che nell’estate del 1993, durante una delle fasi più oscure del conflitto in Bosnia si verificò un durissimo braccio di ferro fra la NATO (che minacciava di intervenire in Bosnia con bombardamenti contro le forze Serbo-bosniache) e l’UNPROFOR (i caschi blu dell’ONU) che si opponeva con tutte le sue forze ad azioni di bombardamento autonomamente decise dalla NATO. Il braccio di ferro si concluse con la stipula di un memorandum d’intesa, siglato nell’agosto dall’ammiraglio americano Jeremy Borda (Comandante delle operazioni NATO) e dal gen. Francese Jean Cot (Comandante delle forze UNPROFOR) con quale fu stabilito il principio che la NATO non poteva bombardare senza il consenso della missione dell’ONU, sebbene astrattamente autorizzata all’intervento dalle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che avevano stabilito alcune misure interdittive della guerra e coercitive per i belligeranti. E quando la NATO finalmente intervenne nella fase finale della guerra in Bosnia, nella notte fra il 29 ed il 30 agosto del 1995, ciò accadde soltanto per effetto di una legittima (ma inopportuna) richiesta di intervento dell’ONU, che faceva seguito allo sconcerto ed all’indignazione provocata dalla strage del mercato di Sarajevo occorsa il giorno precedente (28 agosto), della quale non fu mai possibile conoscere i responsabili.

Furono proprio le vicende della guerra di Bosnia e la possibilità – e per un limitato verso anche l’esigenza – che la NATO giocasse un ruolo nel contesto delle garanzie della sicurezza internazionale a far sì che venisse messa a punto nell’ambito della NATO una strategia operativa di intervento per la gestione delle crisi, svincolata dai limiti, dai principi e dalle procedure dell’ONU. In questo contesto, per la decisa posizione assunta all’Italia, durante il Governo Dini (1995), fu stabilito che la NATO non aveva legittimità a ricorrere a misure comportanti l’uso della forza senza la preventiva autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, come del resto prevede la Carta delle Nazioni Unite. Addirittura in questo periodo il ministro degli esteri del Governo Dini, Susanna Agnelli, diede platealmente uno schiaffo agli Stati Uniti, vietando – per qualche tempo – che fossero dislocati ad Aviano i cacciabombardieri invisibili Stealth, (che saranno i principali protagonisti della guerra del 99), fino a quando l’Italia non fu inclusa nel Gruppo di Contatto, da cui l’amministrazione americana voleva tenerla fuori. Questa posizione assunta dal Governo Dini fu ereditata dal Governo Prodi e lo stesso Dini, come ministro degli esteri la mantenne in piedi, come posizione ufficiale della Farnesina, in dichiarazioni pubbliche e comunicati stampa, fino al settembre del 1998.

Nel frattempo la crisi della convivenza interetnica fra serbi ed albanesi nel Kosovo si aggravò in quanto qualcuno decise di soffiare sul fuoco del conflitto armato, appoggiando una banda armata (l’UCK) che aveva avuto oscure origini e che fino a quel momento non aveva giocato un ruolo effettivo.

E’ il 1° marzo 1998 la data che segnò l’inizio della guerriglia dell’UCK, con l’uccisione di due poliziotti serbi a Drenica, a cui fece seguito una reazione inconsulta che provocò la morte di 20 albanesi. Nella primavera del 1998 si accesero i fuochi di sporadiche azioni di guerriglia a cui fecero seguito drastiche azioni di repressione.

A questo punto la NATO, sotto la spinta dell’amministrazione americana, decise di intervenire “politicamente” nel conflitto lanciando, con un comunicato del Consiglio atlantico del 28 maggio, un duro monito a Belgrado, in cui lasciava intravedere la possibilità di un intervento militare. Questa posizione, in realtà, più che favorire un self restraint da parte dell’apparato militare jugoslavo, non poteva che incoraggiare l’UCK sulla strada della guerriglia che, seppure perdente sul terreno, in prospettiva diventava vincente, potendo giocare un ruolo di detonatore per l’intervento militare occidentale. I furiosi combattimenti che ne sono seguiti durante l’estate del 98 e la durissima repressione scatenata dalle forze di sicurezza serbe (peraltro ingigantita dalla stampa internazionale con la fabbricazione di notizie false) hanno sollecitato lo sdegno dell’opinione pubblica internazionale, creando l’humus politico favorevole per l’intervento della NATO. C’era, però, un problema da risolvere.

La carta delle Nazioni Unite non consente che gruppi di Stati possano ricorrere all’uso della forza per regolare le crisi internazionali e, conseguentemente, la NATO non aveva alcuna legittimità per effettuare un intervento militare per regolare la crisi del Kosovo, aggredendo una delle parti in conflitto ed alleandosi con l’altra.

