Luca Ricolfi: un paradossale “simpaticone”…

disperazione

di Gonario Francesco Sedda*

In un editoriale agostano [Il paradosso del nostro benessere, La Stampa, 12 agosto 2014] Luca Ricolfi mostra il suo disaccordo riguardo a due modi di commentare i ricorrenti dati negativi a conferma della persistenza e dell’aggravamento della crisi economico-sociale in Italia.
Vi è un gruppo di studiosi che «si limitano a riproporre le proprie ricette» (che poi sono quelle liberiste delle oligarchie europee) ammonendo M. Renzi, colpevole di non svolgere i compiti a casa né per l’Europa né “per i nostri figli”. Lo giudica «un filone un po’ ripetitivo», poco interessante; anche se egli stesso solo cinque giorni prima si è inserito nel gruppo con un altro editoriale [Il costo delle riforme mancate, La Stampa, 7 agosto 2014]. E non gli è bastato, per esserne fuori, il ricorso al debole espediente retorico di voler andare oltre le recriminazioni e gli impietosi “io l’avevo detto”, provando a lasciare in pace Renzi per soffermarsi invece sull’ambiente in cui opera, sull’acqua «in cui il pesce Renzi nuota». Si sa infatti che il pane e l’acqua fanno la zuppa; e se non è zuppa … è pane bagnato. Matteo Renzi e l’ambiente in cui opera sono in rapporto sia di reciproca convenienza sia di corresponsabilità.
Vi è un altro gruppo di studiosi che a L. Ricolfi sembra più interessante. Il suggerimento che viene da questo filone è che «in fondo, il problema siamo noi italiani», che «nelle condizioni attuali non ci sia politica economica che possa trarre l’Italia fuori delle secche su cui si è arenata», che «una vera ripresa richiederebbe una ripartenza della domanda interna» e che «una tale ripartenza sarebbe impossibile senza un ritorno di ottimismo, fiducia, speranza, entusiasmo, coraggio morale». A proposito Ricolfi fa riferimento parziale a un editoriale di Mario Deaglio [Perché siamo gli ultimi della classe, La Stampa, 7 agosto 2014] in cui si può leggere che «la recessione passerà quando passerà la paura degli italiani. Le famiglie italiane – nel loro complesso e tenendo conto di situazioni di crescente disagio reale – hanno le risorse per dare una forte spinta positiva alla domanda interna effettuando i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere. Preferiscono invece aumentare i risparmi perché influenzate dal taglio negativo delle notizie economiche». Affermazioni di questo tipo non solo possono lasciare perplesso Luca Ricolfi in quanto «per risolvere un problema, vengono invocati atteggiamenti morali e stati d’animo», ma brillano per il loro carattere tautologico (vogliono spiegare qualcosa servendosi di qualcosa che a sua volta dipende da ciò che si vorrebbe spiegare) e per il loro prevalente taglio evocativo che non precisa e non distingue.
La recessione passerà quando passerà la paura degli italiani? È come dire che la recessione passerà quando passerà … la recessione! E sembrerebbe anche che la recessione sia cominciata a causa della paura degli italiani e dunque venendo meno tale causa verrebbe meno la sua spiacevole conseguenza: basterebbe farsi coraggio! Ma se incomincia a piovere e uno cerca un riparo per paura di bagnarsi, è per questa paura che la pioggerella diventerà un diluvio? E se continua a piovere e a uno passa la paura di bagnarsi, smetterà di piovere se abbandonerà il rifugio?
La cosiddetta paura degli italiani sarebbe uguale per qualsiasi italiano senza distinzione? A ognuno la stessa quantità e intensità di paura? Beh, quando si tratta di paura, viva l’egualitarismo! Se invece la paura non fosse distribuita in modo
egualitario, a quale parte degli italiani spetterebbe l’onore di dare il maggior contributo per uscire dalla recessione?
