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Editoriali
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Elogio della mitezza
L’articolo si incentra principalmente sul saggio di Norberto Bobbio “Elogio della mitezza”. In un momento in cui la mitezza pare lontanissima dalla contemporaneità, Bobbio la rivaluta mostrandone, in modo quasi preveggente per l’oggi, il suo aspetto potente e rivoluzionario. L’articolo è sviluppato sotto forma di dialogo.
Elogio della mitezza
di Roberto Paracchini
- …, già e come si fa? Come si fa a parlare del futuro…?
- Si cerca di immaginarlo partendo da elementi del presente.
- Così però si rischia di pensare un futuro cupo, troppo cupo.
- E chi lo dice?
- Beh, il presente non è certo bello: guerre, distruzioni e cattiverie gratuite, violenza, razzismo, discriminazioni, povertà, crisi climatica e tanto tanto altro ancora. Greta Thunberg e i tantissimi giovani che vedono in lei un punto di riferimento, hanno perfettamente ragione a protestare.
- Sì: sembra proprio che stiate facendo di tutto per preparare loro un bruttissimo futuro.
- Ma chi parla, chi entra nei miei pensieri?
- Calma, stai solo riflettendo.
- Già con una voce che non sono io e che risponde a quello che penso…
- Innanzi tutto io non sono una voce ma Qfwfq. Quindi tranquillizzati.
- O, cielo!, chi parla!
- Te lo detto, sono Qfwfq.
- Chi?
- Potrei offendermi, sono il prodotto della fantasia di un grande scrittore, Italo Calvino.
- Ah…, davvero?
- Sì, “Le cosmicomiche”.
- Ma che faccio, dialogo con Qfwfq?
- E che c’è di strano, secondo il mio autore esisto da tempo immemorabile.
- Ma sei un prodotto della fantasia!
- Appunto ed è di questo che hai bisogno, ti trovi di fronte a un’impasse…
- ?
- Col terrore del foglio bianco.
- Beh, forse la questione è complessa.
- Ovvio, è difficile orientarsi in questo mondo, tanto meno scriverne. Ne so qualcosa io, prodotto dalla fantasia e dalle ossessioni di chi mi ha dato i natali.
- Va beh, finalmente un sogno letterario. Peccato che poi finisca.
- E chi l’ha detto, deciderai tu.
- Forse forse resterei nel sogno…
- D’accordo, la consapevolezza delle brutture del vostro presente fa male, ma le avete prodotte voi.
- Lo so…, lo so ma non ti ci mettere anche tu; credimi, c’è da impazzire.
- E per che cosa credi che sia qui. Però non incolpare altri della tua incapacità di capire.
- Vedi tu? Ormai tutto è fuori registro, abnorme e sempre più incomprensibile e tu pure, cara/o Qfwfq, forse fuggita/o da un libro e che ora dialoghi con me.
- Io non fuggo, semmai tu, che vigliaccamente rinunci a capire.
- Non offendere, ho solo un momento di sconforto.
- “Sapere aude!”, scriveva un vostro grande filosofo, l’illuminista Immanuel Kant: sapere aude, abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Ma tu questo coraggio non sembri averlo.
- Già, la fai facile tu che vivi in un mondo di fantasia…
- Ma è proprio questa che ti manca. La fantasia.
- Sarebbe?
- Che cosa credi che sia l’intelligenza? Se non quel qualcosa che ti permette di immaginare mondi altri, forse inusitati ma non per questo meno possibili?
- Quindi?
- Non devi scoraggiarti.
- Però, se ci si guarda attorno…
- Non farti ingabbiare dal qui ed ora. Te lo ridico: abbi il coraggio di usare la tua intelligenza, quindi di immaginare altro non rifiutando la potenza della fantasia. E ricorda: la realtà è fatta da tutte le determinazioni del possibile, anche da quelle che ora non ci sono ma che potrebbero esserci.
- Semplice da dirsi, per te che vivi in un racconto.
- Non è esatto, io vivo in tutti coloro che mi leggono, o mi hanno letto, o mi leggeranno. Io non sono di nessuno ma per tutti.
- Ovvero?
- La fantasia è patrimonio comune.
- Allora spiegami, come si fa ad affrontare questo mondo fatto di guerre, distruzioni e cattiverie impensabili?… Come si fa a viverci? Come si fa a non venire schiacciati dalla sua pesantezza? Come si fa a costruire o inventare un pur piccolo granello di sabbia che contribuisca a renderlo almeno un po’ meno ingiusto?
- Mi ripeto: sapere aude, abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Lo scrittore che mi ha dato i natali, Italo Calvino, pur parlando di letteratura, ha insegnato anche a me, suo prodotto di penna, molte cose.
- Allora, Qfwfq, visto che ormai, meticciando realtà e fantasia, mi hai avviluppato nel tuo mondo, sii generoso e spiega pure a me.