Nel corso della primavera, dell’estate e del mese di settembre del 1998, si sviluppò un dibattito sulla possibilità che la NATO intervenisse militarmente nel Kosovo, anche in assenza di una formale autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza. Tale dibattito nascondeva un conflitto politico durissimo fra Stati Uniti e Gran Bretagna (che sostenevano la tesi della legittimità del ricorso alla forza) e l’Italia che continuava ad opporsi. Tale posizione, peraltro, non era affatto scontata all’interno del Governo italiano, in quanto il Ministro della Difesa Beniamino Andreatta, propugnava l’allineamento totale dell’Italia alle esigenze degli Stati Uniti, secondo la tradizionale politica di “fedeltà atlantica”, tuttavia gli equilibri politici di maggioranza escludevano che il Governo Prodi potesse assumere una posizione differente senza rischiare una crisi.

E’ sorta a questo punto per l’Alleato americano l’esigenza di provocare un mutamento di Governo in Italia per ottenere una maggioranza più omogenea alle esigenze belliche della NATO. Poiché non si poteva correre il rischio di nuove elezioni, il cui esito non sarebbe stato prevedibile, è sorta l’esigenza di trovare una maggioranza di ricambio che potesse fare accrescere il tasso di “fedeltà atlantica” dell’Italia, sostituendo Rifondazione comunista con forze più omogenee alla NATO. A questo punto è stato attivato il più autorevole dei terminali della CIA nel sistema politico italiano, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, l’uomo di Gladio. Cossiga, fino all’inizio del 1998 aveva svolto un ruolo di tutore del centro destra e sembrava che volesse contendere a Berlusconi la leadership della destra. Nella primavera del 1998 Cossiga fece una brusca inversione ed, utilizzando la sua influenza politica occulta ma reale sul sistema politico italiano, riuscì a staccare una frazione di deputati e senatori dal centro destra, fondando l’Udeur, con il dichiarato scopo di far nascere una nuova maggioranza politica che sostituisse quella basata sull’alleanza dell’Ulivo più Rifondazione e guidata da Prodi.

Quasi tutti hanno commentato l’operazione Udeur guidata da Cossiga come una manifestazione del peggiore costume trasformistico italiano. Ed invece tale operazione, che si avvaleva della tendenza al trasformismo esistente nel sistema politico italiano, aveva uno specifico significato ed un preciso obiettivo di natura internazionale: quello di provocare un mutamento della posizione internazionale dell’Italia e di ottenere la legittimazione della NATO al ricorso alla guerra, come strumento della politica di potenza americana.

Operazione perfettamente riuscita.

Perso il condizionamento di Rifondazione comunista, indeboliti i Verdi, indebolita la posizione autonomistica di Dini, il 12 ottobre 1998 il Governo Prodi, sebbene sfiduciato, compì l’atto politicamente più rilevante dalla sua nascita, e più gravido di conseguenze per il futuro, accettando l’adesione dell’Italia all’activation order.

In sede politica la svolta dell’Italia sulla liceità del ricorso all’uso della forza da parte della NATO era stata propugnata dall’allora segretario del partito dei DS – l’on. Massimo D’Alema – e dal Sottosegretario alla Difesa, Massimo Brutti, i quali si erano affrettati a dichiarare che la concessione dell’uso delle basi italiane (nella imminente guerra contro la Jugoslavia) costituiva un “atto dovuto” ed un effetto “automatico” della partecipazione italiana alla NATO.

Era ormai alle porte un Governo D’Alema, che nacque il 21 ottobre 1998 con la benedizione di Cossiga e con l’uomo giusto, Carlo Scognamiglio, al posto giusto, il Ministero della Difesa.

Sul Foglio del 4 ottobre 2000 proprio Carlo Scognamiglio, polemizzando con James Rubin, l’ex portavoce di Madeleine Albright, si lasciò sfuggire:

“A Rubin sfugge che in Italia avevamo dovuto cambiare governo proprio per fronteggiare gli impegni politici-militari che si delineavano in Kosovo…Prodi ad ottobre aveva espresso una disponibilità di massima all’uso delle basi italiane, ma per la presenza di Rifondazione nella sua maggioranza non avrebbe mai potuto impegnarsi in azioni militari. Per questo il senatore Cossiga ed io ritenemmo che occorreva un accordo chiaro con l’on. D’Alema” In che cosa consisteva questo accordo? “Due parti. La prima era il rispetto dell’impegno per l’euro (.) la seconda era il vincolo di lealtà alla NATO:l’Italia avrebbe dovuto fare esattamente ciò che la NATO avrebbe deciso di fare.” Questo è esattamente ciò che l’Italia ha fatto.

Le modalità dell’intervento NATO e la partecipazione italiana.
“Il messaggero del Male, coperto dal manto nero intessuto di buio e di morte, si è fermato stamattina alla mia porta, poco prima delle otto.” Così la scrittrice serba Tijana Djerkovic descrive il suo risveglio, la mattina del 24 marzo 1999, con la notizia che nella notte sono iniziati i bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia (Il cielo sopra Belgrado, Besa editrice, 2018).

Nel 1999 dopo oltre 50 anni di pace in un paese europeo è ritornata la guerra; di nuovo, come una volta, le città sono state lacerate dal suono delle sirene, di nuovo nella notte i cieli sono stati solcati dai traccianti della contraerea e i vetri delle finestre infranti dai boati delle esplosioni. Ancora una volta le madri hanno aspettato con terrore la notte scrutando il cielo. I bombardamenti si sono susseguiti ininterrottamente per 78 giorni. Qualche anno dopo il Ministro della Difesa dell’epoca, ci ha informato che: “All’operazione hanno partecipato oltre 900 velivoli appartenenti alle nazioni della NATO. I velivoli NATO hanno effettuato oltre 37.000 sortite, di cui 14.000 di attacco. Sono stati lanciati 23.000 fra missili e bombe” (Carlo Scognamiglio Pasini, La guerra del Kosovo, Rizzoli 2002).

