Sa Die de sa Sardigna

e5917b96-45a0-4b91-ab3d-ccd911c43a9aNella ricorrenza del 28 aprile, riportiamo un paragrafo. comprendente lo “scommiato” dei piemontesi dalla Sardegna, tratto dal libro di Andrea Pubusa su Giommaria Angioy, edito da Arkadia. Ringraziamo Andrea Pubusa per l’autorizzazione alla pubblicazione.

Le cinque domande: la carta rivendicativa dei ceti moderati-parassitari

In seguito alla cacciata dei francesi dalla Sardegna il re Vittorio Amedeo III, si congratulò con i sardi, ma non soddisfò le aspettative delle forze che avevano assicurato, armi in pugno, il respingimento sul campo. Ci furono sì alcuni riconoscimenti ma non verso i sardi che avevano combattuto. Il contegno irritante del rappresentante del re in Sardegna fece accrescere il malcontento popolare nei confronti del governo piemontese.
Il 29 aprile 1793 i rappresentanti degli Stamenti si riunirono per presentare una formale petizione al re.
Le richieste, dette “cinque domande” perché formulate in cinque punti, costituiscono una piattaforma politica, secondo molti studiosi a forte connotazioni autonomistiche; esse prevedevano:

1) il ripristino della convocazione decennale dei Parlamenti, interrotta dal 1699;
2) la riconferma degli antichi privilegi, soppressi pian piano dai Savoia nonostante il Trattato di Londra;
3) la concessione ai Sardi di tutte le cariche, ad eccezione della vicereale e di alcuni vescovadi;
4) la creazione di un Consiglio di Stato, a fianco del viceré, per la gestione degli affari ordinari;
5) la creazione in Torino di un Ministero per gli Affari di Sardegna.

Sulle cinque domande molto si è discusso e si discute. Molti vedono in essa la Carta dell’autonomismo sardo e danno rilievo alla contrapposizione con la Dominante piemontese. Vi è stato chi (Umberto Cardia) ha visto in esse il riemergere “dell’idea e del sentimento di autonomia“, la cui continuità, in Sardegna, è da ricercarsi in quella ideale Carta dei diritti che, “proposta alle soglie del ‘500, dopo la fine della resistenza degli Arborensi, da quel momento continua a proporsi tenacemente in tutti i parlamenti e fuori dei parlamenti, nell’epoca spagnole e in quella del dominio piemontese…. Per svalutarla la storiografia savoiarda e quella che ne ha accolto acriticamente l’eredità anche in Sardegna hanno continuato e continuano ancor oggi a parlare, a proposito dei Cinque punti della Carta dei diritti della Sardegna del 1793-94, di rivendicazioni cetuali e corporativi, dirette alla restaurazione di antichi anacronistici rivilegi o espressione di una famelica, egoistica scalata agli impieghi civili e militari”. E soggiunge: “Che nel compromesso raggiunto tra classi e ceti sociali dell’isola confluissero interessi concreti, personali e di gruppo, di natura economica e sociale non pare potersi mettere in dubbio. Ma è altrettanto vero che gli interessi particolaristici venivano, in quel momento come in altri del passato (per esempio nel periodo 1664-68 della lotta antispagnola), sentiti e proposti come l’espressione degli interessi generali dell’intera collettività“.

Questa posizione trova poi una base giuridica nel dibattito sviluppatosi sul concetto e il valore delle leggi fondamentali (Birocchi). Si muoveva dal loro carattere pattizio, perché avevano formato oggetto di trattati internazionali e si giungeva alla conclusione ch’esse erano immodificabuki unilaterlamente. Prima la pace fra gli aragonesi e gli arborensi con cui la Sardegna passava alla Spagna e poi con gli accordi di Vienna e il Trattato di Londra del 1718 che la trasferiva ai Savoia. Il Trattato disponeva (art. X) la rimessione del possesso dell’isola al re sabaudo con l’intera sovranità mentre i piivilegi degli abitanti del Regno “seront conservée comme ils en ont jouis sous la dominatio de Sa Majesté Impèriale et Catholique“. Ed effettivamente Vittorio Amedeo II insediandosi nel Regnum Sardiniae s’impegno a rispettare solennemente “leges, privilegia et statuta” nella stessa forma in uso nella dominazione precedente. Ora questi obblighi nascono non da atti del Regno, ma da trattati internazionali e si traducono nel riconoscimento di uno statuto speciale di autonomia, ossia nel mantenimento di esso quale era venuto enucleandosi prima delle cessione dell’isola ai Savoia. L’intangibilità del vincolo così assunto dal re sabaudo è indiscutibile, anche perché garantita dalle potenze firmatarie dei trattati. Non c’è dubbio che questa ricostruzione sul piano giuridico formale è ineccepibile, il Regnum aveva istituzioni e leggi non disponibili dal re sabaudo, e, dunque, non si può negare ch’essa mettesse la Sardegna al riparo da incursioni legislative o peggio di fatto del re, tuttavia – come empre in queste questioni – bisogna vederne il contenuto. Qualche anno dopo Francesco d’Austria d’Este, dopo un suo viaggio in Sardegna, formulava una Descrizione della Sardegna, e nel capitolo sugli Stamenti, elencava le pricnipali leggi fondamentali del Regnum. Ne indicava dodici, ra le prime, la terza, prevede il sistema feudale, con annessa la riserva della potestà giuridizionale di prima istanza in capo ai baroni e in seconda istanza ai magistrati regi. Non mancavano i prilegi nobiliari e quelli ecclesiastici (Birocchi). Prende risalto in questo contesto, per gli effetti che avrà nel c.c. triennio rivoluzionario sardo, l’inserimento fra le leggi fondamentali della permanenza della titolarità in capo a baroni spagnoli dei feudi sardi, a garanzia dei quali si ergeva la Spagna, che si era addirittura garantita la reversibilità della Sardegna in assenza di discendenti maschi dei re sabaudi.