- Il mio Calvino nel libro Sei lezioni americane, alla voce leggerezza, racconta che la pesantezza del mondo si supera non con fughe nel sogno o nell’irrazionale, ma cambiando approccio, quindi avendo più fantasia e guardando il mondo “con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza”.
- Bene, e come fare?
- Forse cominciando a riflettere sul fatto che siete tutti imprigionati da un’idea fissa: che in ogni momento della vostra vita c’è chi vince e chi perde, chi arriva primo e chi no, e chi irrimediabilmente si smarrisce per strada. E che siete tutti ingabbiati in questa bizzarra e crudele gara, tanto che sembra normale, se non scontato, anche l‘uso della forza, della furbizia e della spregiudicatezza…
- Seppure malinconicamente, mi vien da dire che questa logica del vincere o del perdere sembra proprio la più diffusa nella realtà in cui viviamo.
- Già, vincere… Sai l’etimologia di questo verbo richiama la radice weik che implica un combattere continuo e infine, appunto, un vincitore, da cui la configurazione di uno spazio di dominio in cui uno soggioga l’altro e dove c’è chi lega e chi viene legato. E’ questo il mondo a cui aspiri?
- Certo che no! E non sono il solo a non volerlo. Ma sempre più persone stanno perdendo la fiducia e la speranza in un possibile cambiamento.
- Allora muovetevi, seguite l’esempio dei giovani.
- Facile a dirsi, però…
- Niente è fattibile se non si inizia. Un primo passo è cambiare linguaggio: non più vincere, né convincere, ma persuadere. La più timida persuasione che nella sua etimologia indica, sì, anche un’azione, ma verso un qualcosa di dolce e delicato supportato, direi io, da argomentazioni non apodittiche.
- Scusa Qfwfq ma per battere e sconfiggere la sfiducia e l’indifferenza non pensi occorra invece usare un linguaggio che “buchi” l’attenzione: forte e deciso?
- No, penso sarebbe un atteggiamento sbagliato. Sai, basta accendere la tv o collegarsi a un qualsiasi social per essere subito investiti e travolti da tanti linguaggi barricadieri che bucano, sì, l’attenzione come dici tu, ma che quasi subito svaniscono lasciando ben poco, se non un sapore amaro e un bel po’ di fastidio quando va bene; confusione, rabbia e astio più spesso.
- E tu che proponi?
- Festina lente, affrettati lentamente: agisci, sì, ma dopo aver riflettuto. Nessun assalto all’arma bianca, sia pure solo verbale.
- Quindi?
- Come afferma il mio Calvino, occorre “guardare il mondo con un’altra ottica”. In pratica bisogna cambiare paradigma, abbandonare il linguaggio bellicoso e avere il coraggio di guardare altrove. E potete farlo prendendo esempio da un altro gigante della cultura italiana e mondiale, il filosofo Norberto Bobbio; e scommettere con lui sulla mitezza.
- Caspita, Qfwfq, la mitezza? È come se proponessi una rivoluzione copernicana.
- Esatto.
- Spiega.
- In un mondo di sopraffazioni continue va precisato che “la mitezza è il contrario dell’arroganza, intesa come opinione esagerata dei propri meriti, che giustifica la sopraffazione”, come sottolinea Bobbio nel saggio Elogio della mitezza.
- D’accordo, la mitezza, però sembra un qualcosa di molto, direi troppo lontano dal mondo dell’oggi.
- Non credo, le cose che sembrano più inaccessibili, sono spesso quelle con cui viviamo nella nostra quotidianità, pur non vedendole.
- Non capisco, ogni tanto mi perdo…
- Se vai a prendere un caffè gradisci che chi te lo serve, faccia un sorriso, che tu ricambi perché un sorriso è contagioso come una piccola coccola. Oppure ti viene spontaneo aiutare il tuo vicino di casa se lo vedi in difficoltà con la spesa o aiutare una persona incerta ad attraversare la strada e tante altre piccole grandi cose. Uso volutamente “piccole grandi” perché sono le (apparentemente) piccole cose che ci fanno grandi. Ed è proprio in queste che si forgia la mitezza, una postura del comportamento meno aggressiva e più riflessiva. Sai, come specifica Bobbio, la mitezza è “una disposizione d’animo che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé”. In altre parole: il mite aiuta a limitare l’arroganza dell’altro, in quanto esempio vivente che i rapporti interpersonali possono essere meno spigolosi e trasformarci in persone che ascoltano.
- E pensi che questo possa aiutare a superare la sfiducia e a formare un ambiente meno indifferente?
- Molto probabile. Sai l’indifferenza ha spesso come base la difficoltà nei rapporti interpersonali. Quando affermo che dovremmo usare il termine persuadere e non con-vincere, penso che si debba iniziare dalla nostra quotidianità dove in continuazione facciamo scelte che ci relazionano agli altri…
- Non ti seguo.
- Non ti capita mai di avere qualche problema e di sentirti come adirato col mondo?
- Beh, sì.
- In genere questo vuol dire che dentro di te c’è qualche “nodo” irrisolto, forse un eco di quell’inquietante “zona grigia” di cui parla Primo Levi.