Nell’appendice del libro c’è anche un rapporto dettagliato del contributo del nostro Paese. L’Italia, senza saperlo e senza che ne venisse informato il Parlamento, ha partecipato ai bombardamenti con l’impiego di 50 velivoli dell’aeronautica militare che hanno impiegato “115 missili Harm, 517 bombe GB MK82, 39 bombe a guida IR Opher, 79 bombe a guida laser GBU 16.” Peccato che un rapporto così dettagliato abbia omesso di indicare quanti morti sono stati provocati dalle nostre bombe umanitarie e quanti da quelle dei nostri alleati. L’elenco degli obiettivi colpiti dall’aviazione della NATO (scuole, ospedali, alberghi, stazioni termali e sciistiche, industrie meccaniche, chimiche, agricole, impianti petroliferi, acquedotti, ponti, centrali elettriche, strutture di telecomunicazione, etc.) dimostra – come osserva l’autore in questo libro – che l’azione militare non aveva per oggetto il Kosovo, ma la Jugoslavia, non aveva per oggetto un determinato regime politico, ma un intero popolo. I risultati dell’azione militare si sono tradotti in una punizione collettiva ai danni del popolo serbo. Con la guerra nei Balcani si è realizzata una sperimentazione in vivo del nuovo concetto strategico che la NATO ha proclamato ufficialmente a Washington il 24 aprile 1999 e del pensiero strategico che, a partire dal 1990 ha orientato la politica degli Stati Uniti. Queste scelte strategiche sono state supportate con entusiasmo dal primo ministro inglese, Tony Blair, che rivendicò la legittimità dell’intervento armato – un’azione che fuoriusciva da ogni schema legale – invocando una superiore ragione etica, che non poteva essere giudicata dal diritto. In realtà sul piano politico – come osserva giustamente il generale di Grazia – la guerra non realizzò alcun obiettivo umanitario. Mettendo in ginocchio la Jugoslavia, la NATO agì per staccare il Kosovo dalla Jugoslavia e consegnarlo nella mani di una banda di guerriglieri islamici (l’UCK) che, penetrati nel Kosovo dopo l’accordo di pace sancito dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1244 (10/06/1999), misero in atto massicce vendette contro la popolazione serba, che le forze internazionali della Kfor riuscirono con grande fatica e solo in parte ad arginare.

Una svolta nella Storia.
La sera del 24 marzo 1999, quando si sono levati in volo i bombardieri della NATO e sono partiti i primi missili cruise dalle navi militari americane schierate nell’Adriatico, si è consumato un evento che ha segnato una drammatica rottura dell’ordine internazionale, come delineato dalla Carta delle Nazioni Unite. Un gruppo di potenze, unite sotto la “leadership” degli Stati Uniti, attraverso una avventura bellica, ha aperto una nuova avventura nelle relazioni internazionali, rivendicando, manu militari, il “diritto” della c.d. “ingerenza umanitaria”. In realtà il diritto di regolare unilateralmente le situazioni di crisi internazionale attraverso la coercizione fondata sulla geometrica potenza delle armi occidentali.

Quando il pomeriggio del 24 marzo il Parlamento italiano è stato informato dal Governo che l’azione della NATO era iniziata, i bombardieri erano già in volo, la macchina da guerra si era messa in moto secondo un progetto predisposto da USA e GB e reso operativo da tempo, e la politica non avrebbe potuto fare niente per arrestarla: ormai si era consumato un evento politicamente irreversibile.

Il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli a suo tempo osservò che si trattava di un vero colpo di stato internazionale, volto a sostituire la Nato all’Onu come garante dell’ordine internazionale, descrivendone gli aspetti inaccettabili di illegalità: “Innanzitutto la violazione della Costituzione italiana che all’articolo 11 bandisce la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e all’articolo 78 richiede che la guerra (di difesa) sia deliberata dalle Camere. In secondo luogo la violazione della Carta dell’Onu, che non solo vieta la guerra ma prescrive i “mezzi pacifici” volti “a conseguire la composizione e la soluzione delle controversie internazionali”: a cominciare dal negoziato ad oltranza, che non è stato neppure tentato non potendosi considerare tale l’ultimatum di Rambouillet, proposto sotto la minaccia dei bombardamenti in violazione dell’articolo 52 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati che vieta e dichiara nullo ogni trattato concluso sotto costrizione. In terzo luogo la violazione del Trattato istitutivo della Nato, che configura l’alleanza come esclusivamente difensiva e vincolata alla Carta dell’Onu. In quarto luogo quella dello statuto della Corte penale internazionale approvato a Roma nel luglio scorso, che prevede l’aggressione tra i delitti di competenza della corte. Infine le violazioni delle convenzioni di Ginevra, in base alle quali sono crimini di guerra i bombardamenti delle popolazioni civili, i quali hanno provocato come “danni collaterali” non imprevedibili migliaia di vittime innocenti e – almeno in un caso, il bombardamento della tv serba – l’uccisione intenzionale e rivendicata dalla Nato di undici giornalisti (n.d.r. in realtà 16 persone)”.