L’individuazione delle leggi fondamentali del Regno, pur con tutta la buona volontà, rende difficile parlare di Carta dei diritti e non sembra frutto del desiderio di svalutazione parlare “a proposito dei Cinque punti della Carta dei diritti della Sardegna del 1793-94, di rivendicazioni cetuali e corporativi, dirette alla restaurazione di antichi anacronistici privilegi o espressione di una famelica, egoistica scalata agli impieghi civili e militari” (Cardia). L’individuazione delle leggi fondamentali recepite nelle cinque domande svela anche il contenuto del “compromesso raggiunto tra classi e ceti sociali dell’isola”, ci svela quali “interessi concreti, personali e di gruppo, di natura economica e sociale” vi siano confluiti. Si ripete: il sistema feudale, i privilegi dei nobili e del clero. Se è, come è, così, si può affermare “che gli interessi particolaristici venivano, in quel momento, […] sentiti e proposti come l’espressione degli interessi generali dell’intera collettività“? Certo ogni gruppo dominante scambia i propri per interessi generali. Ma il sistema feudale e i diritti dei baroni ricomprendono quelli dei vassalli? E in quel particolare momento storico li ricomprendevano se è vero come è vero che le campagne sopratutto nel Nord Sardegna erano in grande fermento contro quel sistema e quei diritti? Il compromesso, dunque, riguardava feudatari, nobili, clero e ceti professionali urbani con la rivendicazione della privativa degli impieghi, ma escludeva due dei protagonisti di quel tormentato periodo: i vassali e il mondo delle campagne e gli artigiani. Guarda caso i ceti che danno vita alla rivoluzione dal basso in quegli anni. Di più gli interessi di questi ceti sociali sono incompatibili con i privilegi feudali e nobiliari e in larga misura anche con quella parte dell’intellettualità delle professioni intimamente legata a quelli. La domanda di privativa degli impieghi è compatibile con gli interessi dei ceti subalterni solo in riferimento all’intellettualità culturalmente materialmente affrancata dal sistema feudale e nobiliare. Di per sé non contrasta con gli interessi degli artigiani, e più in generale con le esigenze dei ceti popolari urbani, e neppure con quelli dei vassalli. I punti di contrasto sono gli altri, in particolare i privilegi.
Non si è lontani dal vero, dunque, se si afferma che il compromesso alla base delle cinque domande vede come protagonisti i feudatari disponibili a “limitare” i loro privilegi a quelli previsti all’origine dalla carte di concessione, il clero e il ceto professionale subalterno ad essi. Ne rimangono fuori gli intellettuali indipendenti, i vassalli e i ceti artigianali e popolari delle città, anche se su questi ultimi i primi esercitano una certa egemonia.