- Non capisco che vuoi dire.
- Quel che forse sai anche tu: se riesci a relazionarti con qualcuno senza aggressività, quel “nodo” diventa più leggero, non che lo risolvi, ma ti si attenua, soprattutto se nella relazione con l’altro non entri in un quadro competitivo in cui ognuno vuole convincere l’altro di qualcosa. In altre parole, il mite è colei o colui che non vuole convincere nessuno, semmai persuadere.
- Mi stai dicendo che la persuasione si sposa con la mitezza e non con la vittoria…
- Certo. Sai, grazie al mio Calvino sono un testimone senza tempo dell’evoluzione dell’universo e di vittorie e catastrofi ne ho visto tante, dai buchi neri alla formazione di nuove stelle. Ma ho anche osservato che per quella strana “cosa”, che chiamate homo sapiens, più che i grandi eventi che hanno creato l’universo, contano le carezze.
- Che è, Qfwfq, mi stai diventando sentimentale…
- La fantasia è anche sentimento, parola che va accostata al verbo sentire, che significa avere consapevolezza di sé e dell’altro; e che è spesso anche il prodotto di una carezza. Gesto che, a sua volta, richiama una postura mite verso l’altro, che deriva da caro, amato. Tutti significati ben lontani dal vincere-soggiogare-fare prigioniero.
- Perdonami, Qfwfq, ma se vuoi cambiare qualcosa, così facendo non rischi di assumere un atteggiamento, sì, carezzevole, ma poco efficace?
- Per niente, semmai il contrario: la vittoria sottomettendo, blocca, ferma e cristallizza la realtà, soggiogando chi non la pensa come te e bloccandone le possibili scelte; e inibendo così la realizzazione di nuovi percorsi. Non credi invece che le nostre azioni, come spiega il fisico e filosofo Heinz von Foester, dovrebbero sempre essere volte ad agire “in modo di accrescere il numero totale delle possibilità di scelta”?
- Ammettiamo che sia d’accordo, ma come agire in questo senso?
- Con la mitezza, su cui punta Bobbio. Usando le parole di Carlo Mazzantini, un suo amico filosofo, Bobbio sottolinea che “la mitezza è l’unica suprema potenza (…) che consiste nel lasciare l’altro quello che è”. Quindi con tutta la sua libertà di scelta.
- Perdonami, Qfwfq, però per Norberto Bobbio “la mitezza non è una virtù politica”.
- Ed è per questo che è molto importante. Per lui, “la politica non è tutto. L’idea che tutto sia politica è semplicemente mostruosa”. Ma proprio qui sta per Bobbio la potenza della mitezza che, appunto, non è una virtù politica.
- Forse mi sono perso qualcosa, ho difficoltà a seguirti. Ti rigiro il moto Festina lente…
- Giusto, diamo un po’ di contesto. In Elogio della mitezza, quando Bobbio parla di politica, pensa soprattutto al Principe di Macchiavelli in cui gli “animali simbolo dell’uomo politico sono (…) il leone e la volpe”; e pensa a Hobbes e al suo homo homini lupus (l’uomo è lupo per l’altro l’uomo), che “nello stato di natura è l’inizio della politica”. Tutti esempi in cui “non c’è posto tra loro per i miti”.
- Perdonami l’ingenuità e la banalità, ma come fa il mite a competere con questa “muscolosa” politica, soprattutto se vuole cambiarla? Non verrebbe spazzato via come un fuscello?
- Il problema è mal posto. Il mite, spiega Bobbio, “non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di sconfiggere, e alla fine, di vincere. È completamente al di fuori dello spirito della gara, della concorrenza, della rivalità e quindi anche della vittoria”.
- Continuo a non capire.
- Bobbio non nasconde affatto la prosaicità della storia e, quindi, della politica, piena di arroganza, protervia e prepotenza. Così come non nasconde, citando il filosofo Friedrich Hegel, che ai “fondatori di stati”, agli “eroi”, è stato permesso tutto, “anche l’uso della violenza”.
- Quindi?
- Bobbio cerca una via d’uscita coerente, una via d’uscita per il nuovo millennio direi, e la trova nella mitezza…
- Una virtù, però, che considera “non politica”.
- Sì, ed è proprio in questo suo (della mitezza) essere fuori dalla politica intesa come lotta e competizione, che sta la sua forza e la sua potenza. Come già accennato, la vita per Bobbio non si riduce alla politica ed è in questo spazio non politico, in cui i rapporti interpersonali non puntano a prevaricare e dominare l’altro, che può fiorire la mitezza in tutta la sua potenza.
- E che cos’è questo “spazio non politico”?