“Infine – proseguiva Ferrajoli – la guerra ha riedificato il muro, abbattuto dieci anni fa, che separava l’Europa dal blocco dell’Est, alimentando il nazionalismo e l’antioccidentalismo non solo in Serbia ma anche in Russia e in Cina e uccidendo la credibilità dell’occidente e dei suoi valori democratici. Giacché l’Occidente fa oggi esattamente ciò che ha sempre rimproverato al comunismo sovietico: l’imposizione con la violenza dei propri valori. Ieri l’imposizione con la forza del socialismo, oggi l’imposizione con la forza della democrazia e del rispetto dei diritti umani: vorrebbe dire, a rigore, portare la guerra in ogni angolo del pianeta, inclusi molti paesi occidentali.(.) Dobbiamo allora domandarci se stiamo assistendo a un’esplosione di follia o a una pur folle ma calcolata strategia: l’affermazione delle ragioni della forza su quelle del diritto e la squalificazione dell’Onu e del diritto internazionale, in vista di un nuovo ordine (e disordine) mondiale basato sul dominio non solo economico ma militare delle potenze occidentali. (..) La sola condizione per uscire dal disastro, anche culturale e politico da essa provocato, è che essa sia stigmatizzata e ricordata come una tragica e gravissima colpa. La guerra non riuscirà ad essere un atto costituente di un nuovo ordine/disordine mondiale e il colpo di stato con essa tentato fallirà soltanto se si prenderà atto che essa ha segnato una disfatta morale, giuridica e politica dell’Occidente, riparabile solo con un rinnovato mai più alla guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.” (il Manifesto, 12 giugno 1999).

Un nuovo disordine mondiale.
Purtroppo, nessuno in Occidente ha preso atto della disfatta morale e giuridica rappresentata dalla guerra di aggressione della NATO contro la Jugoslavia, quindi quest’esperienza ha assunto i caratteri di un vero e proprio atto costituente dell’ordine mondiale, che ha messo definitivamente fuori gioco l’ONU ed ha affidato alla forza delle armi la regolazione delle crisi internazionali e la gestione dell’ordine pubblico internazionale. Se si aboliscono le leggi che regolano la convivenza pacifica fra i popoli, se il criterio della convivenza deve essere la legge della giungla, cioè il criterio che quelli che sono più forti prevalgono sui più deboli, allora si pongono le basi per l’innalzamento di nuovi muri e la nascita di nuovi conflitti. Il primo effetto sarà la ripresa della corsa agli armamenti e la sostituzione della cooperazione con il confronto e lo scontro politico-militare. Infatti, proprio nel 1999, in concomitanza non casuale con la guerra contro la Jugoslavia, si verificano due eventi che determineranno il nuovo corso delle relazioni internazionali, che ci ha portato alle drammatiche vicende attuali. La NATO cambia la sua natura di Alleanza meramente difensiva e sottoposta alle decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, formalizzando, nel Summit tenuto a Washington il 23/25 aprile 1999, il nuovo ruolo assunto nei Balcani. Il Summit vara il “nuovo concetto strategico” che consente alla NATO di compiere operazioni al di fuori dell’art. 5 (che sancisce il ricorso alla forza solo come risposta ad un attacco armato nell’esercizio del diritto di difesa collettivo di cui all’art. 51 della Carta ONU). Il secondo evento è la scelta di costruire un nuovo nemico sostituendo la Federazione Russa (e in prospettiva la Cina, la cui ambasciata fu bombardata a Belgrado) al posto della scomparsa Unione Sovietica. La promessa solenne fatta a Gorbacev in occasione dell’unificazione della Germania di non spostare gli armamenti della NATO ad est dell’Elba viene stracciata senza ritegno alcuno. E’ in quel momento che inizia il processo di allargamento ad est della NATO, che il 12 marzo 1999 sancisce l’ingresso di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria. Allargamento che è proseguito fino ad inglobare i paesi ex sovietici e gli ex neutrali, attivando una nuova cortina di ferro che circonda la Russia dall’Artico al mar Nero. Ed è stata proprio la pretesa della NATO di penetrare anche nel territorio della Ucraina, assieme al conflitto etnico fomentato contro la componente russofona della popolazione, la causa principale che ha determinato lo scoppio della guerra, iniziato con l’aggressione della Russia contro l’Ucraina il 24 febbraio del corrente anno. Adesso questo nuovo Ordine/disordine mondiale ci ha portato ad un passo dalla guerra nucleare, che porrebbe fine alla vita dell’Umanità sulla Terra, e ci tiene immersi in una estenuante guerra d’attrito che gli USA hanno intenzione di alimentare fino ad ottenere la disgregazione del “nemico”. E tuttavia è stato osservato che pretendere la disgregazione di una potenza nucleare è un po’ come giocare a scacchi con la morte.

