Verso il baratro – Difendiamo la Costituzione

f7186f23-aa17-47cd-af69-66f402df157fRipudiare la pace e giocare a scacchi con la morte
08-05-2023 – Domenico Gallo su Volerelaluna.
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L’annunzio di pace della Resistenza è stato fatto proprio dai Costituenti che, con votazione quasi unanime, hanno decretato la cancellazione dello jus ad bellum dalle prerogative della sovranità espellendo la guerra, non dalla storia (non avrebbero potuto), ma almeno dall’ordinamento giuridico. Qui la Costituzione opera un’innovazione decisiva rispetto allo Statuto albertino, invadendo il campo della politica estera, che le Costituzioni dell’Ottocento avevano sempre considerato dominio riservato del sovrano. E lo fa gettando sul piatto il peso di valori e princìpi (il ripudio della guerra e la costruzione della pace e la giustizia fra le Nazioni) di grande spessore politico e morale, attraverso i quali viene costruita l’identità della Repubblica, il volto dell’Italia nelle relazioni internazionali. Non a caso nel testo dell’art. 11 compare il termine “Italia”, per indicare che il ripudio della guerra è un bene originario che appartiene allo Stato-comunità, di cui lo Stato-apparato non può disporre. L’apertura alla Comunità internazionale viene sancita stabilendo la supremazia del diritto internazionale generale sull’ordinamento interno («L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» art. 10) e consentendo le limitazioni di sovranità necessarie «ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» (art. 11). È stato proprio questo principio che ha costituito la porta attraverso la quale l’Italia è entrata in Europa e l’Europa è entrata in Italia attraverso la costruzione della Comunità/Unione Europea. Tuttavia le limitazioni di sovranità, anche se possono raggiungere livelli molto intensi, espropriando il Parlamento del potere di adottare le norme di legge riservate alla legislazione comunitaria, non possono scalfire il nucleo duro della Costituzione, quello che non può essere neppure sottoposto al potere di revisione costituzionale, vale a dire i princìpi fondamentali e i diritti inalienabili della persona umana (Corte costituzionale, 19 novembre 1987, n. 399). Il ripudio della guerra è riconosciuto dalla dottrina giuridica come uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale ed è quindi annoverabile tra quelli che prevalgono su ogni eventuale vincolo internazionale, da qualsiasi fonte provenga (trattato, decisione di organi internazionali di cui facciamo parte, Comunità europea). Come tale dovrebbe se del caso essere garantito, se violato, dalla giurisdizione costituzionale e non può essere oggetto di revisione costituzionale.

L’art. 11 della Costituzione è una disposizione complessa: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». È formata da tre proposizioni collegate all’interno dello stesso periodo. Essa contiene una norma di scopo (che vincola la Repubblica italiana a perseguire la pace e la giustizia fra le Nazioni) e tre norme strumentali (il ripudio della guerra, l’accettazione di limitazioni di sovranità finalizzate alla pace e alla giustizia e il favore per le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo). Il ripudio della guerra, come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, non è separabile dall’impegno per la pace e la giustizia fra le Nazioni, o meglio la costruzione di un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni presuppone il ripudio della guerra, in conformità allo Statuto delle Nazioni Unite che obbliga gli Stati membri ad astenersi dall’uso e dalla minaccia dell’uso della forza.