In che senso si tiene conto del “crescente disagio reale”? E poi: crescente negli ultimi mesi o nell’ultimo anno o negli ultimi anni o nell’ultimo decennio/ventennio? Il tempo in cui è cresciuto il “disagio reale” (cioè l’impoverimento e la povertà) è importante per decidere se le famiglie “nel complesso” «hanno le risorse per dare una forte spinta positiva alla domanda interna». La realtà è che solo “una parte delle famiglie italiane” ha le risorse per consumare di più e, se non lo fa, per darne una spiegazione non si invochi solo una generica paura. È un’insolenza sostenere che le famiglie in “crescente disagio reale” (cioè impoverite o povere), da molti anni con il problema di sbarcare la famosa quarta settimana del mese, non effettuino «i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere» perché hanno paura o «preferiscono invece aumentare i risparmi … influenzate dal taglio negativo delle notizie economiche». Ah, la pancia vuota e tuttavia sensibile al “taglio negativo delle notizie economiche”! Si capisce comunque chi in tempo di crisi può aumentare i risparmi e accumulare ricchezza.
Torniamo a Luca Ricolfi che basa la sua «diffidenza per i rimedi idealistici […] su due osservazioni di fatto, entrambe legate in qualche modo al benessere raggiunto dagli italiani».
1. «La prima osservazione è che, nonostante la crisi e nonostante una parte delle famiglie italiane (circa 1 su 5) versi in gravi difficoltà, sia il nostro tenore di vita sia la nostra ricchezza familiare accumulata (fra le maggiori al mondo), restano abbastanza elevate da tenere molto bassa l’offerta di lavoro degli italiani (non così quella degli immigrati, che sono l’unico gruppo sociale rilevante che continua a guadagnare posti di lavoro). Detto con le crude parole di un amico napoletano, «finché c’è pasta e vongole» difficile pensare che gli italiani si risveglino dal loro torpore, tanto più in una situazione in cui la rapacità del fisco erode inesorabilmente i guadagni di tutti».
Quella “parte delle famiglie italiane (circa 1 su 5)” che versa in gravi difficoltà è così piccola da essere liquidata con un “nonostante”? I numeri 1 e 5 sono piccoli e possono trarre in inganno; ma se solo passiamo alle percentuali è il 20% delle famiglie. Secondo il Censimento del 2011 le famiglie italiane sono 24.611.766 con una composizione media pari a 2,4 e dunque sarebbero 4.922.353 le famiglie “in gravi difficoltà” (cioè povere) e 12.305.883 gli italiani poveri che le compongono pari al 20,7% dell’intera popolazione. Anche senza chiamare in causa quella parte di italiani che versano in difficoltà “meno gravi” (cioè si sono impoveriti e continuano a impoverirsi) si tratta di dati che dovrebbero suggerire prudenza e rispetto nel parlare di tenore di vita e ricchezza familiare che «restano abbastanza alte».
La ricchezza accumulata (fra le maggiori del mondo) non è neppure un’unica riserva comune a cui gli italiani “senza distinzione” possano attingere secondo le necessità. Quella ricchezza sta in tasche separate e non comunicanti. Ed è concentrata in poche tasche. Per il 2008 la Banca d’Italia osservava: «La distribuzione della ricchezza è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione: molte famiglie detengono livelli modesti o nulli di ricchezza mentre all’opposto poche dispongono di una ricchezza elevata […] la metà più povera delle famiglie italiane deteneva il 10 per cento della ricchezza totale, mentre il 10 per cento più ricco deteneva il 44 per cento della ricchezza complessiva».
Ma a parte il problema dell’iniqua distribuzione della ricchezza, l’argomento paradossale (fuori da una normale logica e contro il senso comune) secondo cui sarebbe il tenore di vita e la ricchezza familiare accumulata degli italiani – restando abbastanza alta “nonostante” la crisi – a tenere molto bassa la loro offerta di lavoro è un argomento inconsistente, è il frutto del delirio ideologico di Luca Ricolfi più che un’osservazione di fatto. Se quella affermazione fosse vera non sarebbe solo paradossale, ma porterebbe rapidamente all’assurdo. Infatti, se il benessere invece di “calare restando abbastanza alto” fosse “abbastanza alto senza calare”, gli italiani avrebbero maggiori ragioni per tenere ancora più bassa la loro offerta di lavoro. Se poi il benessere “non calasse e non restasse stabilmente alto”, ma addirittura “aumentasse”, allora sempre gli stessi italiani terrebbero “bassissima” la loro offerta di lavoro. Insomma, massimo benessere con crescita e sviluppo, ma contemporaneamente massima rigidità del “mercato del lavoro”: non perché la forte domanda di lavoro proveniente da imprese e istituzioni abbia prosciugato il bacino della disoccupazione, ma perché il benessere lo avrebbe alimentato e fatto crescere!
