Riportare Sa DIE, festa identitaria della Sardegna, sul suo solco primario e originario, amplificando una rete diffusa di consapevolezze, sentimenti e valori comuni di sardità. Promuovere la produzione di significati di appartenenza e di relazione e progettualità convergenti nell’orizzonte di una patria comune

pablo-e-amiche sa dieUNA RIFLESSIONE SU SA DIE DE SA SARDIGNA
rudas1di Nereide Rudas, su Fondazione Sardinia
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La scommessa è quella di far mantenere ai giovani sardi una rinnovata autoconsapevolezza della loro specificità…. metterci alle spalle le sconfitte, le illusioni e le de-lusioni, le vergogne, le invidie, i naufragi e camminare liberi, a viso aperto, insieme agli altri popoli della terra. Nereide Rudas presiede il Comitato per SA DIE de sa SARDIGNA.
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A distanza di circa un mese dall’ultima edizione di SA DIE è forse utile avanzare una riflessione sulla sua celebrazione e sul suo significato.
Pur non avendo partecipato (se non come testimone) alla sua nascita e al suo exploit iniziale, a me sembra che questo evento simbolico si sia trasformato nel tempo. Nata come festa identitaria fondante, si è viva via offuscato, subendo, nella diacronia, una torsione di significato.
Il discorso si amplia e ritorna ai suoi quesiti iniziali su cosa s’intenda, in generale, per identità, e cosa s’intenda nell’oggi l’identità sarda o sardità.
Una prima osservazione i suoi aspetti, le sue caratteristiche e dinamiche e le sue prospettive. Il tema identitario, come più volte ripetuto, si è imposto, oltre che all’attenzione politica, a quella culturale e sociale.
Con le sue scansioni-tensioni, con le sue emergenze cadute e silenzi, il problema identitario ha attraversato tutto il Novecento per giungere come discorso aperto sino a noi. Ma proprio nell’oggi l’identità dell’Europa, a cui apparteniamo, attraversa un drammatico snodo. Allo scenario unificante della frantumazione delle frontiere (Unione Europea) e alla spinta della globalizzazione, necessariamente omologante, si affermano notevoli controspinte. Oltre all’emergenza di grandi masse extraeuropee che premono ai nostri confini, si sollevano le voci di piccole e grandi patrie in difesa della propria specificità. Nasce l’esigenza di tutelare la propria diversità, quale bene da custodire e tramandare non solo sul proprio ambito, ma come valore generale prezioso per tutti. Ovviamente questa legittima esigenza non deve caricarsi di rischi e spinte nazionalistiche di chiusura e di estremismo nazionalistico.
La problematica identitaria è particolarmente partecipata e discussa in Sardegna. L’identità etnica, storica, linguistica e sociale, in altre parole la “sardità”, rappresenta una categoria ben individuata da una vasta letteratura di varie discipline scientifiche.
Nonostante che sulla nostra entità peculiare e distinta si sia basata l’istituzione di un ordinamento di Regione Autonoma ad ampia autonomia speciale, il Governo regionale non è stato mai capace di esprimere una politica culturale specifica, adeguata all’Isola e alla sua identità. Si è limitata a gestire burocraticamente la cultura.
In questo clima, il Governo Regionale non ha mai vissuto Sa DIE come giornata fondante la sua stessa esistenza.
Così SA DIE è diventata una festa generica, aspecifica, omologabile alla festa della mamma e del papà, etc…
I segnali di questa torsione di significato sono molteplici. Essi parlano di una Regione che, pur non dichiarandolo apertamente, non vuole SA DIE. O meglio, non la vuole nella sua specifica essenza. Perciò la sradica dal suo solco primario e la traveste da contenitore multidimensionale, da festa contingente (i Corsi, i Migranti: quest’anno. C’è da attendersi qualche nuovo argomento d’attualità per l’anno prossimo). Pur in una confusa e discontinua pratica culturale, la Regione ha messo preferenzialmente il piede sull’acceleratore di una malintesa modernità. La sua posizione tende a conformarsi a quella che ho, altrove, definito “integrazionismo radicale”.
Desiderosi di futuro, gli “integrazionisti radicali”, sono scarsamente attenti al proprio passato e alle proprie radici. Considerano, in cuor loro, il sardo, pur non affermandolo apertamente, una lingua limitata e non idonea ad una prospettiva moderna. Propugnano l’esigenza e la ricerca di collegamenti esterni, per creare una Sardegna al passo dei tempi. Ma chi insegue un integrazionismo a tutti i costi, chi sente come arcaico l’uso del sardo in un mondo che parla prevalentemente l’inglese, dovrebbe considerare un serio pericolo: in tempo di globalizzazione, c’è infatti il grave rischio di essere schiacciati e appiattiti su patterns esterni, restando assimilati senza speranza al modello dominante. In altre parole c’è l’azzardo di perdere la propria identità, alienandosi.