- In Elogio della mitezza, l’autore non lo precisa in modo esplicito, ma afferma di considerare molto importante “quello che c’è al di là della politica” dove si trova, appunto, la virtù della mitezza. Direi che per Bobbio si tratta di uno spazio che non è della politica tradizionale e nemmeno del privato dato che la mitezza “rifulge solo alla presenza dell’altro”; e che, quindi, può essere considerato uno luogo intermedio tra i due. Uno spazio determinante nella vita nelle persone perché in esso vivono i rapporti interpersonali, di cui la mitezza si nutre per definizione. Direi che questo spazio assomiglia a quello infra teorizzato dalla filosofa Hanna Arendt e per lei indispensabile per lo sviluppo democratico. E quale humus migliore della mitezza per stimolare la riflessione e la crescita delle persone?
- Oggi, però, sembra che più della riflessione domini la velocità e che tutto il resto (basta dare un’occhiata ai social) diventi subito obsolescente.
- Certo, ma quel che più conta credo sia riuscire a innescare cambiamenti virtuosi e contagiosi. A noi tutti e mi ci metto anch’io con l’illuminismo del mio Calvino, oggi non serve un qualcosa che faccia rumore e che appaia e scompaia come la voglia di immediatezza prodotta dai clic reiterati. Occorre invece un qualcosa che abbia potenza potente nel senso etimologico di capace di effetti, di autorità, ricco e nobile, autorevole insomma.
- Rieccoci, spiega meglio: potenza e mitezza a me sembrano due concetti agli antipodi.
- Per spiegarlo Bobbio si rifà alle parole del suo amico filosofo Mazzantini che come abbiamo già visto diceva che la mitezza “è l’unica suprema ‘potenza’ (…) che consiste nel lasciare l’altro quello che è”. E in più aggiungeva: “Il violento non ha impero perchè toglie a coloro ai quali fa violenza il potere di donarsi”. Chiaro?
- Non proprio.
- Allora seguimi ancora un attimo: chi comanda e domina fa fare agli altri solo quello che lui vuole, come se il dominato fosse diventato un suo terminale. In questo modo, però, la forza del suo comando resta, appunto, solo forza che piega con la violenza colui che viene dominato. Così il violento conquista, soggioga e trasforma il corpo del dominato ma, si potrebbe dire con un linguaggio forse improprio, non la sua anima: la sua vera volontà e la sua personalità restano inviolate.
- Prima hai accennato al tema del” donarsi”, chiarisci per cortesia.
- Dietro questa affermazione penso ci sia il discorso sul dono e sulla gratuità. In sintesi il donare, in questo caso, implica il fare qualcosa senza avere alcuna contropartita: un’azione svincolata da un qualsiasi vantaggio. A ben guardare si tratta di un comportamento che noi facciamo molto più spesso di quel che sembri durante la nostra quotidianità, come atto di attenzione verso gli altri con una telefonata affettuosa o un messaggio delicato che mandiamo o che ci arriva inaspettato, o una gentilezza inusuale o mille altre piccole cose. Ed è proprio la gratuità di questi gesti che li rende doni e, direi, doni contagiosi nel senso che spingono i destinatari a comportarsi nello stesso modo…
- Ma hai appena detto che non c’è contropartita.
- Infatti, perché i destinatari della contagiosità del dono non sono coloro che hanno fatto il dono, ma altri. Se poi lo diventano anche loro, è perché pure loro fanno parte del mondo “altri”.
- E un atteggiamento mite li stimola, i doni?
- Sì, ne è un propulsore: per Bobbio la mitezza “è una donazione”, e si tratta “di una disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi in tutta la sua portata”.
- Bene, torniamo un attimo sulla potenza della mitezza.
- Chi fa violenza toglie al dominato il potere di donarsi dimostrando così di non avere impero, nel senso di autorità e autorevolezza, su colui che soggioga; e questo perchè non controlla la sua libertà più grande, quella di potersi donare, appunto.
- Insomma, in questo quadro concettuale, è il mite il vero potente?
- Esatto, ma si tratta di una potenza fatta di autorevolezza, senza dominio e soprattutto, come spiega Bobbio, che sviluppa socialità. “Dunque – continua il filosofo riprendendo le parole di Mazzantini – ‘lasciare essere l’altro quello che è’ è virtù sociale nel senso proprio, originario, della parola”, che crea alleanza, base e trampolino per una nuova politica.(Roberto Paracchini)
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Norberto Bobbio.