Una conferma del carattere parziale e classista delle cinque domande viene dalle dieci domande degli artigiani e dei ceti popolari cagliaritano. Al culmine della mobilitazione popolare, tre giorni dopo l’uccisione del Pitzolo e l’arresto di Paliaccio, destinato alla stessa fine per mano dei capipolo, viene consegnata al Parlamento una Rappresentanza del popolo, con dieci richieste secche: I) accrescerela forza delle milizie cittadine; II) rifiutare l’arruivo di truppe provenienti dalla terraferma; III) togliere i cannoni (che il marchese della Planargia voleva utilizzare contro i sobborghi) dal Castello e collocarli fra le batterie della Maruna; IV) sequestrare le carte del Pitzolo e del Paliaccio; V) ripoporre la proposta del Consiglio di Stato; VI) sottrarre la materia hiuridica all’intendenza di finanza e trasferirla alla Reale Udienza; VII) avanzare di nuovo la richiesta della orivativa degli impieghi per i nazionali sardi, senza alcuna limitazione; VIII) reiterare la domanda dell’istituzione di un ministero per gli affari della Sardegna, con eslusione di qualunque altro ufficio che a Torino si occupasse dei problemi isolani; IX) nominare come ambasciatori degli stamenti Gianfranco Simon (abate Salvenero e Cea, membro delle sstamento ecclesiastico ed esponente della componente dei novatori) e Ludovico Baylle (giurista, stiorico, bibliofilo e antiquario di provata fede antiassolutistica) affinché ripresentassero al sovrano le domande del regno; X) vietare tassativamente a chiunque di condannare i protagonisti delle giornate del 29 aprile e del 6 luglio. Il documento chiedeva infine una rigorosa vigilanza “sulla condotta delle persone poco affette alla Nazione” e una richiesta da parte degli stamenti di una sollecita convocazione delle Corti per delberare dulle domande.
Non c’è dubbio che in queste richieste vi sia la pressione per una radicalizzazione della battaglia neu ruguardi del governo di Torino (Francioni), ma ciò che colpisce è quanto resta in esse delle cinque domande o meglio quanto di queste viene omesso. Ad una veloce analisi si può dire che alcune rivendicazioni sono strettamente connesse alle sollevazioni in corso: l’amnistia per i protagonisti di quei fatti, l’incrmento della milizia urbana, non si dimentichi comandata da Vincenzo Sulis, anch’esso protagonista di quelle giornate, e il rifiuto di armate provenienti dal Piemonte. Si voleva cioè scongiurare non solo una repressione giudiziaria, ma anche un intervento contro il popolo delle forze armate, sul preupposto che le milizie cittadine non avrebbero svolto quella funzione, avendo esse stesse contribuito alla conquista del Castello e allo scommiato dei Piemontesi e del vicerè. Delle cinque domande venicani reiterate quelle non sontrastanti con gli interessi popolari: la privativa degli uffici pubblici ai sardi, la creazione del Consiglio di Stato a Cagliari e il Ministero per gli affari della Sardegna a Torino. Nella stessa direzione si può considerare la richista di sottrazzione del contenzioso spettante all’intendenza di finanza per affidarlo alla Reale Udienza. Uno spostamento razionale di uno spezzone importante di attività giurisdizionale dall’amministrazione alla Magistratura ordinaria (una riforma che andrà curiosamente a buon fine solo in epoca recente in ossequio allaCostituzione repubblicana che preclude funzioni giurisdizionali aad organi amministrativi). Manca invece nelle domande di parte popolare la conferma della seconda domanda, quella contenente la richiesta di salvaguardia dei privilegi garantiti dalle leggi fondamentali del Regno, ossia il mantenimento del sistema feudale e dei privilegi nobiliari, previsti nel Trattato di Londra. Credere che questa sia una dimenticanza e non una omissione discussa e deliberata è una forzatura. No, bisogna ammettere che la parte popolare di Cagliari si batteva per l’autonomia del regno, ma non per i privilegi dei baroni e dei nobili, che mentre il vento della Grande Rivoluzione spazzava l’Europa non risparmiava di spandere, se non adesioni esplicite, positive suggestioni anche nelle forze più combattive della nostra isola. E, infatti, se i popolani cagliaritani non erano, almeno nelle componenti più agguerrite, dalla parte dei barones, certo non erano con loro i vassalli che anzi erano in fermento in tutta l’isola e da alcuni anni davano vita a lotte di grande forza e di indubbia intelligenza.