Sebbene sia intimamente legato all’identità dell’Italia, il principio pacifista di cui all’art. 11 è andato incontro a un progressivo deperimento, di pari passo con il progressivo imbarbarimento delle relazioni internazionali. Seguendo una naturale tendenza a giustificare i fatti e ad allinearsi alle scelte prevalse per opera dei poteri reali, scrittori, politici e giuristi hanno banalizzato sempre di più il principio pacifista, fino ad ipotizzare la “decostituzionalizzazione” delle norme sulle relazioni internazionali (Motzo). Con la prima guerra del Golfo (1991) si è cominciato a separare il ripudio della guerra dal resto della disposizione, leggendo il fine di favorire le organizzazioni internazionali come prevalente sul ripudio della guerra, e la guerra stessa è stata mascherata come operazione di “polizia internazionale”. Dopo lo scoppio della guerra, iniziata il 24 febbraio dello scorso anno con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, è stato tirato in ballo il principio pacifista, letto alla luce dell’art. 51 dello Statuto ONU, che riconosce il diritto naturale di autotutela, individuale e collettiva, nel caso in cui abbia luogo un attacco armato contro uno Stato, e dell’art. 52 della Costituzione, che pone la difesa della Patria come unica eccezione al ripudio della guerra. Quando l’Italia ha deciso di rompere la neutralità e inviare le armi all’Ucraina, molti giuristi, come l’ex Presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, si sono levati per darci l’interpretazione giusta del principio pacifista e spiegarci che la partecipazione indiretta dell’Italia alla guerra è consentita, se non costituisce addirittura un obbligo costituzionale. Peccato che quando la NATO ha aggredito l’ex Jugoslavia nel 1999, bombardandola per 78 giorni, coloro che adesso impugnano l’art. 11 per legittimare le armi italiane, sono rimasti assolutamente silenti, hanno steso un velo pietoso sul principio pacifista, dimenticandosi persino della sua esistenza nel dibattito pubblico. Del resto, il Governo dell’epoca ha nascosto accuratamente la partecipazione dell’Italia alle missioni di bombardamento sulla Serbia. Soltanto qualche anno dopo il Ministro della Difesa dell’epoca, ci ha informato del contributo del nostro paese alla guerra. L’Italia ha partecipato ai bombardamenti con l’utilizzo di 50 velivoli dell’aeronautica militare che hanno impiegato «115 missili Harm, 517 bombe GB MK82, 39 bombe a guida IR Opher, 79 bombe a guida laser GBU 16» (così Carlo Scognamiglio Pasini, La guerra del Kosovo, Rizzoli 2002). Peccato che un rapporto così dettagliato abbia omesso di indicare quanti morti sono stati provocati dalle nostre bombe umanitarie e quanti da quelle dei nostri alleati.

Da quando è iniziata la tragedia della guerra il 24 febbraio, non è esploso soltanto un conflitto fondato sulla violenza delle armi, è dilagato in tutt’Europa lo spirito nefasto della guerra, si è materializzata l’immagine del nemico ed è iniziata una mobilitazione bellica della comunicazione, della cultura, delle coscienze. Dalla condanna unanime, secca e senza appello dell’aggressione russa all’Ucraina, si è passati velocemente all’acritica accettazione della logica della guerra. Di fronte a questo disastro, segno tangibile del fallimento della politica di sicurezza e cooperazione in Europa, le principali forze politiche, non solo in Italia, con il conforto del fuoco di sbarramento unanime dei mass media, hanno assunto il linguaggio della guerra e si sono esercitate in una guerra delle parole contro il nemico. Lo spirito di guerra comporta una divisione manichea dell’umanità, per cui tutto il male sta dalla parte del nemico e tutto il bene dall’altra. Il dissenso non è tollerato perché giova al nemico. La narrazione ufficiale della guerra, imposta come pensiero unico è quella dello scontro di civiltà, dei regimi autocratici che odiano la democrazia e vogliono distruggerla.

La guerra non si combatte solo con le armi, da noi si combatte soprattutto con le parole della politica e dei media. Così l’ANPI, Associazione italiana dei partigiani, colpevole di non essersi accodata al coro bellico, viene tradotta dal Corriere della Sera in Associazione Nazionale Putiniani d’Italia. L’ANPI è fastidiosa perché tramanda il patrimonio morale della resistenza, ci ricorda il principio costituzionale del ripudio della guerra, una petizione di principio che Galli della Loggia non sapeva se qualificare «più bizzarra o più patetica», osservando sul primo numero di Limes (1993) che la norma sul ripudio della guerra: «cerca di cancellare il dato storico di ovvia evidenza che vede da sempre la guerra come il fuoco concettuale e pratico della politica internazionale […]. È come dire l’Italia ripudia l’esistenza dell’ossigeno». La favola della guerra come scontro fra la Democrazia e l’Autocrazia, ha come posta l’obiettivo di sdoganare la guerra come strumento ordinario e necessario della politica e quindi di ripudiare il ripudio della guerra: la guerra come ossigeno dei popoli, secondo Galli della Loggia.