Domenico Gallo
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GOVERNO MONDIALE O DEMOCRAZIA INTERNAZIONALE?
14 DICEMBRE 2022 / COSTITUENTE TERRA / IL PROCESSO COSTITUENTE /
Un articolo del 1993 pubblicato in un dossier della rivista Giano dal titolo “Per un’ONU dell’età globale” in vista di una rifondazione del diritto internazionale dopo la rimozione del muro di Berlino
di Luigi Ferrajoli

Pubblichiamo un articolo del prof. Ferrajoli in cui, già nel 1993, si discutevano le prospettive di un costituzionalismo mondiale dopo la fine dell’età dei blocchi.

[segue]
Ci sono due modi di intendere il futuro dell’Onu e di prospettare la futura integrazione giuridica della comunità internazionale: il primo è quello espresso dalla formula “governo mondiale”; il secondo è quello espresso dalla formula “democrazia internazionale”. Questi due modelli, benché entrambi basati su di una limitazione della sovranità degli Stati, non solo non coincidono, ma possono risultare per molti versi opposti. Il governo mondiale suppone un accentramento delle decisioni in tema di relazioni internazionali presso un vertice mondiale, non necessariamente democratico né necessariamente vincolato da limiti e garanzie. La democrazia internazionale corrisponde invece a un ordinamento basato sul carattere democratico-rappresentativo degli organi sovra-statali e, soprattutto, sulla loro esclusiva funzionalizzazione alla garanzia della pace e dei diritti fondamentali degli uomini e dei popoli.

Io credo che la mancata distinzione tra questi due modelli è fonte di molti equivoci e malintesi, sia a destra che a sinistra. Se per un verso le grandi Potenze perseguono oggi la costruzione di un governo mondiale contrabbandandolo come strumento di pace, per altro verso, nel timore di un governo mondiale di tipo puramente imperialistico, molte forze democratiche guardano con diffidenza all’intero diritto internazionale, svalutandone l’insostituibile valore strategico quale sistema di garanzie.

Di fatto, la situazione attuale della comunità internazionale assomiglia assai più a quella di un governo mondiale, controllato dalle cinque Potenze che siedono in permanenza nel Consiglio di sicurezza dell’Onu e principalmente dagli Stati Uniti, che non a una democrazia internazionale. Ma questa situazione contraddice in maniera vistosa i principi di diritto dettati dalla Carta dell’Onu e dalle diverse dichiarazioni e convenzioni sui diritti umani e sulla pace, i quali esprimono semmai il progetto di una democrazia internazionale di diritto finalizzata alla pace e alla tutela dei diritti fondamentali.

L’obiettivo di qualsiasi movimento per la pace è allora la trasformazione dell’attuale governo mondiale di fatto in una democrazia internazionale, strutturata secondo il paradigma dello Stato costituzionale di diritto già disegnato dalla Carta dell’Onu e fondata, come scrive Fabio Marcelli nel suo intervento introduttivo a questa discussione, sui “principi della solidarietà e dell’autogoverno dal basso, in una prospettiva mondiale al tempo stesso globale e policentrica”. Ciò vuol dire puntare a partire dalle carenze di garanzie poste in evidenza dai fallimenti del passato sulla riabilitazione e sul rafforzamento delle dimensioni universalistiche dell’Onu quali sono espressi, essenzialmente, dai suoi due principali elementi normativi. Il primo di questi elementi è il divieto della guerra, solennemente sancito dal preambolo e dai primi due articoli della Carta dell’Onu, nonché dal suo capitolo VII, ove si prevede la regolazione giuridica del l’uso della forza quale mezzo coercitivo alternativo alla guerra. E questo divieto della guerra il principio costitutivo della giuridicità del nuovo ordinamento internazionale formatosi con la nascita delle Nazioni Unite, Prima dell’Onu questo divieto non esisteva, e perciò non esisteva neppure un ordinamento giuridico internazionale in senso proprio. Lo ius belli era al contrario un elemento essenziale della sovranità dello Stato, e le relazioni tra stati erano ancora quelle sregolate dello stato di natura descritte da Hobbes nel Leviatano, ove la sovranità statale viene configurata come l’equivalente della libertà selvaggia. È con il divieto di guerra introdotto dalla Carta dell’Onu che la comunità internazionale passa dallo stato di natura allo stato civile e si subordina al diritto, divenendo un “ordinamento giuridico” sia pure sommamente imperfetto per la carenza di garanzie idonee ad assicurarne l’effettività. Se è vero che il diritto è per sua natura uno strumento di pace, cioè una tecnica per la soluzione pacifica delle controversie e per la regolazione dell’uso della forza, diritto e guerra sono infatti una contraddizione in termini, mentre diritto e pace si implicano a vicenda: la pace è l’intima essenza del diritto, e la guerra la sua negazione o. quanto meno, il segno e l’effetto della sua assenza nei rapporti tra gli uomini e del loro carattere pregiuridico, sregolato e selvaggio.