Si capisce bene il travaglio morale e intellettuale del nostro paradossale editorialista che soffre per lo stato degli “italiani” abbastanza benestanti, ma intorpiditi e poltroni, incapaci di guardarsi attorno e vedere la splendida ascesa degli immigrati «che sono l’unico gruppo sociale rilevante che continua a guadagnare posti di lavoro». E se gli immigrati sono l’esempio positivo a cui guardare, i soliti … napoletani sono naturalmente quello negativo. Con scarso senso del pudore L. Ricolfi – riportando «le crude parole» di un suo presunto amico napoletano – scrive: «[…] “finché c’è pasta e vongole” difficile pensare che gli italiani si risveglino dal loro torpore». Perché mettere crude parole nella bocca di un amico che “per caso” è il solito napoletano? Perché non scriverle come proprie senza alludere al peggio del senso comune? Perché la “pasta e vongole” di Napoli e non gli “agnolotti e ragù” di Torino e del Piemonte?
2. «La seconda osservazione è che la paura degli italiani, e la loro scarsa propensione a spendere, non sono campate per aria, ma hanno un fondamento abbastanza preciso. Quel fondamento è la politica della casa, […] negli ultimi 4 anni, abbiamo sciaguratamente seguito il mantra europeo della iper-tassazione dei patrimoni, nella presunzione (a mio parere errata, almeno per l’Italia) che le imposte sulla ricchezza siano poco dannose per la crescita. Il risultato è che per raccogliere 10-15 miliardi di tasse in più abbiamo abbattuto il valore del patrimonio immobiliare degli italiani di un ammontare che è difficile da stimare con precisione, ma che certamente è di un altro ordine di grandezza, diciamo almeno 30 volte maggiore (ricordiamo, giusto per dare un’idea, che il patrimonio immobiliare degli italiani si aggirava sui 5 mila miliardi nel 2007, e da allora è diminuito di almeno 1000 miliardi)».
La politica orgogliosamente antipopolare dei governi negli ultimi decenni – non solo negli ultimi 4 anni – non ha goduto e non gode del nostro appoggio né in generale né riguardo alla casa. Non vi è stata nessuna “sciagurata” super-tassazione dei patrimoni, neppure una loro opportuna e modulata tassazione, ma c’è stata una sciagurata, persistente e rinnovata tassazione delle case iniquamente mal distribuita. Alla fine del 2012 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a circa 8.542 miliardi di euro; le attività reali (abitazioni, terreni, ecc.) rappresentavano il 61,1 per cento del totale della ricchezza netta; le abitazioni rappresentavano l’84 per cento del totale delle attività reali per un valore in euro di 4.845 miliardi che è pari al 56,7% dell’intera ricchezza netta. Si vede dunque che la tassazione delle case non coincide con la tassazione dei patrimoni (ricchezza netta), ma riguarda solo una loro parte (il 56,7%).
Nel 2007 a prezzi correnti il valore in euro delle abitazioni era di 4.573 miliardi; nel 2008 di 4.700 miliardi; nel 2010 di 4957 miliardi; nel 2011 di 5021 miliardi. Dunque, secondo i dati della Banca d’Italia, il valore della ricchezza “accumulata” in abitazioni nel periodo 2007-2012 è aumentato (da 4.573 a 4.845 miliardi) e non diminuito di «almeno 1.000 miliardi» come sostiene Luca Ricolfi. Riguardo poi alle oscillazioni del mercato immobiliare, esse non possono essere imputate né esclusivamente né prevalentemente né semplicemente a una presunta politica sciagurata di super-tassazione dei patrimoni e delle abitazioni. Nel Rapporto