Ovviamente non possiamo ignorare, il «diritto naturale di autotutela nel caso abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite», riconosciuto dall’art. 51 della Carta dell’ONU. Lo Statuto dell’ONU riconosce il diritto di resistenza con le armi a fronte di un’aggressione in atto, ma ciò non legittima una guerra senza fine e senza limiti. Infatti il diritto di resistenza è valido «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». In questo caso, in mancanza di un intervento autoritativo del Consiglio di Sicurezza, tutti gli attori internazionali, a cominciare dai contendenti, devono attivarsi per restaurare la pace, poiché la guerra – secondo il Preambolo della Carta – resta, pur sempre un flagello che procura indicibili afflizioni all’umanità. Invece noi sappiamo (l’ha rivelato l’ex premier israeliano Bennet) che, dopo nemmeno due settimane dall’inizio del conflitto, il 5 marzo le parti stavano per concludere un accordo di pace. Tant’è vero che il 16 marzo 2022 il Financial Times svelava il piano di pace in 15 punti che le parti avevano concordato nel corso dei negoziati russo-ucraini in Turchia. Ebbene quella possibilità di restaurare la pace nella regione è stata sventata dal veto di Biden e Johnson, che hanno istigato l’Ucraina a respingere ogni mediazione, incoraggiandola a puntare sulla sconfitta militare della Russia, realizzabile con il massiccio sostegno finanziario, militare e di intelligence di USA, GB, UE e di altri paesi occidentali.

Dal 17 marzo 2022, il conflitto ha perso la natura di una resistenza legittima dell’Ucraina a un’aggressione altrui, ed è diventata una guerra in cui un’alleanza di oltre 30 Stati cerca di infliggere una batosta militare alla Russia, utilizzando il sangue degli ucraini. Una resistenza militare a un’aggressione si è trasformata in una guerra di posizione, come la Prima guerra mondiale, in cui i belligeranti cercano di distruggersi a vicenda. Eppure la Prima guerra mondiale dovrebbe averci insegnato che, a fronte di un conflitto così violento, spietato e prolungato nel tempo, non esiste la “vittoria”, perché una tale guerra è un male in sé, è un evento diabolico che produce sofferenze indicibili a tutte le parti in conflitto, che nessun obiettivo politico può giustificare. La pretesa della NATO, dell’UE e degli altri paesi della Santa alleanza occidentale di fornire un crescendo di aiuti militari all’Ucraina per consentirle di vincere rapidamente la guerra ha come unico sbocco la continuazione di una strage insensata e senza fine. Ciononostante ci stiamo muovendo verso un’intensificazione dello scontro militare. Gli ucraini prevedono il lancio di una controffensiva di primavera con l’obiettivo di travolgere le forze d’occupazione russe e di recuperare tutti i territori persi nel 2014, ivi compresa la Crimea, che da 9 anni è una Repubblica autonoma inserita nella Federazione russa. Stiamo fornendo l’Ucraina di sistemi d’arma sempre più performanti, ma se le forze armate ucraine dovessero dilagare in Crimea, insidiando la base della marina russa a Sebastopoli, chi ci può assicurare che la Russia si arrenderà, e accetterà di essere smembrata, senza porre mano all’arsenale nucleare? Pretendere di sconfiggere ed umiliare una superpotenza dotata di 6.000 testate nucleari è come giocare a scacchi con la morte. Senza volerlo e senza rendercene conto ci stiamo avviando sulla via per Harmageddon. Secondo l’Apocalisse gli spiriti maligni partoriti dalla Bestia andarono dai Re di tutta la terra per radunarli «per la battaglia del gran giorno del Dio onnipotente». Essi radunarono i Re nel luogo che in ebraico si chiama Harmageddon (Apocalisse, 16,1). L’apocalisse segnerà la fine della storia, ma noi vogliamo fermamente che la storia continui. Per arrestare questa marcia verso Harmageddon, la cosa più urgente è fermare il conflitto in Ucraina, spegnere l’incendio prima che si estenda al resto del mondo.
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CHE FARE?
Dopo il 25 aprile in difesa della Costituzione. Un appello

08-05-2023 – Su Volerelaluna.