Il secondo elemento è la consacrazione dei diritti fondamentali degli uomini e dei popoli quali fonti di legittimazione non più solo politica ma anche giuridica degli ordinamenti statali. Anche questa è una limitazione delle sovranità statali, giacché la Dichiarazione universale del ’48 e poi gli altri patti e risoluzioni in tema di diritti sono ius cogens, cioè diritto immediatamente vincolante per gli stati membri. Una limitazione non solo negativa, come quella prodotta dal divieto di guerra, ma anche positiva: nel senso che gli stati membri sono in base ad essa vincolati alla tutela dei diritti fondamentali, ossia di bisogni e interessi primari degli uomini e dei popoli: il diritto alla vita, le libertà fondamentali di carattere politico e civile, l’habeas corpus e le immunità da torture e da trattamenti disumani e arbitrari, ma anche i diritti economici e sociali, il diritto all’autodeterminazione e quello allo sviluppo. Con due conseguenze. Innanzitutto che oggi il diritto internazionale non tutela più solo gli stati ma anche i popoli e le persone in carne ed ossa, i quali sono divenuti anch’essi, in aggiunta agli stati, soggetti di diritto internazionale. In secondo luogo che i diritti fondamentali hanno un fondamento non più solo nelle costituzioni dei singoli stati, ma anche in quelle carte costituzionali internazionali che sono la Carta dell’Onu e la Dichiarazione universale del ’48, sicché il diritto internazionale è divenuto fonte di regolazione, e criterio di legittimazione e delegittimazione non solo dei rapporti internazionali tra stati ma anche degli ordinamenti interni degli stati e dei rapporti tra gli stati e i loro cittadini.

Ebbene: in forza di questi due elementi normativi, tra loro connessi l’uno come condizione dell’altro, l’Onu è già oggi non solo un’istituzione giuridica internazionale ma anche, come ho detto, un ordinamento giuridico sovra-statale: qualcosa di simile, pur con la diversità di funzioni, a ciò che è lo Stato rispetto all’ordinamento giuridico statale, ove pure convivono norme di fonte statale e non statale; ma anche qualcosa di profondamente diverso dal governo mondiale di fatto che si sta oggi profilando. Purtroppo come ben sappiamo, e come la guerra del Golfo ha drammaticamente evidenziato questi due elementi restano ancora in gran parte sulla carta. Per quanto valido e vincolante, l’ordinamento internazionale è insomma privo di effettività. Ovviamente questo non basta a decretarne il fallimento. E proprio di qualunque ordinamento giuridico un grado più o meno elevato di ineffettività delle norme che regolano l’esercizio dei poteri e un corrispondente grado di illegittimità del loro concreto funzionamento. Basti pensare all’Italia, ove assistiamo da anni (Gladio, stragismo, tentativi di eversione costituzionale dall’alto, collusioni tra mafia e politica. Tangentopoli) a uno sfascio generale della legalità repubblicana. Del resto gli ordinamenti giuridici non nascono a tavolino dall’oggi al domani sulla semplice base di carte statutarie. Essi sono il prodotto di processi storici epocali. E se pensiamo alla lunga, travagliata e non luminosa storia degli Stati nazionali, dobbiamo ammettere che l’ordinamento internazionale è un ordinamento relativamente giovane, del quale sarebbe assurdo pronosticare il fallimento sulla base dei suoi tragici ma certo non definitivi insuccessi.

Se non ha senso abbandonarsi a sterili pessimismi, dobbiamo tuttavia riconoscere che le continue violazioni delle regole fondamentali dell’Onu e del suo stesso ruolo di pace hanno messo allo scoperto la fragilità dei principi, provocata dalla carenza delle garanzie. Ed impone perciò alla riflessione giuridica e politologica l’elaborazione di efficaci garanzie, idonee a riempire le lacune dell’ordinamento internazionale. Ciò che manca al diritto internazionale non sono infatti le norme sostanziali, di cui abbondano la Carta dell’Onu, la Dichiarazione universale del ’48 e le molte altre convenzioni e risoluzioni. Ciò che manca è un adeguato sistema di garanzie capace di assicurarne l’effettività. Si tratta, secondo un’espressione di Spinoza, di “leges imperfectae” perché prive di sanzioni e delle procedure per applicarle. È per questo che la divaricazione tra normatività ed effettività, che negli ordinamenti statali si mantiene entro limiti relativamente accettabili, nell’ordinamento internazionale è massima, per la prevalenza che sempre, a causa della già rilevata mancanza di garanzie, tende ad assumere la forza sul diritto.

Sono dunque queste garanzie che devono essere elaborate e Sotto questo aspetto, condivido pienamente l’impianto dell’intervento di Fabio Marcelli, il quale ha indicato per ultime, tra gli obbiettivi di riforma, le pur necessarie trasformazioni in senso democratico degli organi di governo dell’Onu. Queste trasformazioni, come dirò, sono certamente auspicabili, ma anche in tempi brevi irrealistiche. E sarebbe un errore strategico nella prospettiva della non di un governo mondiale ma di una democrazia internazionale se volendo inseguire queste improbabili riforme tralasciassimo di impegnarci a sostegno delle riforme possibili, e sicuramente più importanti, dirette a garantire le norme già esistenti della Carta dell’Onu e della Dichiarazione universale, poste a tutela della pace e dei diritti fondamentali degli uomini e dei popoli. Occorre, in altre parole, partire dal diritto vigente, evidenziarne le lacune e le violazioni e puntare al loro superamento quale della stessa salvaguardia della credibilità e della legittimità dell’Onu.