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[…] L’epidemia del Covid-19, oltre ai problemi medici e di vita comune, fa sorgere sul fronte giuridico notevoli questioni, alcune delle quali fra le più acute cercheremo di delineare a caldo e sommariamente. Si tratta di questioni in continua evoluzione – dobbiamo qui tener conto della situazione esistente al 23 marzo – che, pur non prive di solidi riferimenti a nozioni giuridiche acquisite, sono in gran parte nuove e di fatto sembrano spesso affrontate più con aderenza alle necessità straordinarie del caso che non alla formale aderenza a quelle nozioni. Sappiamo di sfidare così, prima che i limiti dell’autore di queste note (…come di ogni altro, crediamo) le inadeguatezze e incertezze del diritto, soprattutto ma non solo di fronte a fatti così travolgenti. Possiamo annodare le questioni da affrontare attorno a due nuclei, seppur legati tra loro: il primo è quello dei diritti delle persone e delle loro limitazioni; il secondo è il problema organizzativo. Muoviamo qui da quest’ultimo, nonostante che esso abbia natura servente rispetto al primo. Esso, a un esame del sistema normativo messo in piedi per affrontare il caso, appare risolto in modo complessivamente soddisfacente, secondo linee adeguate alla forma di Stato propria del nostro ordinamento, smentendo, ci sembra, la condizione di un Paese… che in genere non possiede precisamente una vocazione all’organizzazione. Il perno dell’azione deliberata per la lotta contro il virus, in nome di quel diritto della persona alla tutela della salute che la Costituzione definisce come diritto “fondamentale”, è la fonte legislativa statale. Trattandosi nella presente situazione di un caso straordinario di necessità e di urgenza, è stato giustificatamente approvato dal Governo come atto fondamentale un decreto legge (n. 6 del 2020), che il Parlamento ha con non frequente senso di concordia convertito nella legge 5 marzo 2020, n. 13, seguito da altri analoghi provvedimenti. Questa fonte legislativa prevede (art. 1.2) un elenco di numerose e pregnanti misure restrittive di diritti fondamentali delle persone e di provvedimenti ad esse connessi, di applicazione nell’insieme doverosa pur lasciando aperta una discrezionalità applicativa, e autorizzandone come eventuali anche altre, individuate con la formula generale “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica” (art.1.1 e art. 2), che definisce quelle non esplicitamente elencate come misure “ulteriori”. L’elencazione è sufficientemente precisa, ma costituisce base per atti governativi previsti a valle della legge, che consistono essenzialmente nell’adozione di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 3.1), che, come vedremo sono stati infatti abbondantemente emanati (fondamentale quello dell’11 marzo). E’ chiaro che il legislatore ha aderito all’idea che il carattere relativo che può avere la riserva di legge in relazione ad alcuni diritti fondamentali – tanto più quando, come quello alla salute, sono concepiti dalla Costituzione, anche in quanto interesse della collettività, come aventi un grado superiore rispetto ad altri – autorizza il complemento di provvedimenti governativi. E non si può negare – anche senza poter qui coinvolgere una competenza sanitaria che chi scrive non possiede – che i provvedimenti adottati dai numerosi DPCM finora emanati abbiano in generale una loro congruità. Ma qual è il fondamento, nello Stato fortemente regionalizzato che è il nostro, dell’assegnazione di un ruolo fondamentale alle norme statali, come evidentemente ha ritenuto il sistema adottato? Se lo chiede… quel giustificatamente scrupoloso pignolo che è il giurista, mentre il profano risolve la questione con naturalezza, ritenendo che le dimensioni del problema dell’attuale epidemia sono almeno di livello statale (e in realtà chiamerebbero in gioco, più di quanto non sia finora avvenuto, l’organizzazione europea e quel tanto che esiste di organizzazione mondiale). La Costituzione assegna la tutela della salute alla competenza concorrente di Stato e Regioni. Come pure è di tale natura la materia della protezione civile, che risulta ripetutamente invocata dalle norme adottate, nonostante che nel caso della salute siamo di fronte a un tipo di calamità diverse da quelle legate ai beni legati al territorio in quanto tale, normale oggetto di questa funzione, che ordinariamente le affronta sulla base, ora, del codice della protezione civile oggetto del d. lgsl. 2 gennaio 2018, n. 2. Entrambe le materie supporrebbero la determinazione da parte della legge statale dei principi fondamentali e l’applicazione dettagliata spetterebbe alla legge regionale. Qui ci troviamo invece davanti a una legge statale che domina il campo, avocandolo fondamentalmente allo Stato. Se cerchiamo una giustificazione giuridica di questo fatto, viene sotto gli occhi la chiamata in sussidiarietà elaborata dalla Corte costituzionale nella ricostruzione degli art. 117 e 118 Cost., perché sembra che siamo in presenza della generale necessità di assicurare “l’esercizio unitario “ di una funzione sollecitata da circostanze la cui dinamica travalica i confini dei territori e delle stesse prerogative regionali. Potrebbe anche invocarsi l’art. 120, che opera quando vi è un “pericolo grave per l’incolumità pubblica” o quando lo richiede la tutela del’unità giuridica dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Anche se questo secondo tipo di intervento, lasciato al Governo, è assimilato a quelli sostitutivi nei confronti delle regioni considerate inadempienti, i due fondamenti dell’intervento statale convergono ed entrambi comportano la leale collaborazione tra Regione e Stato. E lo Stato la ha realizzata, per disposizione del’art. 3.1 del d.l. n°6, come convertito dalla legge n. 13, sentendo prima dell’emanazione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri ad efficacia per tutto il territorio nazionale il Presidente della conferenza dei presidenti delle Regioni e, sulle eventuali norme che concernono specificamente singole Regioni, i loro presidenti (art. 3.1). Si tratta dunque giuridicamente di un semplice parere e non di un’intesa, come si era in una prima fase pensato per i casi di attrazione in sussidiarietà; d’altronde risulta dai decreti o si apprende dai media che alcuni provvedimenti (come quelli ministeriali in tema di trasporti per il Sud e le Isole) sono stati assunti su richiesta delle relative Regioni. Inoltre, la stessa legislazione statale, riconoscendo, quanto meno implicitamente, che vi sono altre “autorità competenti”, con l’art. 2 stabilisce che esse – e si tratterà, secondo l’estensione territoriale, del Ministro della salute o di altri ministri, delle Regioni e dei Comuni – possano adottare quelle ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza di cui si è accennato; e con l’art. 3.2 per i casi di “estrema necessità ed urgenza” mantiene in vita i poteri di ordinanza contingibile ed urgente che precedenti leggi assegnano a entrambi. I presidenti di Regione e i sindaci hanno fatto largo uso di quei poteri per i servizi locali; così pure il Ministro della salute per problemi più generali. A sua volta, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti è stato dotato del compito di limitare o sospendere i servizi diversi da quelli locali di persone e di merci terrestri, aerei, marittimi e lacustri (art. 1.5 del DPCM dell’11 marzo in relazione all’art. 1 lett. m della legge). Il Ministro ad esempio se ne è avvalso con separati provvedimenti per la Sardegna e per i percorsi per il Sud. Nel complesso sembra che le norme così adottate (salvo il giudizio sui singoli casi di merito) siano aderenti al sistema di ripartizione dei poteri costituzionalmente stabilito. Per quanto attiene alla collaborazione tra le autorità statali, si può constatare che i provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri vengono adottati su proposta del Ministro della salute, sentiti una serie di altri ministri. Il Governo è dunque implicato collegialmente, e del resto aveva fin dal mese di gennaio agito in maniera preventiva con ordinanze del Ministro della salute e con la dichiarazione di emergenza nazionale assunta dal Consiglio il 31 di quel mese. Da più parti è stata criticata la scarsa capacità di intervento lasciata al Parlamento; ma, a parte la conversione in legge dei decreti legge, e tenuto conto dell’assegnazione di gran parte della materia a riserve di legge puramente relative, esso ha mantenuto la possibilità, invero scarsamente esercitata (ma si veda la doppia deliberazione dell’11 marzo), di discutere dell’operato degli organi governativi. Qui si viene a quello che abbiamo ricordato essere il primo nucleo di questioni, che non può qui essere facilmente oggetto di un’analisi riferita alla totalità degli aspetti e che, comunque, è quello su cui sono possibili le maggiori perplessità. La questione generale che si apre è quella dei contenuti restrittivi che il trattamento dell’epidemia comporta per i diritti fondamentali. E’ chiaro che il riferimento primo riguarda il diritto alla salute delle persone e, in pari tempo, della collettività. Esso ha sempre comportato vari limiti a sua tutela, come ad esempio le vaccinazioni obbligatorie e altri trattamenti sanitari che colpiscono le libertà della persona. Tra i diritti fondamentali il diritto alla salute, dato il suo grado, nell’inevitabile comparazione che nasce dalla convivenza e spesso dallo scontro tra i diversi diritti pure qualificati come fondamentali tende a rivestire un valore tendenzialmente più elevato di altri. Ma si sa che nei diritti fondamentali non si può prescindere da un criterio di proporzionalità tra i diritti la cui prevalenza determina i sacrifici legittimi e i diritti sacrificati. La prevalenza del diritto alla salute pesa proprio nella situazione attuale, che si inquadra prima di tutto nell’art. 16 della Costituzione. Anche quest’articolo garantisce un diritto e un valore collettivo fondamentale – la libertà di circolazione – ma prevede espressamente la possibilità di limitazioni, in via generale, per motivi di sanità (oltre che di sicurezza). Senza entrare in tutti i provvedimenti economici né in quelli sul potenziamento del Servizio sanitario nazionale, che hanno disposto sia restrizioni che aiuti, va sottolineato che, con un successivo rapido infittirsi di provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1°, 4, 8, 9, 11 e, ora, 22 marzo, sono state disposte misure restrittive e talora solo raccomandazioni o semplici inviti, a non allontanarsi o accedere ai luoghi infetti e ad astenersi da una serie di comportamenti, qualificati diversamente secondo tempi e luoghi, via via estesi all’intero territorio nazionale e fino al 