BREXIT le mosse attuali

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lampadadialadmicromicro13Come promesso sul precedente numero di Rocca (n. 15 del 1° agosto 2016) Umberto Allegretti prosegue le sue riflessioni sull’esito referendario della Gran Bretagna, aggiornate con le ultime novità. Puntualmente anche noi di Aladinews riprendiamo il suo articolo (apparso sul successivo numero di Rocca, n. 16-17 agosto/settembre 2016) ribadendo l’importanza delle questioni nella prospettiva del “che fare?” per l’Europa. Ringraziamo anche in questa circostanza la redazione di Rocca e, in particolare, il direttore Gino Bulla, auspicando che si concretizzi l’idea degli “Amici sardi della Cittadella di Assisi” per l’organizzazione di un’apposita conferenza di Umberto Allegretti a Cagliari, in collaborazione con l’associazione culturale “Stampaxi” e con la Fondazione di Sardegna.

di Umberto Allegretti, su Rocca n. 16-17 agosto/settembre 2016*

Dopo un mese dal referendum che ha votato per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (23 giugno), le sue conseguenze non sono chiare né nel Paese protagonista né nei suoi partner europei. La diversità e contraddittorietà delle idee espresse per darvi seguito sono infatti apparse massime; sembra che, come diceva Mao, grande sia la confusione sotto il cielo.
uno stato confusionale
Confusione, innanzi tutto, nella stessa Gran Bretagna: non tanto per la permanente volontà di adesione all’Ue da parte della Scozia, che pone problemi non semplici, e per l’ulteriore anche più complicato passo che potrebbe tentare nella stessa direzione l’Irlanda del Nord. Ma, prima di tutto, per gli effetti prodottisi in seno alle diverse parti politiche del Regno Unito. I dissensi sono solo in parte riflesso delle differenze di voto tra l’elettorato giovanile (che ha però votato unicamente per il 30%) e quello colto e londinese che hanno in maggioranza votato Remain, mentre gli anziani, le zone interne e le regioni proletarie si sono prevalentemente espressi per il Leave, ma con un tasso di presenza elettorale di circa l’80%. Maggiori sono i dissidi di origine largamente personale tra i leader in seno ai vari par- titi, tanto da far parlare, in Gran Bretagna e fuori, di un dramma shakespeariano di tradimenti (con tanto di presenza di lady Macbeth nell’opera di incitamento della signora Gove verso il marito già candidato). Alla fine le lotte in seno al maggioritario Partito conservatore hanno trovato un epilogo nella designazione alla presidenza di Theresa May, la quale ha rapidamente formato il proprio governo.
Nonostante qualche resipiscenza nel Paese rispetto al risultato del voto, senza peraltro possibilità di una seconda consultazione popolare e semmai con l’eventualità di convocare nuove elezioni generali per ricavare chiarezza sulle tendenze dell’elettorato, le prime dichiarazioni del nuovo governo e la sua stessa composizione (che include un personaggio controvertibile quale il già pro-Brexit Johnson) non hanno un contenuto rassicurante.
Anche nell’Unione le reazioni non sono univoche. A parte quelle di favore per il risultato referendario quelle, prevalenti, di sfavore hanno avuto diverso andamento. Alcuni leader, come il capo del governo italiano, si sono espressi per una veloce condotta delle trattative sulla fuoriuscita effettiva del Regno Unito, richieste dal Trattato di Lisbona per regolare i complessi problemi risultanti dall’abbandono di uno Stato membro. Altri, come nell’iniziale atteggiamento della maggiore rappresentante politica dell’Europa, la tedesca Angela Merkel (ma non del suo super-ministro Schaüble), hanno invece patrocinato un’uscita morbida e lenta, per ragioni che non appaiono del tutto chiare e coerenti. La prima tesi sembra ormai prevalere.
trattative Ue-Gran Bretagna
Si arriva però ai limiti della farsa quando da personaggi di entrambe le parti taluno auspica che il rapporto tra Gran Bretagna e Unione resti quello di «amici, alleati, partner», quasi che sia possibile, come è stato con humour rilevato, che «esista una mezza strada fra il divorzio e la stabilità dell’unione». Proprio questa seconda è la posizione della politica britannica, che aspira alla costruzione di un legame tra Ue e Uk simile al rapporto dell’Unione con la Norvegia (si vorrebbe addirittura un «Norway plus»). Ma può un componente, fuoriuscito da un’unione che gli ha accordato tante deroghe e privilegi rispetto agli altri membri, pretendere ora uno statuto ancor più privilegiato?