Analoghi rischi di perdita dell’identità corre, ovviamente, chi sostiene e difende la posizione opposta ed estrema di un ”autonomismo radicale”. Gli “autonomisti radicali”, volti alla propria terra e alle sue tradizioni, sono guardinghi e diffidenti verso il confronto, perché temono (e non del tutto a torto) le condizioni svantaggiose, se non prevaricanti, in cui il confronto dovrebbe avvenire. L’Isola, d’altronde, anche nel suo passato, non ha mai usufruito di condizioni paritetiche e simmetriche di confronto e di scambio, ma ha sempre dovuto subire condizioni di prepotenza e dominio. Ed è quindi comprensibile la tentazione di chiudersi, di difendersi e persino di arroccarsi.
Queste posizioni si rispecchiano peraltro in molte altre situazioni, come dimostrano le “turbolenze” delle piccole e non solo piccole (Catalogna, Scozia, etc.) patrie. Si tratta dunque di fenomeni non solo sardi ma mondiali.
Ma la chiusura e l’isolamento, lungi dal favorire l’identità, la dissolvono. L’immersione chiusa nelle proprie radici non porta all’identità, ma alla sua perdita. Isolandoci rischiamo di uscire dalla storia e dal mondo e, in ultima analisi, da noi stessi. Entrambe le prospettive portano dunque alla dis-identità.
Per quanto riguarda la storia più recente la massima pressione integrazionista si è verificata con il fascismo e con i suoi fanatismo nazionalistici. Per tale periodo – credo di ricordare – che si sia addirittura parlato di Sardegna come “colonia interna” dell’Italia. E i coloni si dovevano necessariamente italianizzare, diventare italiani o – come diceva Cicito Masala – diventare “italioti”, neologismo che suggerisce facili, ma offensive rime.
Superato il fascismo, il diffondersi sulla cultura del pensiero marxista, che si muoveva essenzialmente in un orizzonte internazionalistico, ha quasi ovunque oscurato l’esigenza identitaria di gruppi, popoli ed etnie. In Sardegna questa è stata parzialmente difesa, sulla scorta del pensiero di Gramsci, dall’azione politica illuminata di Renzo Laconi e Umberto Cardia.
Ma su di essa ha purtroppo pesato una esasperata conflittualità. Non ci fu solo una “guerra fredda” che contrappose il mondo su due blocchi antitetici, ma ci fu un conflitto, una divisione (o meglio uno “splitting”, cioè una “scissione” psicologica) interna che attraversò la coscienza di una moltitudine di sardi e di uomini di tutto il mondo. In questa nuova e durissima guerra tra “guelfi” e “ghibellini”, le parti “buone” degli altri furono, psicanaliticamente, omologate al ‘sé’, mentre quelle “cattive” furono espunte dal ‘sé’. Gli avversari politici, spogliati dell’intera personalità, ma parcellizzati in “parti buone” e “parti cattive”, da antagonisti divennero nemici da espellere e abbattere. L’identità nel suo valore unificante subì un attacco quasi mortale.
Alla fine del secondo conflitto mondiale la Sardegna si trovò povera e divisa. La classe politica regionale non seppe sfruttare le energie innovative che scaturivano dall’istituzione dell’Autonomia Speciale e dalla profonda trasformazione della struttura dello stato. Ma neanche la classe intellettuale riuscì a superare i motivi dei conflitti interni ed esterni nella prospettiva di una nuova fase di civilizzazione.
Ci adattammo ad una posizione di subalternità e di marginalità, ma non comprendemmo appieno neanche il potenziale energetico, creativo e produttivo della nostra condizione.
Margine (da cui marginalità) può infatti essere inteso in una duplice linea di significato e prospettive. L’”essere-al-margine” può essere inteso come essere marginalizzato, escluso, lontano dal centro del potere, etc. Cioè “essere fuori”. Ma l’ “essere-al-margine” può invece essere colto come essere sul confine, “essere-tra-due-mondi”, due weltanshaung. E chi ha esperienza e conoscenza di due mondi è potenzialmente più ricco, esperto e capace di chi è monocentrico.
Purtroppo sia la classe politica dirigente che noi stessi intellettuali non abbiamo saputo/potuto seguire la linea innovativa e dialettica dell’ “essere-tra”, appiattendoci sul ruolo di parenti poveri, queruli e richiedenti.
Eppure avevamo già avuto l’esempio e l’insegnamento dei grandi Maestri, che avevano vissuto il margine, rovesciandolo positivamente in forza innovativa e propulsiva per il proprio popolo.
Grandi Maestri e in primis: Emilio Lussu. Egli diventa completamente sardo, anzi il prototipo e l’essenza stessa della sardità nell’esperienza della Grande Guerra. E’ nel cieco mondo della trincea, che vive in prima persona, sperimenta l’essere sardo, insieme ad altri sardi.
E’ appunto, davanti al filo spinato e alla terra di nessuno che il giovane arrivato da Armungia diventa il Capitano Lussu, comandante della Brigata regionale Sassari. E’ lì che si cala nella smisuratezza del gigantesco e lacerante Evento-Guerra e si trasforma e ricostruisce nella sua piena identità. Egli combatte la guerra da sardo, perché da sardo la concepisce, come concepisce la vita e la morte secondo una specifica visione del mondo. L’eroismo suo e dei suoi limiti non è che una delle possibili conseguenze della loro specifica modalità di esistenza.