immobiliare 2013, curato dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare (OMI) dell’Agenzia delle Entrate, si può leggere: «Nel 2006 si poteva prevedere senza dubbio una battuta d’arresto del ciclo espansivo in quanto i tassi di interesse iniziavano ad aumentare ed il livello dei prezzi delle abitazioni, cresciuti rapidamente negli anni precedenti, riducevano l’accesso delle famiglie al mercato residenziale. In effetti, ben prima della crisi economica dell’agosto 2008, il mercato residenziale italiano aveva iniziato a ridursi: nel 2007 il numero di abitazioni compravendute si contrasse del 7% rispetto all’anno precedente: era finito il ciclo espansivo e vi sarebbe stato un aggiustamento la cui entità sarebbe stata determinata, per le condizioni di allora, essenzialmente dall’andamento dei tassi di interesse. La crisi del 2008-2009 ha fatto precipitare i livelli di domanda e di reddito e per un certo periodo ha bloccato di fatto il finanziamento bancario e ciò ha avuto un immediato riflesso sul mercato residenziale. Quest’ultimo ha subito un primo crollo del 25% circa nel biennio anzidetto […]. Nei due anni successivi vi è stata una sostanziale stazionarietà con i livelli di scambio galleggianti attorno a quello del 2009. Questo relativo equilibrio è stato spazzato via dall’acuirsi, nella seconda metà del 2011, della crisi economica italiana accentuatasi nel corso del 2012. L’anno passato, infatti, ha registrato un’ulteriore variazione negativa del Pil reale (-2,4%), un tasso di disoccupazione crescente, una riduzione dei livelli di reddito disponibile delle famiglie (minore occupazione e intenso ricorso alla cassa integrazione). Queste condizioni hanno portato ad una riduzione della spesa per consumi finali delle famiglie […]. Se l’intera spesa per consumi in termini reali si è ridotta del 4,1% su base annua e con variazioni tendenziali crescenti dal III trimestre 2011 al III trimestre 2012, sarebbe stato inimmaginabile pensare che l’acquisto di abitazioni, che richiede comunque un significativo impegno finanziario della famiglia e sovente per un periodo assai lungo, non avesse mostrato una significativa contrazione, come infatti vi è stata. Per giunta nel corso del 2012 i tassi di interesse sono aumentati. In questo quadro, l’aumento della tassazione sulla proprietà ha aggiunto un ulteriore elemento (comunque non il più significativo) alla contrazione della domanda con riguardo essenzialmente al mercato delle seconde case».
Aumento dei tassi d’interesse, aumento dei prezzi delle abitazioni, precipitazione dei livelli di reddito e quindi della domanda, blocco del finanziamento bancario, tasso di disoccupazione crescente e intenso ricorso alla cassa integrazione: ecco come quei “bolscevichi” dell’Agenzia delle Entrate spiegano la crisi del mercato immobiliare.
E la sciagurata politica di super-tassazione delle case che Luca Ricolfi evoca nel suo delirio ideologico? È un elemento che si aggiunge, ma «comunque non il più significativo».
La paura degli “italiani” e la loro scarsa propensione a spendere non sono davvero campate in aria. È invece campato in aria quel fondamento (una super-tassazione dei patrimoni) su cui l’originale editorialista crede di poterle appoggiare.
«Quello di fronte a cui ci troviamo – conclude L. Ricolfi – è una sorta di paradosso del benessere. Abbastanza ricchi per poterci permettere ancora qualche anno di inerzia, ci siamo tuttavia impoveriti così tanto e così bruscamente, fra il 2007 e oggi, da non osare più consumi avventati. Forse è per questo che gli appelli all’ottimismo, da chiunque provengano, non funzionano più». Osare consumi “avventati”??!! Basta! Gli insolenti appelli all’ottimismo non funzionano più, ma neppure le contorte argomentazioni con cui questo paradossale “simpaticone” cerca di dare corpo alle sue inconsistenti «osservazioni di fatto».
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* su Democraziaoggi 1 Settembre 2014democraziaoggi