Guardando poi alla sostanza, nonostante la convinzione secondo cui ci sono nella struttura dell’Unione e nelle sue politiche carenze che hanno provocato l’atteggiamento dell’elettorato britannico e potrebbero provocarne di simili in altri Paesi, i divari si fanno anche maggiori. Se tutti coloro che non hanno una pregiudiziale nazionalistica auspicano un potenziamento dell’unità europea in direzione federale che dovrebbe tradursi in modifiche profonde delle istituzioni, c’è divisione tra chi ritiene che, proprio attribuendo il Brexit alla mancanza di un vero progresso in senso federale, è tempo di por mano a inno- vazioni di questo tipo. E chi invece è dell’opinione che non è questo il momento per procedere a modificazioni organizzative che i popoli europei, e soprattutto quelli dell’Est, attestati su posizioni fortemente «nazionali», avvertirebbero come una sfida inadatta alla situazione attuale, nella quale essi sentono piuttosto il bisogno della soluzione di problemi politici, economici e sociali.
È certo che sono da migliorare la politica economica e quella bancaria, la crescita e l’occupazione giovanile, la politica culturale e di ricerca e la sicurezza. Cameron ha spiegato – e i primi atteggiamenti del governo May, nettamente di destra malgrado qualche cenno a un miglioramento della politica sociale, lo confermerebbero – che la ragione fondamentale del Brexit sta nell’insoddisfazione inglese in merito alla libera circolazione delle persone, perfino tra Regno Unito e partner europei, benché la politica migratoria (tranne in parte nel caso tedesco) non sia certo ampia né solidale. Per molti, troppi, l’enfasi sulla sicurezza porta a una politica di immigrazione restrittiva, senza valutare quali gravi condizioni portano, non solo i popoli in guerra aperta come la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan, ma quelli della cerchia della fame – l’Africa subsahariana innanzi tutto – a affrontare la morte in mare o nelle lunghe marce nel deserto e lungo i Balcani. E quindi si manca soprattutto al consenso necessario a una delle migliori proposte di Renzi, quella di una sorta di «Piano Marshall per l’Africa» (proposta che abbiamo personalmente sentito condividere da un personaggio certo non secondario come Prodi), dotato delle necessarie garanzie ma che elevi il tenore di vita di quei Paesi e spinga la gente a rimanervi.
la questione bancaria
La questione bancaria vede forti contrapposizioni tra i governi italiano e tedesco, il primo deciso a un eccezionale intervento di Stato per salvare i risparmiatori dalle difficoltà di una serie di istituti di credito, il secondo contrario; solo di recente sembrano delinearsi (ma ancora, mentre scriviamo, con grosse incertezze) possibilità più vicine alla posizione del nostro Paese. Analoga contrapposizione continua a sussistere sulla questione dei bond europei, voluti da Paesi come l’Italia e negati dalla Germania, ossessionata dalle paure di una sua responsabilità economica. Se queste ed altre cose non si fanno, per esempio nelle politiche sociali, ciò in parte dipende dall’«indebolimento della Francia», così che la Germania sembra un protagonista dell’Unione drammaticamente «solitario» (così ancora Prodi, e Habermas sul Corriere della Sera del 10 luglio è arrivato a dire che la sua patria è «un’egemone riluttante», «insensibile ed incapace»).
Il cambiamento delle politiche va chiesto dai popoli con più forte voce, senza perciò andare alla rottura, che non farebbe se non danni maggiori. Oppure dobbiamo pensare che gli atteggiamenti dei membri europei dell’Est siano l’ultimo frutto avvelenato del comunismo sovietico, in cui a un’ideologia ipercapitalistica si accompagna una scarsa propensione alla libertà e alla solidarietà? Giustamente scriveva poco tempo fa Napolitano che, se non vogliamo ritenere che la loro simultanea ammissione all’Unione sia stato un errore, un errore sicuramente fu non far capire loro bene quali limitazioni di sovranità e quali obblighi di solidarietà erano a base di quell’adesione.
Al momento attuale – se il Brexit è il «suicidio» dell’Uk (così lo si è sentito giustamente chiamare da Prodi) e anche «l’omicidio» dell’Unione – è assai meno prevedibile che cosa accadrà dell’Ue dopo quest’evento. Ma è lecito esprimere una previsione non pessimistica. Vedendo i danni che certamente il Brexit sta provocando nella vita europea, la minaccia di uscita dall’Unione di altri Paesi o di loro porzioni dovrebbe essere meno probabile e i nocumenti all’economia del Continente potrebbero, con saggi comportamenti, essere ben dominati. E infatti, secondo un’inchiesta di cui dà atto Le Monde, nella mag- gior parte dei Paesi membri (ma il maggior pessimismo si verificherebbe proprio in Italia) dopo il Brexit si starebbe producendo una rinascita di sentimento pro-europeo e perfino pro-euro.

* ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2016
Rocca 16-17 ago stt 2016
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dormiente Matisse FM
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paris

3 Responses to BREXIT le mosse attuali

  1. Aladinews scrive:

    Il voto che ha diviso. Il 23 giugno il «partito» della Brexit ha vinto il referendum: il Regno Unito non rimarrà nell’Unione europea

    15/08/2016
    ALESSANDRO BARBERA su La Stampa
    ROMA
    Era il 24 giugno. Doveva essere l’alba del Regno Unito indipendente, e invece niente. Prima di partire per le vacanze nella libera Svizzera Theresa May annunciava la richiesta di uscita dall’Unione europea «all’inizio del 2017», e invece niente. Fonti citate dalla Stampa e dal Times raccontano una verità diversa. La richiesta formale di uscita potrebbe partire a maggio, o dopo le elezioni politiche tedesche, e per questo la Gran Bretagna potrebbe rimanere membro a tutti gli effetti dell’Unione almeno fino a Natale del 2019.

    A gestire le complicate conseguenze della Brexit non sono pronti né il governo di Londra, né quello francese, né tantomeno quello tedesco. A Parigi si vota in primavera, a Berlino in autunno, ma prima di allora Angela Merkel ha due test elettorali importanti, nella capitale e nel Lander più grande di Germania, in Nordreno Vestfalia. La destra populista non ne vuol sapere di pagare il conto dell’uscita di Londra (undici virgola tre miliardi di contributi al bilancio comunitario) e così nel faccia a faccia di metà luglio la Merkel ha chiesto alla collega di prendersi tutto il tempo necessario. La leader tedesca vuole che a gestire la trattativa sia il pletorico Consiglio europeo a 27, e non il negoziatore scelto dalla Commissione, Michel Barnier. Del resto come si fa a chiedere l’uscita dall’Unione mentre le Borse di Londra e Francoforte annunciano le nozze fra gli squilli di tromba?

    «C’è un’enorme differenza fra uscire dall’Unione e mantenere le nostre relazioni con l’Europa», diceva in luglio il neoministro degli Esteri Boris Johnson. La politica londinese sembra contagiata dall’arte tutta italiana della retorica e del traccheggio. Nel governo May ci sono due ministri impegnati a gestire le conseguenze del referendum. David Davis è segretario alla Brexit, e deve assumere cinquecento collaboratori: per ora ne ha meno della metà. A Liam Fox, il ministro per il Commercio internazionale, servono mille esperti: il Times racconta che ne ha trovati un centinaio. Si dice che un buon leader politico dovrebbe avere un piano anche in caso di sconfitta, Wolfgang Schaeuble osserva sarcastico che i sostenitori della Brexit non avevano un piano nemmeno per gestire la vittoria.

    Per spostare più in là il momento delle decisioni ci sono ottimi argomenti. La Gran Bretagna deve anzitutto decidere quando presentare la domanda di uscita, e la Merkel ha detto che la scelta spetta a Londra nei tempi che riterrà opportuni. Poi il Consiglio europeo dovrà discutere le «linee guida» della trattativa. Fatto questo scatteranno i negoziati veri e propri – sempre con il Consiglio – il quale dovrà approvare l’accordo con una maggioranza qualificata di venti Paesi pari al 65 per cento della popolazione. Se e quando ci sarà l’accordo, il Parlamento europeo dovrà ratificare. Non è detto che ciò avvenga in due anni: il Consiglio (stavolta all’unanimità) potrà concedere una proroga. Due anni servirono alla Groenlandia per gestire il suo divorzio, e l’unico serio argomento di discussione era la pesca.

    «Avevamo sentito dire dalla signora May “Brexit is Brexit”», dice con disappunto il sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi. Vista da Roma l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione non è drammatica come per Berlino. Anzi, la speranza era di poterci guadagnare qualcosa, come lo spostamento a Milano dell’Autorità bancaria europea o di qualche banca d’affari. «L’ipotesi di rinviare di un anno la richiesta inglese è una pessima notizia, fonte di grandi incertezze». Difficile immaginare che Matteo Renzi possa farne una questione di principio, di qui all’autunno ha ben altri problemi. Ma se i primi sponsor del traccheggio inglese sono Berlino e Parigi, è probabile che faccia di necessità virtù e tratti il suo sostegno.