Come sempre accade in qusate vicende, la situazione era più complessa perché ogni ceto era attraversato da divisioni interne. E così fra i baroni c’era l’ala integralista, rappresentata principalmente dagli spagnoli e da quelli del Capo di Sopra che difendevano lo stato di cose esistente, compresi gli abusi, ossia le pretese non fondate sulle concessioni originarie, mentre ve ne erano altri, specie nel Capo di Sotto, che erano disponibli a rinunciare ai privilegi non concessi ma introdotti con la prepotenza. Fra gli ecclesiastici c’era poi il basso clero che faceva lega coi vassalli e fu uno dei soggetti che indirizzò e guidò le rivendicazioni insieme all’intellettualità indipendente, che si distingueva da quella delle professioni, parte della quale era legata ai feudatari per via delle lucrose cause feudali. Ma fra gli stessi artigiani, i sanculotti sardi, erano attraversati da divisioni. In una lettera del 6 giugno 1795, ossia un mese prima dell’uccisione di Pitzolo e di Paliaccio, avendo conoscenza di ciò che bolliva in pentola, “i maggiorali degli argentieri. di Sant’Erasmo, dei cavatori, dei bottai, dei vasellai, e mattonieri, dei fabbri ferrai, dei pescatori, dei faegnami, dei calzolai, e degli ortolani, prendevano rispoutamente posizione contro le voci di sommossa, i libelli eversivi, i discorsi di incitamento al tumulto ed i pressi esorbitanti stabiliti, secondo gli estensori frlla missiva, da alcuni artigiani nella vendita dei prodotti” (Francioni). Insomma, c’erano settori della componente più combattiva e decisa, che mettevano le mani avanti e si chiamavano fuori dalla mobilitazione, manifestando adesione alle posizioni moderate eistenti negli stamenti e negli organi di governo.
Questa situazione frammentata spiega l’altalenante andamento delle lotte dal 1794 al 1976 e il tragico sbocco repressivo degli anni successivi.
Si obietta che nel ‘93 sardo è ben individuabile uno spirito nazionale, ed è vero, ma di quale nazione? Di quella che faceva dire a Luigi XVI davanti al Parlamento di Parigi il 19 novembre 1787 “que le roi est souverain de la Nation et ne fait qu’un avec elle” o è quella contenuta nella risposta che il 14 febbraio 1790 l’assemblea gli risponde con la seguente apostrofe rivolta al popolo francese: “La nation c’est vous; la loi c’est encore vous; le roi n’est que le gardien de la loi”. Ora non sembra azzardato pensare che nelle 5 domande i proponenti pensassero ad una “nazione” simile quella che aveva in testa Luigi, mentre nelle compnenti popolari più agguerrite delle città e delle campagne e in una parte dell’intellettualità sarda protagonista del triennio 93/96 andava certamente formandosi e consolidandosi l’idea di nazione enucleata pochi anni prima dall’assemblea francese.
Tornando alle cinque domande, gli Stamenti decisero di mandare a Torino una delegazione di sei membri, due per ogni Stamenti, incaricata di presentare e illustrare al sovrano le rivendicazioni. I sei rappresentanti partirono per Torino divisi in due gruppi: il primo si imbarcò il 29 giugno da Porto Torres ed era composta dal rappresentante dello Stamento militare Girolamo Pitzolo e dal rappresentante dello Stamento reale Antonio Sircana; il secondo partì da Cagliari il 18 luglio e ne facevano parte i rappresentanti dello Stamento ecclesiastico Pietro Maria Sisternes e il vescovo di Ales Michele Aymerich, il rappresentante dello Stamento reale Giuseppe Ramasso e il rappresentante dello Stamento militare Domenico Simon.
Il 4 settembre tutta la delegazione si riunì a Torino, ma il re Vittorio Amedeo III era impegnato nella guerra contro la Francia presso il quartier generale a Tenda; perciò non li ricevette subito e dispose, con un regio biglietto spedito al vicerè, la sospensione delle sedute degli Stamenti. Il viceré Balbiano non consegnò subito agli Stamenti il biglietto regio riguardante l’ordine di chiusura delle sedute stamentarie in quanto prima voleva prima assicurarsi che il Parlamento sardo votasse il donativo. Dopo il voto sul donativo il vicerè comunicò ai deputati degli Stamenti la chiusura delle sessioni, che venne accolta con molto disappunto, sebbene tutti e tre gli Stamenti alla fine abbiano obbedito all’ordine del sovrano.
A Torino l’ambasciata stamentaria fu ricevuta dal re solamente tre mesi dopo il suo arrivo e per l’intercessione del cardinale Costa d’Avignano, arcivescovo di Torino. Il re accolse così i deputati sardi e comunicò loro di voler fare esaminare le cinque domande da una commissione, presieduta proprio dall’arcivescovo. In effetti la discussione si accese sul punto che maggiormente interessava la rappresentanza sarda: la domanda del privilegio delle mitre e degli impieghi. Il dibattito fu vivace. Si prospettò alla commissione il pericolo di un sommovimento in caso di risposta contraria, perché ritenuto ingiusto e ontrario ai privilegi del Regno. Don Domenico Simon, ch’era uno storico oltre che un valente giurista, non mancò di richiamare l’origine della pretesa: nientemeno che la pace conslusa il 31 agosto del 1386 fra Pietro IV d’Aragona e gli ambasciatori di Eleonora d’Arborea. Fu lì che il re di Spagna assunse l’obbligo di accordare ai sardi il privilegio degli impieghi. Ma da parte della commissione si eccepì che nel fare quella concessione “non si voleva però astringere, nè legare il suo potere che dovea essere libero“; insomma “lo Senyor Rey […] non se streyneria com no “vulla ligar qui den esser franch“, non volle legare ciò che doveva essere libero. ( pag. 53 Scano). Insomma la risposta, salva un’apertutra sul Consiglio di Stato, fu negativa su tutto il fronte e sopratutto sul privilegio degli impieghi, ch’era ciò che più interessava. L’affronto sostanziale fu poi accompgnato da uno sgarbo formale, ma non meno grave. Il Ministro Graneri comunicò la rispsta direttamente agli stamenti, senza averla prima trasmessa ai rappresentanti.
