Renzi verso uno stato napoleonico?

-napoleonbonaparte sconfitto
di Francesco Casula
Inquietanti segnali si addensano nel cielo della politica in relazione alla nuova forma dello Stato che si vorrebbe più centralista e accentrato. Addirittura “cancellando” le Regioni o comunque depotenziandole brutalmente. E sia. Ma almeno si abbia il pudore di non parlare di “Riforma” bensì di “Restaurazione”.
Infatti lo Stato, rigidamente unitario centralista e accentrato, sul modello napoleonico, lo abbiamo già conosciuto. Fu quello uscito dalla unificazione italiana nel 1861. Esso, secondo lo storico marxista Ernesto Ragionieri, nacque come “specchio e indice dei rapporti di classe allora esistenti” e si ricollega, secondo un altro storico, Giorgio Candeloro, alla “ristrettezza del ceto politico risorgimentale, identificabile nell’alleanza della borghesia agraria-mercantile-bancaria centrosettentrionale con quella terriera del Sud, comprendenti entrambe la maggioranza dei ceti aristocratici, più o meno imborghesiti, delle varie Regioni”. Quell’alleanza che Antonio Gramsci identificava sostanzialmente nel “blocco storico” composto della borghesia settentrionale e dal latifondo meridionale.
Tale ristrettezza è evidenziata esemplarmente dai dati elettorali: nel 1861 su un totale dell’1,9% degli aventi diritto al voto, votarono il 50-60% e un deputato veniva eletto con qualche centinaio di voti. Se causa di tale ristrettezza è la mancata rivoluzione agraria, la conseguenza sarà uno sviluppo economico territorialmente e regionalmente squilibrato. Infatti, a un modello di sviluppo economico che implica lo squilibrio territoriale, cioè il sottosviluppo di alcune parti del Paese – nella fattispecie la parte sarda e meridionale – è oggettivamente funzionale l’assenza di robuste Autonomie Locali. Di qui risulta chiaro il nesso e l’intreccio fra accentramento politico e amministrativo, modello di sviluppo, alleanze politiche di classe, esclusione dal potere e da qualunque possibilità decisionale della stragrande maggioranza della popolazione, specie della Sardegna e dei Meridioni d’Italia.Ogni altra soluzione diversa da quella centralistica e unitaria – ha sostenuto lo storico Rosario Romeo – sarebbe andata a vantaggio delle componenti clericali, perciò antiunitarie, filoborboniche e legittimiste. In altre parole concedere l’Autonomia rinunciando all’accentramento avrebbe significato – è lo storico Alberto Caracciolo a sostenerlo – “trasferire una parte del potere a forze che erano antagoniste rispetto a quelle che avevano guidato l’unificazione politica e l’ordinamento regionale avrebbe rappresentato un pericolo per l’unità nazionale, tanto faticosamente raggiunta”. Forze e ceti che a causa dell’esiguità e della gracilità del tessuto sociale e culturale sarebbero intenzionati – sempre secondo Caracciolo – a “servirsene in senso regressivo”. Secondo un altro storico, Carlo Ghisalberti “ l’accentramento amministrativo è di per sé un dato progressivo, in quanto connesso alla linea di sviluppo dello stato moderno”.
In altre parole lo Stato accentrato è visto come la soluzione adeguata e necessaria per l’arretratezza della società dell’epoca. La verità è che l’organizzazione e l’assetto centralistico dello Stato è coerente con il modello di sviluppo che implica lo squilibrio territoriale in cui al sottosviluppo di alcune regioni è oggettivamente funzionale l’assenza di robuste autonomie locali. Infatti dei governi regionali che avessero tratto legittimazione da una investitura più vasta di quella denunciata dalla percentuale di elettori sopra citata, e fossero stati provvisti del potere di orientare la politica e l’economia locale in senso conforme agli interessi delle rispettive popolazioni, avrebbero potuto respingere e avrebbero respinto un tipo di sviluppo che imponeva e richiedeva il sacrificio economico sociale delle loro Regioni.
La Questione delle Autonomie locali inizierà a emergere in seno al Movimento cattolico e al Movimento socialista solo negli ultimi anni dell’800, in connessione con la crisi acuta di quel periodo; si inabissa durante l’età giolittiana; riappare dopo la fine della grande guerra, in concomitanza con la fase critica più acuta della società e dello Stato; tace o è fatto tacere durante il Fascismo che impone coattivamente il superamento di tale fase e la conservazione del precedente schema di sviluppo. Il regime fascista comunque – è bene ricordarlo – non imporrà l’accentramento a un ordinamento caratterizzato dalle Autonomie ma si limiterà a portare a più coerenti conseguenze autoritarie e centralizzatrici strumenti e tendenze che erano già abbondantemente presenti nel regime liberale, giolittiano e prefascista.
La Questione dell’Autonomia riemergerà con forza con la fine del regime fascista e con la Resistenza. Essa infatti per come nasce, si sviluppa e si svolge ha – è Leo Valiani a sostenerlo – “un carattere intrinsecamente regionalistico” : pensiamo ai CLN Regionali, e alle repubbliche partigiane che in qualche modo rappresentano dei modelli prefigurando e precostituendo tratti del futuro nuovo Stato democratico per il quale i partigiani combattono. Il processo di restaurazione moderata postbellica tenderà a spazzare via le esperienze regionalistiche. Fra l’altro verranno ripristinati i Prefetti di carriera che rappresentavano uno degli strumenti fondamentali dello Stato prefascista e fascista e comunque espressione esemplare e paradigmatica dello Stato napoleonico, ottocentesco e accentrato. Prefetti che permarranno anche con il tenue e anemico “regionalismo” prima concesso alle Regioni a Statuto speciale nel ‘48 – fra cui la Sardegna – e in seguito, negli anni Settanta alle rimanenti regioni e ancora oggi con l’abolizione delle Province. Prefetti che, temo, acquisiranno persino ruoli e poteri maggiori all’interno del disegno renziano di restaurazione di uno stato viepiù accentrato, e centralista. Qualche studioso e analista paventa persino uno Stato autoritario, – sia pure senza manganello – specie in seguito alla nuova Legge elettorale e al disegno di modifica istituzionale e costituzionale.
——————————————————
Quelli della playstation e gli altri
di Raffaele Deidda