  2. Aladin scrive:

    Dopo gli annunci e le previsioni arrivano i dati. Il costo della Brexit inizia pian piano a definirsi. A meno di due mesi dal referendum che ha avviato l’addio del Regno Unito all’Ue e a quasi un mese dall’arrivo del nuovo esecutivo britannico, i costi della Brexit diventano tangibili. Aumento dell’inflazione, aumento dei prezzi di beni e servizi e allentamento della domanda, con conseguente aumento dei costi per i produttori. Soltanto nel mese di luglio il Regno Unito ha visto crescere dello 0,6% il livello dell’inflazione, che per la Bank of England dovrebbe arrivare a toccare quota 3% nel 2017. Si tratta del più forte aumento registrato dal novembre 2014. Il trend dell’alta inflazione associata a una sterlina debole – il pound ha perso almeno 10 punti percentuali rispetto al dollaro – con il conseguente aumento dei prezzi dell’import, preoccupa economisti e grandi aziende.

    L’aumento dell’inflazione ha colpito per ora il trasporto ferroviario, con un aumento dei prezzi dell’1,6% soltanto nell’ultimo mese, ma anche bevande alcoliche, tabacco e i prezzi di ristoranti, alberghi e materie prime.

    Per ora nessuno osa dirlo a gran voce, ma se prolungato, il mix di alta inflazione, bassi consumi e crescita lenta o pari a zero significa soltanto una cosa: recessione. Uno scenario che per la verità tanto la Bank of England quanto l’Office for the National Statistics avevano previsto chiaramente già durante la campagna referendaria, ribaltato dai sostenitori della Brexit. Sempre la Bank of England, che per ora non sembra particolarmente preoccupata per il livello dell’inflazione, non ha escluso ulteriori tagli ai tassi di interesse, per l’istituzione i timori più forti arrivano dal rallentamento della crescita e un’improvvisa impennata della disoccupazione.

    Per chi, tra i cittadini britannici, ritiene la Brexit un fenomeno lontano e intangibile, gli effetti rischiano di essere molto più che concreti. Ad oggi il rischio di cui Bank of England e l’Office for the National Statistics parlano è quello di una lenta e lunga impasse economica dalla quale il Paese uscirà fortemente indebolito e più diviso che mai. I primi a risentire gli effetti negativi saranno proprio i lavoratori meno qualificati che a fronte di un incremento dei prezzi vedranno praticamente azzerarsi il proprio potere di acquisto.

    Per il think tank Resolution Foundation nemmeno la prospettiva di tagliare il numero degli arrivi di migranti intra Ue riuscirà ad avere gli effetti propagandati durante la campagna referendaria. Meno migranti europei significa certo meno concorrenza nella ricerca del lavoro, ma non conseguente aumento sostanziale dei salari per i meno qualificati né automatica occupazione per chi è alla ricerca di lavoro. In un mercato dove la forza lavoro fino a oggi è stata altamente mobile, garantire la piena rispondenza della forza lavoro nazionale all’offerta delle aziende non sarà un processo immediato, con il risultato che la prima conseguenza per anni sarà un taglio dei posti e non un loro aumento. I sindacati e alcuni analisti prevedono una diminuzione brusca dei salari già a partire dal prossimo anno, con conseguenze prevedibilmente negative a livello sociale.

    Le performance economiche britanniche dell’ultimo mese vengono lette in modo diverso da economisti e analisti. Non manca chi guarda in modo scettico all’immediato legame tra alta inflazione e Brexit.

    Certo è però che la Brexit è intervenuta su un’economia in crescita e senza particolari problemi, cosa che in qualche modo alimento l’incredulità degli investitori, la cui fiducia verso il Regno Unito è in perenne calo dal 23 giugno, crollata del 6,8 nel solo mese di luglio. All’estero, insomma, per ora si hanno poche speranze di vedere Londra compiere un miracolo economico nella situazione in cui si trova. Oltre all’incertezza economica si respira in queste ore anche un’incertezza politica.

    Con la pausa estiva che si avvia al termine, l’autunno si preannuncia già denso di ostacoli e sfide importanti. Theresa May dovrà spiegare esattamente le tappe e i modi attraverso cui avvierà il divorzio da Bruxelles. Dal lato europeo le cose non vanno molto meglio. L’avvicinarsi di elezioni cruciali in Germania e Francia potrebbe far slittare la Brexit addirittura al 2019. Uno scenario che si augurano in pochi, perché avrebbe la sola conseguenza di prolungare le incertezze sul blocco dei 27 Paesi Ue e parallelamente quelle del Regno Unito.

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