La risposta negativa e lo sgarbo suscitarono il malcontento generale. Fu così che maturò l’idea della cacciata dei piemontesi dall’isola. Il vicerè per bloccare ogni manifestazione popolare sul nasce ebbe la pessima idea di ordinare l’arresto dell’Avv, Vincenzo Cabras e del genero avv. Efizio Pintor ch’erano stati i maggiori ispiratori delle cinque domande anche perché erano particolarmente interessati ad una: il privilegio degli impieghi. Fu così che la popolazione insorse e in breve invase il palazzo reale e disarmò i soldati e le guardie. Vincenzo Sulis, capo carismatico dei miliziani, prese il controllo militare del Castello. In base alle leggi fondamentali del regno, non potendo il vicerè e il comandante delle armi esercitare le loro funzioni, la Reale Udienza assunse immediatamente le redini del governo come nel 1668 dopo l’uccisione del viverè Marchese di Camarassa. I piemontesi furono tutti arrestati e rinchiusi in vari conventi. Il vicerè e il reggente fu concesso di stare nel palazzo reale in stato di arresto. Al segretario Valsecchi, distintosi per la sua ottusità, non fu concesso neanche questo riguardo e fu ronchiuso nella Torre dell’Aquila.
La Reale Udienza, data la situazione straordinaria, decise in buona sostanza di riunirsi in permanenza, così anche Giommaria Angioy fu della partita. Le riunioni, aperte al popolo, presero subito decisioni inportanti; la distribuzione di pane al popolo e alle milizie, il pronto imbarco dei piemontesi, ad eccezione dell’arcivescovo per rispetto e di alcuni funzionari come ostaggi fino al rientro da Torino dei deputati sardi. Lo scommiato del viceré e degli altri piemontesi avvenne la mattina del 30 cosìcché la Reale Udienza nella seduta del pomeriggio poteva annunziare che “si era eseguita l’imbarcazione del balio Balbiano e del Generale Le Flecher accompagnati da vari membri dei tre stamenti e da altre persone ragguardevoli del popolo con tutto silenzio e decenza“. (Scano, pag. 60). Ed è proprio questa compostezza che dimostra “la serità e la sincerità dei promotori e la maturità del popolo alla soluzione dei problemi cittadini (Scano). In realtà, prova un altro elemento rilevante, e cioè che la maggioranza stamentaria e la Reale Udienza avevano pienamente in mano la situazione, riuscendo a gestire con autorebolezza una situazione del tutto eccezionale, nientemeno che l’arresto e l’espulsione del vicerè, sull’onda di una sollevazione popolare. Il popolo era padrone della piazza, ma non dello sbocco da dare all’azione del novimento. Quanto ai protagonisti il Manno annovera fra i promotori anche quella magagna dell’Angioy, ma non fornisce prove. In realtà, l’uomo di Bono si occupa della sua coltivazione di cotone, della fabbrica delle berrette, nella quale aveva investito forti somme, ma sui fatti della primavera incide soltanto dalla sua postazione di membro della Reale Udienza, insomma in modo impersonale, concorrendo alle deliberazioni di un organo collettivo.
________________________________
Eventi consigliati
——————————————
Venerdì 28 aprile 2023
Sa Die de sa Sardigna
sa-die-loghetto-univ
TORRAMUS A CAMMINARE PO SA DIE BENIDORA, di Salvatore Cubeddu su Fondazione Sardinia.
template2-01
foto-locandina-sa-die-2023-300x213
——————————————-
Sabato 29 aprile 2023
50c93ca1-aac1-4e07-a0e4-46f843d996aa
———————————————-
Lunedì 1° maggio 2023
primo-maggio-2023-santeficio-a-ca
—–
3c29c6b1-93ad-4aef-9d65-80fa3b468f28
————————————-

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>