Il 78° anniversario della Liberazione dal nazifascismo si è svolto, quest’anno, a sei mesi di distanza dall’insediamento del governo più di destra della storia dell’Italia repubblicana. Il Governo Meloni, pur non rappresentando la maggioranza degli italiani (ma solo il 43% dei votanti e il 26% degli elettori), si è legittimamente insediato alla guida del nostro Paese grazie alla combinazione perversa di due fattori: un fattore istituzionale, rappresentato dall’iniqua quota maggioritaria prevista dalla pessima legge elettorale vigente, e un fattore politico, determinato dalla divisione e dalle ambiguità del cosiddetto “campo progressista” a fronte di una sostanziale unità del “campo reazionario”.

Tutti i primi atti del Governo Meloni e della maggioranza parlamentare che lo sostiene rivelano – pur tra pasticci e correzioni successive, dovute a dilettantismo, contraddizioni interne alla maggioranza o a veti europei – un disegno di restaurazione autoritaria sul piano socio-economico, istituzionale e culturale, che punta, più o meno esplicitamente, a stravolgere la nostra Costituzione: dalla scelta dei Presidenti di Camera e Senato, ai discorsi programmatici della Presidente del Consiglio e alle continue indifendibili esternazioni dei ministri Valditara, Piantedosi, Lollobrigida e del Presidente La Russa; dal decreto di regolamentazione delle ONG per ostacolarne le attività di salvataggio dei migranti alle mai chiarite responsabilità del drammatico naufragio di Cutro e al successivo decreto che, lungi dal prevenire analoghe tragedie e dal colpire i veri trafficanti, punta a restringere i criteri di assegnazione della protezione speciale; dal decreto anti-rave alla dichiarazione dello stato di emergenza per gli sbarchi; dalla manovra di bilancio al Documento di Economia e Finanza (DEF), che riducono la spesa per la sanità e per l’istruzione.

La Presidente del Consiglio ha ribadito più volte come obiettivo prioritario di questa legislatura una forma di presidenzialismo plebiscitario, che per sua natura tende a subordinare al potere esecutivo il potere del Parlamento e il potere giudiziario. Non a caso la riforma della giustizia prefigurata dal ministro Carlo Nordio tende a smantellare le garanzie di autonomia e indipendenza della magistratura, per non parlare del grave abbassamento della guardia sul contrasto alla mafia e alla corruzione, conseguente al ridimensionamento delle intercettazioni, al nuovo codice degli appalti, alla disincentivazione dei collaboratori di giustizia e alla cancellazione dei reati commessi dai colletti bianchi, a riprova di un falso “garantismo” utilizzato strumentalmente in difesa delle classi dirigenti. Le norme antimafia, conquistate negli anni a caro prezzo, dopo gli omicidi e le stragi mafiose dei nostri martiri, vanno difese e applicate nel rispetto dell’art. 27 della Costituzione («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»), e qualsiasi riforma della giustizia non deve intaccare il delicato equilibrio previsto nel titolo IV della Costituzione, che nel complesso garantisce l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere e lo svolgimento di un “giusto processo”. D’altra parte la riforma fiscale prefigurata dalla flat tax contraddice il principio costituzionale di progressività del sistema tributario, esasperando le già crescenti disuguaglianze sociali, acuite dall’irragionevole cancellazione del “reddito di cittadinanza” e dagli incentivi all’evasione fiscale (condoni e innalzamento del tetto all’uso del contante); mentre il regionalismo differenziato che chiede maggiori risorse e maggiori poteri per le regioni più ricche e più forti, accentua le disuguaglianze territoriali tra Nord e Sud del Paese, rompe il modello universalistico e solidaristico del welfare, che secondo il dettato costituzionale dovrebbe garantire “pari dignità sociale” (sanità, istruzione, lavoro, sicurezza sociale) per tutti i cittadini.

Inoltre le suddette politiche sull’immigrazione stravolgono anche i diritti umani fondamentali, quindi non solo dei cittadini italiani ma anche degli stranieri e dei migranti, per i quali la Costituzione prevede «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», oltre che il rispetto delle norme e dei trattati internazionali. A completare il quadro, il progetto meloniano di un “europeismo conservatore”, condizionato, per un verso, dal sovranismo nazionalista condiviso con i suoi alleati del Gruppo di Visegrad (il sostegno italiano all’Ungheria che discrimina le persone Lgbtq ne è un indicatore), e, per l’altro, dalla totale subordinazione al Patto Atlantico e agli USA, contraddice lo spirito della Costituzione, che «ripudia la guerra» e «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» (cioè tipo l’ONU e l’UE, ma non tipo la NATO). Ma sul punto, per la verità, non si può non rilevare che il problema della dubbia compatibilità con l’art. 11 della Costituzione della partecipazione dell’Italia agli “interventi armati a fini umanitari” (Kosovo, 1999), alle guerre di difesa “globale” (Afghanistan, 2001) o “preventiva” (Irak, 2003), ed oggi all’invio di armi all’Ucraina (che si difende legittimamente dall’aggressione russa), non riguarda certamente solo l’attuale governo di destra, ma anche quelli di diverso colore politico che l’hanno preceduto.