25 marzo o al 3 aprile o data posteriore fissata dalle varie norme. Esse investono tutte le principali libertà, in particolare alcuni aspetti della libertà personale, quelle di riunione, di manifestazioni anche di pensiero, e attività di istruzione, di lavoro ed economiche, contenendo però una serie di deroghe. La normativa delle varie fonti – per lo più nata dapprima nella tragica esperienza lombarda con provvedimenti regionali basati su un modello fatto proprio nell’insieme da altre Regioni ed esteso a tutto il territorio nazionale – suscita talora interrogativi e perplessità, data la pur comprensibile formulazione di categorie scarsamente definite. Per esempio l’espressione “esercizi commerciali di vicinato” (che sono permessi, e che comunque dovrebbero comprendere quasi tutti gli esercizi di vendita di generi alimentari e “di prima necessità”, purché limitatamente a questi ultimi). In esse può sorprendere fra altre…”l’indulgenza” per le rivendite di tabacchi, la cui apertura appare essenzialmente motivata da preoccupazioni per le entrate erariali. Fino al 22 marzo, non ha avuto corso un divieto generale delle attività produttive, anche se molte erano le attività vietate ed alcune assai delicate erano specificamente garantite (DPCM 11 marzo). Ora è in vigore (DPCM 22 marzo) una “sospensione” teoricamente generale, rinviando peraltro per le modalità all’accordo condiviso con le parti sociali del 14 marzo, e corredato da quasi cento deroghe; troppe, secondo i sindacati, spesso espresse con larghezza e “cumulativamente” a quanto previsto dal decreto dell’11 marzo. A differenza di quanto era stato discusso come oggetti di possibili generali divieti, risultano permesse numerose attività artigianali, le attività nei cantieri, determinati studi professionali. In materia ci si potrebbe interrogare circa la congruità di alcune modificazioni a tale regime contenute nelle norme di altri Paesi, quali quelle del Portogallo che consentono, oltre la possibilità di requisizione di beni immobili e mobili, l’eventualità dell’imposizione di apertura e funzionamento di certe imprese e di prestazione al lavoro di collaboratori di entità pubbliche e private. In alcune Regioni – la Lombardia, prima di tutto (v. le ordinanze n. 514 e 515 del 21 e 22 marzo) – sembrano da ritenere in vigore provvedimenti più restrittivi in importanti campi, il che dovrebbe esser possibile in forza della disposizione, già ricordata, per cui le Regioni possono sancire misure ulteriori rispetto a quelle previste dalle norme statali. Tali sono la sospensione di attività “decentrate” delle amministrazioni pubbliche, le attività nei cantieri (salvo alcuni tipi di essi) e la chiusura degli studi professionali, mentre altre disposizioni delle ordinanze ripetono prescrizioni già vigenti o anticipano misure contenute poi nel DPCM del 22 marzo, incoraggiando le forme di lavoro detto agile o a distanza. In molti aspetti dubbia è l’identificazione degli “spostamenti” delle persone, che le norme hanno disposto prima come da “evitare”, poi vietati, salvo che per comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o di salute o per rientro al proprio domicilio, abitazione o residenza. Si potrebbe forse accogliere, per via interpretativa o meglio con una modifica al decreto vigente, l’ulteriore deroga per “assistenza a terzi”. Da ultimo è stata vietata l’attività motoria, svolta anche singolarmente, se non nei pressi della propria abitazione. Nei dettagli, come sempre accade (come si suol dire…il diavolo è nei dettagli) molte sono le perplessità che possono sorgere al riguardo. Evidentemente sono da ritenere permesse da stretta necessità le uscite da casa per accedere alle attività garantite; ma altre sono soggette a interpretazione non agevole. In ogni caso la prescrizione, così frequente nei media e a livello di opinione pubblica, “Io resto a casa” sembra comunque semplificata o nella sua generalità ha il valore di una raccomandazione o di un invito. Un interrogativo tra gli altri verte sulla chiusura dei parchi urbani, su cui si potevano già documentare, per le grandi città, i casi dei Comuni di MiIano, Bologna, Firenze e Cagliari (ma certamente anche di altri), che hanno chiuso i parchi recintati, impedendo così attività per altro verso di giovamento alla normale salute dei cittadini (si pensi in particolare ad anziani e bambini) e che se, come si rilevava, avrebbero teso a essere luogo di assembramenti di persone, potrebbero semmai essere oggetto di maggior vigilanza di polizia volti a scioglierli. Sennonché nell’ultimo provvedimento del presidente del consiglio dei ministri i parchi sembrano ora tutti oggetto di divieto, così come le ville, le aree di gioco, i non meglio identificati giardini (le aiuole aperte su strade pubbliche sono comprese nel divieto?) In genere lo spostamento ammesso è quello nell’ambito del proprio comune; ma così non pare si tenga conto della diversa configurazione degli abitati, per esempio delle particolari esigenze delle campagne e di abitati molto piccoli, privi di essenziali servizi, e per altro verso di quelle delle città metropolitane, che vedono per solito certi tipi di esercizi – come quelli riguardanti gli arredi per la casa, quand’anche di stretta necessità – funzionare nei comuni suburbani anziché nella città centrale o negli altri comuni dell’area; il che dovrebbe impedire come