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Per correlazione
vecchio saggioQuesto non è un Paese per giovani
di ILVO DIAMANTI
su La Repubblica on line, 01 settembre 2014

Temo che l’immagine di Renzi cominci a risultare inadeguata per raffigurare il Paese. Troppo “giovane” e “giovanile”. Troppo spavalda e, perfino, esagerata. Rispetto a un Paese che sembra viaggiare – e guardare – in direzione contraria. Cioè, verso il passato. Perché l’Italia mi sembra un Paese sempre più rassegnato. Che ostenta un ottimismo triste, attraversato da rabbia diffusa.

E’ un Paese di pensionati, con tutto rispetto per chi la pensione se l’è guadagnata, dopo anni e anni di lavoro. Però, è difficile non rilevare le tensioni continue intorno al sistema pensionistico. Dal punto di vista sociale e politico. Perché l’età di accesso alla pensione si è “allungata”, per contenere il costo della previdenza pubblica, in una società sempre più vecchia. Dove i pensionati sono oltre 7 ogni 10 occupati. Ma, in questo modo, l’ingresso nel mercato del lavoro per i più giovani si è ulteriormente ristretto.

Così la generazione dei padri – e, talora, dei nonni – sessantenni vorrebbe andare in pensione. Ma non ci riesce. Neppure quando il governo, come ha fatto nelle scorse settimane, lo prevede. Ad esempio: per gli insegnanti (cosiddetti) “quota 96″. Che a 61 anni abbiano maturato 35 anni di contributi. Perché, dopo l’annuncio, si scopre che non ci sono le coperture, le risorse. Un po’ com’è avvenuto per gli “esodati”. Un’invenzione linguistica. Participio passato di un verbo che non c’è. Coniato per significare quelle persone sperdute, in “esodo” verso la pensione. Ma rimasti per strada. Pre-pensionati senza pensione. A causa di im-previsti legislativi. Esistono ma non si vedono. Sono “pensionandi”. In attesa che lo Stato trovi le risorse per “pensionarli” davvero, dopo la chiusura anticipata del rapporto di lavoro, negoziata con l’impresa.

D’altronde, l’Italia è un Paese schiacciato dalla spesa pubblica. Dal debito pubblico. Nonostante che il pubblico impiego sia in costante calo. Il 7% in meno negli ultimi 5 anni. Ma circa il 20%, per quel riguarda gli statali. Con l’esito, paradossale, che la spesa pubblica non è calata. Al contrario. Perché, come ha annotato Tito Boeri, alcuni giorni fa su queste pagine, “gli stipendi pubblici in meno si sono trasformati in pensioni in più da pagare, sempre a carico del contribuente”.

Questo Paese di esodati, pensionandi e aspiranti pensionati, come può avere e, prima ancora, “immaginare” il futuro? Al massimo: il presente. Ma, più facilmente, il passato prossimo. Nell’Italia di oggi, nonostante Renzi, il futuro: è ieri. Al massimo, stamattina. D’altronde, non per nulla, questo Paese per vecchi, come io stesso ho rilevato altre volte, sta perdendo e ha già perduto i suoi giovani. Che sono pochi e sempre di meno, visto che i tassi di natalità, in Italia, sono fra i più bassi dell’Occidente. Mentre i tassi di occupazione giovanile scendono e quelli di disoccupazione crescono continuamente.