Da questo forse troppo lungo discorso si possono trarre alcune brevi conclusioni.

Occorre:
- consolidare, rafforzare e sviluppare la nostra identità coniugandone i due segmenti costitutivi: a) autocoscienza = radici, lingua = tradizione; b)scambi, confronti, relazioni in un orizzonte solidaristico di progettualità.

- Riportare Sa DIE, festa identitaria della Sardegna, sul suo solco primario e originario, amplificando una rete diffusa di consapevolezze, sentimenti e valori comuni di sardità. Promuovere la produzione di significati di appartenenza e di relazione e progettualità convergenti nell’orizzonte di una patria comune.

Queste mete non sono utopiche, ma realisticamente realizzabili mediante un enorme e coinvolgente progetto culturale collettivo, affidato soprattutto ai giovani.

La scommessa è quella di far mantenere ai giovani sardi una rinnovata autoconsapevolezza della loro specificità: di far diventare i giovani sardi cittadini del Mondo, conservando i significati e i valori della loro piccola patria. Ma la scommessa è anche quella di farli diventare veri abitanti della Sardegna, in quanto abitanti del Mondo.

Potremo così metterci alle spalle le sconfitte, le illusioni e le delusioni, le vergogne, le invidie, i naufragi e camminare liberi, a viso aperto, insieme agli altri popoli della terra.

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