L’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli, all’indomani delle amministrative, ha lanciato un tweet al vetriolo: “Elezioni 2015, alcuni commenti pd ai risultati sembrano condizionati da un voto letto alla Playstation“. Si riferiva alla foto con Matteo Renzi e il presidente del Pd Matteo Orfini mentre, maneggiando i joystick di una playstation, giocano a Pro Evolution Soccer, uno dei videogame di calcio più diffusi, in attesa dei risultati elettorali.

A commento della foto, ormai virale, l’ironia della rete fa dire a Renzi: “Ho vinto 5 a 2” e a Orfini: “Il goal di De Luca era fuori gioco”. In realtà Renzi ha detto “Abbiamo vinto 5 a 2” (un plurale maiestatis?). Orfini, senza citare De Luca, ha commentato: “La Campania chiude un ciclo molto positivo per noi nel Mezzogiorno.” La vittoria di De Luca, fuori gioco in quanto impresentabile per la Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi, ha alleviato i dispiaceri prodotti al Pd (non a tutto) dal voto in Liguria dove ha vinto il berlusconiano Toti e del Veneto, dove il leghista Zaia ha doppiato la candidata del Pd , la ladylike Alessandra Moretti.

De Bortoli ha qualche ragione se il 5 a 2 di Renzi viene letto con dati più splittati. Il primo è che ha votato poco più del 50% degli elettori. Il secondo è che rispetto alle precedenti elezioni Regionali, l’affluenza alle urne registra un calo medio del 10%. Un dato di cui sarebbero responsabili le liti, secondo il presidente della Repubblica Mattarella. In realtà c’è stata una campagna elettorale caratterizzata da faide e guerre. Prendendo in considerazione le regioni dove il Pd è stato sconfitto, la situazione non appare rosea.

Alle Regionali del 2015 in Liguria il Pd prese 140.000 voti. Nel 2010, 220.000; alle Europee del 2014, 320.000. In Veneto alle Regionali del 2015, 271.000; nel 2010 furono 456.000. Alle Europee i voti per il Pd erano stati 900.000: fu eletta parlamentare europea Alessandra Moretti. Si spiegano così il tweet di De Bortoli e quel 5 a 2 presentato da Renzi come un ottimo risultato, ininfluente nella tenuta del Governo. Difficile per il premier-segretario riconoscere che il Partito della Nazione, che avrebbe dovuto raccogliere massicci consensi, non ha prodotto i risultati sperati come pure il processo di rottamazione che avrebbe dovuto sostituire le cariatidi con giovani amministratori, tutti di fede renziana.

De Luca non è un giovane amministratore. Non lo sono Emiliano in Puglia e molti del Pd che hanno importanti incarichi. In Sardegna si sono dichiarati renziani tra i tanti il Presidente della Regione, il Segretario regionale del Pd, il Sottosegretario dei Beni Culturali. Dov’é la rivoluzione giovane di Renzi?

Dov’é la conclamata nuova moralità che la rivoluzione renziana doveva apportare se il Pd prima vota un codice di autoregolamentazione che vieta la candidabilità di chi è stato condannato e poi, quando è applicato, accusa la Commissione competente di sporchi giochi politici? E’ questa la nazione dove la legge è sovrana e dove vanno al governo i migliori? L’Italia sembra, invece, un Paese sempre più diviso fra coloro che soffrono nel constatare il persistere di una politica opportunista e corrotta e coloro che se ne fregano e sostengono politici impudenti. Poi, ci sono quelli della playstation.

- By sardegnasoprattutto/ 3 giugno 2015 / Società & Politica/

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>