Questo disegno complessivo di stravolgimento della Costituzione mette in pericolo la nostra democrazia. Il rischio non ci pare quello di un ritorno al fascismo storico, anche se Giorgia Meloni ed altri esponenti di spicco di Fratelli d’Italia – partito che rivendica l’eredità del MSI – non sembrano aver fatto, fino in fondo, i conti con la storia di quel partito e con i suoi intrecci col neofascismo eversivo, che ha indiscutibilmente svolto un ruolo importante in quel magma di servizi deviati italiani e stranieri, massoneria, mafie e referenti istituzionali e politici che ha dato vita alla “strategia della tensione” che ha insanguinato l’Italia, con il precedente di Portella della Ginestra nel 1947, da piazza Fontana fino alle stragi del ’92-’93. Ma il rischio concreto che corriamo oggi è quello di una trasformazione strisciante del nostro sistema democratico in senso autoritario, in una “democratura” simile a quella polacca o ungherese. Come ha scritto il costituzionalista Gaetano Azzariti, «la destra al potere dà seguito alla sua storia e l’accoppiata elezione diretta del Presidente della Repubblica (obiettivo perseguito sin dal tempo del MSI) e autonomia differenziata (versione temperata delle tendenze secessioniste della originaria Lega bossiana) rappresenta il naturale e decisivo traguardo».

Per queste ragioni riteniamo che le forze democratiche e progressiste, già da tempo divise e in crisi identitaria, debbano convergere nella battaglia di opposizione a questo disegno. L’elezione diretta di un uomo o di una donna solo/a al comando, sia nella versione presidenzialista (USA) che in quella semipresidenzialista (Francia), ha già dimostrato la sua fragilità democratica di fronte alle tendenze populiste e nazionaliste del “trumpismo” o del “lepenismo”. Così come l’idea che l’obiettivo della governabilità e della stabilità dei governi possa essere raggiunto, secondo i sistemi elettorali maggioritari, a scapito della rappresentatività dei parlamenti, si è già rivelata fallimentare non solo nell’ormai lunga transizione italiana, successiva alla crisi della “prima repubblica”, ma persino nel consolidato “modello Westminster” britannico. Se a queste considerazioni di merito, aggiungiamo il fatto che il governo Meloni vorrebbe fare dei cambiamenti così importanti della Costituzione, quali la forma di governo e la forma di Stato, in un Parlamento così poco rappresentativo, magari con l’appoggio di qualche pezzo dell’opposizione (la proposta del Sindaco d’Italia di Azione-Italia Viva già lo prefigura), per tentare di raccattare la maggioranza dei due terzi ed evitare il ricorso al referendum popolare, l’allarme non dovrebbe essere sottovalutato da nessun sincero democratico.

Ma è importante sottolineare che non si tratta di una battaglia puramente difensiva. Nello scorso settembre, durante la campagna elettorale, nella Lettera aperta ai delusi dalla politica della sinistra si auspicava che «le forze progressiste, nonostante le attuali divisioni, dovranno combattere una battaglia comune non solo per la difesa della Costituzione ma per una sua piena attuazione, per lo sviluppo di una democrazia progressiva che rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale consenta la realizzazione di un’effettiva uguaglianza dei cittadini». Anche noi riteniamo, come ha detto Liliana Segre nel discorso del 13 ottobre al Senato, che «la Costituzione è perfettibile e può essere emendata (come essa stessa prevede all’art. 138), ma […] se le energie che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione – peraltro con risultati modesti e talora peggiorativi – fossero state invece impiegate per attuarla, il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice». E condividiamo l’appello rivolto dopo la sconfitta elettorale a tutte le forze di sinistra e di progresso, da un gruppo di elettrici ed elettori di differenti culture, storie politiche e civili (tra cui Rosy Bindi, Vannino Chiti, Domenico De Masi, Gad Lerner, Tomaso Montanari, Giulia Rodano ecc.) per proporre di «assumere quale comune stella polare, ideale e programmatica, l’ancoraggio ai valori della Costituzione, la dignità del lavoro, la giustizia sociale e ambientale, la pace e il disarmo, la lotta contro le disuguaglianze, la cittadinanza dei ‘nuovi italiani’. Convinti come siamo che astensione ed esito del voto sono frutto di un divario profondo tra la vivacità del paese e la sua traduzione nella politica organizzata, consideriamo urgente fornire un solido riferimento politico alle istanze serie e radicali di cambiamento che vengono espresse da tante realtà civiche e sociali, in particolare delle donne e dei giovani».