I giovani: sono “esodati” anche loro. Visto che si contano circa due milioni di Neet, un altro neologismo per significare una popolazione fuori dalla scuola e dal lavoro. Dunque, anch’essa s-perduta. Tra le pieghe dell’impiego temporaneo e informale. Protetta dalle famiglie, che offrono loro un ancoraggio, in attesa di una stabilità imprevista e imprevedibile. I giovani. Se ne vanno dall’Italia, se e quando possono. Sempre più numerosi. In particolare, durante i corsi di laurea. Utilizzano l’Erasmus, programma che prevede alcuni mesi di studio presso università straniere in convenzione con quelle italiane. Ma poi, dopo la laurea, ripartono di nuovo. Proseguono la loro “formazione” in altre università straniere. E spesso trovano impiego. Altrove. Perché l’Italia è un Paese di pensionati dove i giovani “esodano”. Soprattutto i “laureati”. Che sono sempre meno. Il 20% della popolazione fra 25 e 34 anni. Cioè, la metà della media Ocse. D’altronde, il saldo fra giovani laureati che escono e vengono, in Italia, è negativo (-1,2%, secondo un Rapporto di Manageritalia). Il peggiore della Ue.

Così, siamo diventati un paese di vecchi, attraversato da inquietudini e paure. Perché, quando si invecchia, crescono e si diffondono anche le paure. E ci si difende dagli altri, chiudendosi in casa. Guardando tutti con crescente sospetto. In Italia, più di due persone su tre diffidano di chi hanno di fronte (Oss sulla Sicurezza, Demos-Oss. Pavia-Fond. Unipolis). Perché ci potrebbero “fregare”. In particolare, preoccupano – e spaventano – gli stranieri che affollano l’Italia, in numero crescente. Perché sono tanti, sempre di più, quelli che arrivano. Con ogni mezzo. In particolare, dal Nord dell’Africa. Non per “piacere”, ma spinti da paure ben più immediate e drammatiche delle nostre. Le guerre, la fame, i conflitti. Fuggono dal loro mondo che è lì, a un passo dal nostro. E intraprendono viaggi brevi ma, spesso, infiniti. Perché finiscono in modo tragico. In fondo al mare. Ai nostri mari che assomigliano a cimiteri liquidi, dove si depositano, a migliaia, i corpi di migranti che tentano di scavalcare il muro che li separa da noi. Il Mare Nostrum che ormai è divenuto un Mare Mostrum. Quel tratto di mare: è un muro, una barriera. Costruita con le nostre paure, per difendere la nostra solitudine, la nostra vecchiaia infelice. Per coltivare la nostra indifferenza.

Noi, l’estremo confine d’Europa. Ultima frontiera di una civiltà senza più civiltà. Senza più pietà. Senza più futuro. Perché se fai partire i tuoi giovani (più qualificati) e tieni lontani quelli che vorrebbero entrare, dal Sud ma anche dall’Occidente, i poveri e i disperati, ma anche i più istruiti e specializzati: che futuro vuoi avere? Al massimo un passato. Sempre più incerto, anch’esso. E annebbiato. Come la memoria.
Per questo la rappresentanza, o meglio, la “rappresentazione” offerta da Renzi, oggi, mi appare inadeguata. Troppo giovane e giovanile. Troppo giocosa. Rispetto al Paese: rischia di proporre uno specchio deformante. Difficile predicare la “crescita” se siamo in “declino” – demografico. Se i giovani sono pochi e quando possono se ne vanno. Non basterà, di certo, un gelato a farli rientrare. Né a farci ringiovanire tutti. Più facile, piuttosto, che lui, il premier, rispecchiandosi nel Paese, invecchi presto.

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