In questa prospettiva, il primo ordine di garanzie che va rafforzato riguarda la pace. Se è vero che la pace è la norma fondamentale e la ragion d’essere dell’Onu, qualunque guerra andrebbe configurata come “crimine di diritto internazionale” e rigidamente ripudiata quale mezzo di soluzione delle controversie internazionali. Ma il ripudio della guerra, per essere effettivo, va accompagnato da concrete garanzie di tipo preventivo: la messa al bando degli strumenti della guerra, attraverso convenzioni internazionali che impongano un graduale ma generalizzato disarmo e conferiscano alle armi, la cui unica destinazione è l’uccisione di esseri umani, almeno lo stesso statuto conferito alle sostanze stupefacenti: quello di “beni illeciti”, producibili solo sotto il controllo dell’Onu e per le funzioni di polizia dell’Onu medesima.

Non basta infatti, per superare il virtuale bellum omnium internazionale. l’istituzione di una polizia sovrastatale che tendenzialmente detenga il monopolio della forza armata. Questa è indubbiamente una strada obbligata, espressamente imposta dal capo VII, finora inattuato, della Carta dell’Onu. Ma accanto ad essa, la strada maestra per garantire la pace è il disarmo degli Stati membri. La pace, infatti, sarà garantita non solo e non tanto armando l’Onu, ma soprattutto disarmando gli Stati; se non altro perché le forze attualmente detenute dagli Stati bastano da sole a distruggere molte volte il pianeta, e nessuna forza sovranazionale è da sola sufficiente a domarle; mentre è chiaro che la forza sovranazionale sufficiente a funzioni di polizia potrà essere tanto minore quanto minori saranno gli armamenti di cui disporranno gli Stati. Se il disarmo generalizzato è una prospettiva di lunghissimo periodo, è
invece un’intollerabile lacuna, che occorrerebbe riempire immediatamente, la mancanza di convenzioni internazionali che proibiscano la produzione, il commercio e la detenzione di armi il cui uso è già oggi vietato dal diritto internazionale in materia di guerra: come le armi chimiche, le armi batteriologiche, le bombe a frammentazione, i proiettili esplosivi, le armi incendiarie e in generale quelle che possono causare “sofferenze non necessarie” e delle quali è stato fatto uso massiccio nella guerra del Golfo. E infatti assurdo che la comunità internazionale disponga di un diritto bellico che vieta l’uso di simili armi ma non di convenzioni che ne proibiscano la produzione e il commercio: sarebbe come se della droga fosse proibito solo l’uso ma non anche la produzione o lo smercio. In attesa del disarmo, sarebbero poi ben possibili convenzioni dirette a mettere sotto un effettivo controllo dell’Onu la produzione, il commercio e la detenzione di tutte le armi, onde evitarne quanto meno la vendita a regimi dittatoriali.

Si tratterebbe di due prime e significative tappe nella prospettiva del disarmo generale. Ne risulterebbe, tra l’altro, un risparmio di risorse che potrebbero essere destinate a promuovere lo sviluppo economico dei paesi poveri e a ridurre quel divario tra Nord e Sud che rappresenta oggi il più grave fattore di ingiustizia e di disuguaglianza e la principale minaccia alla pace. Se si considera che la spesa mondiale in armamenti è di circa mille miliardi di dollari l’anno, e che questa cifra è quasi equivalente all’intero debito del terzo mondo, si comprende che se gli Stati semplicemente dimezzassero la produzione di armi, il denaro risparmiato sarebbe sufficiente ad estinguere in due anni l’intero debito estero dei paesi sottosviluppati.

Sul piano istituzionale, una riforma realistica dell’Onu finalizzata alla prospettiva di una democrazia internazionale più che a quella di un governo politico mondiale, e insieme all’attuazione del diritto internazionale esistente più che a improbabili mutamenti nei rapporti di potere in seno agli organi dell’Onu dovrebbe oggi puntare, soprattutto, al rafforzamento delle tecniche e degli organi di garanzia della pace e dei diritti degli uomini e dei popoli nei riguardi loro stessi governi e della comunità internazionale. L’odierna impunità delle violazioni di tali diritti, e perfino del “crimini contro l’umanità”, è infatti l’altra faccia ampiamente documentata dalle recenti sessioni del Tribunale permanente dei popoli sull’impunità in America Latina dell’ineffettività del diritto internazionale; così come il loro accertamento e la loro punizione ne rappresenterebbero la principale garanzia. Si tratta anche qui di colmare una vistosa lacuna dell’ordinamento internazionale attraverso una riforma dell’attuale giurisdizione della Corte internazionale di giustizia idonea a rendere effettivamente giustiziabili le violazioni del diritto e dei diritti da parte degli Stati.