Per tutte queste ragioni, da semplici cittadini, il 25 aprile abbiamo manifestato con l’ANPI, l’ARCI e la CGIL per la difesa e l’attuazione della nostra Costituzione nata dalla resistenza antifascista. E, adesso, vogliamo rivolgere un appello a tutti coloro che condividono lo spirito e i contenuti di questo documento perché contribuiscano alla realizzazione di momenti di confronto e convergenza tra tutte le espressioni dell’associazionismo e del volontariato laico e religioso, che già operano nei territori, per attuare concretamente i valori della Carta. Crediamo, infatti, che questa battaglia non potrà svolgersi soltanto nelle istituzioni, ma dovrà essere sostenuta da una partecipazione dal basso, dal conflitto sociale indispensabile a mantenere e sviluppare quel modello di democrazia progressiva configurato dalla nostra Costituzione, per farla vivere nei territori, partendo dalle “esperienze esemplari”, dalle “buone pratiche” già esistenti per diffonderle e generalizzarle ovunque sia possibile.

Palermo, maggio 2023

Giovanni Abbagnato, Leo Alagna, Riccardo Alessandro, Marina Allotta, Mario Azzolini Tommaso Baris, Giovanni Bellia, Augusto Cavadi, Beppe Cipolla, Gaetano Cipolla, Maria Adele Cipolla, Enrico Colajanni, Mari D’Agostino, Raffaella De Pasquale, Alessandra Dino, Vincenzo Gervasi, Filippo Grippi, Antonella Leto, Jesse Marsh, Ernesto Melluso, Giancarlo Minaldi, Francesco Petruzzella, Antonio Riolo, Claudio Riolo, Rosana Rizzo, Pippo Russo, Gaetano Sabatino, Alessandra Sciurba, Bonaventura Zizzo

Prime adesioni: Enzo Abbinanti, Monica Bacchi, Giuseppe Cabibbo, Rosanna Cataldo, Salvatore Cavaleri, Salvatore Cernigliaro, Rosanna Cataldo, Saverio Cipriano, Amalia Collisani, Giacomo Costadura, Andrea Cozzo, Clara Denaro, Pippo Di Falco, Daniela Dioguardi, Gabriella Filippazzo, Marina Gaziano, Maximo Ismael Ghioldi, Alfonso Maurizio Iacono, Fabio Lanfranca, Anna Leone, Renato Li Donni, Santo Lombino, Liborio Martorana, Alfio Mastropaolo, Calogero Messina, Clara Monroy, Daniela Musumeci, Giuseppe Nicolaci, Katia Orlando, Leoluca Orlando, Antonina Palazzotto, Manoela Patti, Dino Paternostro, Leonardo Aldo Penna, Vincenzo Pinello, Carmelo Piparo, Marco Pomar, Anna Puglisi, Rosario Rappa, Rossella Reyes, Giuseppe Riccio, Mario Ridulfo, Elio Rindone, Maria Concetta Rindone, Francesca Riolo, Francesco Paolo Riolo, Umberto Santino, Salvatore Saporito, Gioacchino Scaduto, Adele Sciacca, Giuseppe Silvestri, Nicola Sinopoli, Armando Sorrentino, Dario Sulis, Sandra Teroni, Pino Toro, Chiara Venturella, Roberto Zampardi, Franco Meloni.

Per sottoscrivere il documento inviare una mail a difesaattuazionecostituzione9@gmail.com
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