eccessivamente semplificata l’esortazione che lo spostamento delle persone debba sempre esser confinato al proprio comune. E’ invece generale e giustamente ripetuta la prescrizione di osservare la distanza di un metro fra le persone. Volendo scegliere altri giustificati esempi, potremmo indicare l’assoggettamento a quarantena (40 giorni, 14 o altra durata?) di coloro che arrivano dalle zone rosse e di coloro che sono risultati positivi o che abbiano avuto contatti stretti con casi della malattia confermati positivi e la permanenza domiciliare fiduciaria per le persone provenienti dalle aree colpite (quale sia la vera differenza di effetti tra le due misure non è chiarissimo); la sottoposizione delle persone in arrivo nei porti e aeroporti al rilevamento automatico della temperatura corporea; e, in presenza di frequenti arrivi nel Sud e nelle Isole di proprietari di seconde case, che anche prima erano stati oggetti di divieti, gli obblighi di questi soggetti di osservare la permanenza domiciliare con isolamento fiduciario. Sono notevolmente colpiti i trasporti di persone, rispetto ai quali il decreto del presidente del consiglio dei ministri dell’11 marzo, pur avendo sulle prime disatteso le proposte di una rigorosa misura di chiusura reiteratamente sostenuta dai presidenti di varie Regioni, li ha autorizzati all’adozione, nei limiti dei “casi di estrema necessità ed urgenza”, a una cosiddetta “programmazione del servizio” locale “finalizzata alla riduzione” e fino alla “soppressione” dei servizi locali. Così pure, ma in questo caso con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro della Salute, può essere oggetto di discussione l’analoga possibilità di riduzione dei servizi automobilistici interregionali e dei mezzi di trasporto aerei, ferroviari e marittimi. Così, oltre al divieto assoluto di trasporti marittimi di persone per la Sardegna, molte restrizioni sono state introdotte nei collegamenti aerei, stabilendo che resti in attività, di massima, un solo aeroporto per regione, provocando rilevanti disagi (così, a differenza della Sicilia, in cui sono aperti due aeroporti, la Sardegna del Nord, assai malagevolmente collegata a Cagliari per via interna, è stata privata di ogni collegamento aeroportuale), e sono stati gravemente ridotti i numeri di voli in arrivo anche negli aeroporti lasciati aperti. La preoccupazione che queste possibilità comportano appare evidente: si pensi alla soppressione o grave riduzione delle linee di autobus e delle ferrovie metropolitane nelle grandi città e, parrebbe, forse anche dei taxi (poiché nelle norme si parla di misure sui trasporti non di linea), e al movimento nazionale e internazionale del trasporto a grande distanza, inclusi per i primi gli effetti di produzione di diseguaglianze nei confronti di chi non ha la disponibilità di automobili e motociclette e quelli sull’incremento dell’inquinamento (benché probabilmente contenuto per effetto delle altre misure). Tutto ciò sulla considerazione della necessità di mantenere possibili i collegamenti, resi peraltro problematici dalle limitazioni di numero e capienza, a tutela di una serie di diritti fondamentali compatibili in giusta proporzione col diritto alla salute. Si ha notizia che in alcuni altri paesi sarebbe vietato che un’auto trasporti più di due persone; le ordinanze lombarde a loro volta ritengono un assembramento l’incontro tra più di due persone in luoghi pubblici. Non mancano del resto i paradossi, come quello manifestato dai servizi delle linee metropolitane milanesi che, ridotte in applicazione delle norme citate, hanno prodotto il controeffetto di caricare eccessivamente le carrozze mantenute in attività, impedendo l’osservanza della regola del distanziamento delle persone. Ma altre limitazioni in nome della tutela della salute possono derivare alla libertà personale, a quella di riunione e, più o meno direttamente, alla libertà di associazione, a quella religiosa – ma almeno alcune conferenze episcopali regionali hanno esse stesse provveduto a eliminare le messe pubbliche, pur lasciando aperte le chiese – e ad alcune modalità di esercizio della stessa libertà di manifestazione del pensiero e, naturalmente, alle libertà di attività economica, al diritto al lavoro e a quello all’istruzione. Un valore superiore possiede la libertà di manifestazione del pensiero e di informazione (e ciò spiega l’esenzione dalle più rigorose preclusioni delle rivendite di giornali, riviste e periodici; ma non, malauguratamente, delle librerie…riducendo il diritto della cultura solo alla lettura dei giornali ed escludendo i libri a cui tutti siamo ricorsi nella circostanza presente: Manzoni e Camus!). Nel complesso, pur vigilando sui comportamenti incoscienti o irresponsabili di alcuni membri della cittadinanza, si può, riteniamo, dare apprezzamento dell’autoresponsabilità largamente mostrata dai cittadini, i quali, nelle attuali circostanze, sembrano – ci pare, i commenti su questo si diversificano) uniformarsi a un principio tra i più fondamentali della Costituzione: in effetti oggi essi sono più che mai tenuti, a norma dell’art. 54.1 della Costituzione, a essere fedeli alla Repubblica e osservare la Costituzione e le leggi. —————————————– Nell’illustrazione in testa: stampa del 1700 ritraente un mugnaio intento all’opera, già utilizzata per un precedente articolo su aladinpensiero online. […]