Una simile riforma dovrebbe comportare quattro innovazioni nello statuto della Corte. Innanzitutto l’estensione della sua competenza non solo a tutte le controversie tra Stati ma anche ai giudizi di responsabilità in materia di guerre, di minacce alla pace e di violazioni dei diritti fondamentali. In secondo luogo l’affermazione del carattere obbligatorio della sua giurisdizione, oggi subordinata, secondo lo schema dei giudizi arbitrali, alla preventiva accettazione da parte degli Stati. In terzo luogo il riconoscimento della legittimazione ad agire di fronte alla Corte, oggi limitata soltanto agli Stati, anche alle singole persone, che sono poi i titolari dei diritti fondamentali violati di solito dagli Stati, o quanto meno alle centinaia di organizzazioni non governative istituite a tutela dei diritti dell’uomo. In quarto luogo, l’introduzione della responsabilità personale dei governanti per i crimini di diritto internazionale dai crimini di guerra al crimine della guerra e ai crimini di lesa umanità che dovrebbero finalmente essere codificati, conformemente al principio di legalità penale, in un codice penale internazionale.

Dopo il crollo dei muri e la fine dell’equilibrio del terrore, i tempi sembrano oggi maturi per simili riforme. Un’istanza di tutela contro i crimini internazionali è stata recentemente espressa dalla decisione, adottata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu con la risoluzione 808, di istituire un tribunale penale internazionale per i crimini commessi da tutte le parti del conflitto nella ex Jugoslavia. Si tratta evidentemente di una assai discutibile, dato che comporta l’istituzione di un tribunale speciale ex post rispetto ai crimini che sarà chiamato a giudicare. Ma essa segnala la consapevolezza del carattere ormai indifferibile, per il futuro, di un’effettiva e credibile giurisdizione internazionale; un primo passo, forse, nella direzione della sua istituzione quale funzione permanente, assistita da tutte le garanzie penali e processuali richieste come condizioni di legittimità di un organo giudiziario.

Ovviamente, in una prospettiva di lungo termine, anche la rifondazione democratica degli organi di governo dell’Onu rappresenta un obiettivo indispensabile di riforma. Dobbiamo tuttavia riconoscere che questa è la riforma più difficile e più improbabile. Al massimo, ciò che è prevedibile è oggi un allargamento del Consiglio di sicurezza ad altre “grandi Potenze”, come la Germania o il Giappone, a conferma della volontà di governo del mondo da parte dei paesi più ricchi. Ma è inverosimile che l’attuale gestione dell’Onu come strumento delle grandi Potenze, e in particolare degli Stati Uniti, venga nei tempi brevi abbandonata. Anche sotto questo aspetto si conferma la priorità, rispetto alla riforma degli organi di governo, di quella della Corte internazionale di giustizia: storicamente, la nascita del paradigma dello Stato di diritto quale limitazione e controllo sul potere ha preceduto, anche nella formazione dello Stato moderno, quella della democrazia politica.

Per quanto lontana, la prospettiva di una riforma democratica dell’Onu basata sul principio di uguaglianza passa ovviamente attraverso la soppressione della posizione di privilegio oggi detenuta nel Consiglio di sicurezza dalle cinque Potenze vincitrici della seconda guerra mondiale e l’instaurazione di un sistema egualitario di relazioni tra i popoli. Mi sembrano in proposito tutte apprezzabili le indicazioni formulate in tale direzione da Fabio Marcelli: l’eliminazione del Consiglio di sicurezza o quanto meno della figura di membro permanente con diritto di veto in esso riservata alle grandi Potenze; il rafforzamento dei poteri dell’Assemblea generale; un nuovo spazio e un maggior coinvolgimento nella vita dell’Onu delle organizzazioni non governative, nonché di movimenti di liberazione; l’istituzione infine di una seconda Assemblea generale rappresentativa dei popoli ed eletta a suffragio universale, o quanto meno dai parlamenti nazionali secondo quote proporzionali alle popolazioni, da affiancarsi all’attuale assemblea generale degli Stati

D’altra parte, se è vero che l’obiettivo principale non è la formazione di un governo mondiale sia pure democratico, ma la costruzione di una democrazia internazionale, la struttura dell’ordinamento internazionale non dovrà comunque ricalcare quella centralistica e verticale degli Stati nazionali, e fondarsi invece con un capovolgimento della tradizionale gerarchia delle fonti sul primato delle fonti periferiche rispetto a quelle centrali, eccezion fatta per le carte dei diritti che dovranno comunque essere rigidamente sopraordinate a qualsiasi altra fonte di produzione, sia nazionale che internazionale.

Si tratta insomma di realizzare un ordine internazionale di tipo non verticale ma orizzontale, nel quale le autonomie dei popoli siano massimamente garantite e agli organi di governo dell’Onu siano affidate esclusivamente le funzioni rese oggi indispensabili dall’attuale interdipendenza del mondo: il ricorso alla forza contro le minacce di guerra e le violazioni dei diritti fondamentali accertate dalla Corte di giustizia; la tutela dell’ambiente: le politiche di sviluppo e la redistribuzione delle risorse a tutela dei diritti sociali di tutti gli uomini e di tutti i popoli. Ma si tratta pur sempre di prospettive di lungo periodo, che per quanto realisticamente ancorate alle promesse no mantenute dell’attuale diritto internazionale, richiederanno l’impegno comune di tutte le forze democratiche del mondo.

Da GIANO N. 13 – gennaio – aprile 1993

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