Dibattito sul dopo Brexit. Che si fa dell’Europa?

lampadadialadmicromicro133Dopo l’intervento di Umberto Allegretti, sullo stesso argomento riprendiamo da il manifesto sardo la riflessione di Gianfranco Sabattini, del quale ci permettiamo rimarcare le conclusioni: …o si resta in Europa e si rinnova l’impegno, senza alcuna pretesa revanscista, a realizzare l’unità; oppure sarà il caso di pensare di ricuperare la piena autonomia decisionale del Paese, liberato da ogni vincolo esterno falsamente europeo, per la tutela dei propri interessi, fuori però da ogni sorta di machiavellismo.

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Miglioramento del “posto a tavola” dell’Italia e processo d’integrazione europea
di Gianfranco Sabattini su il manifesto sardo n.220

Fra le riflessioni suscitate dal voto con cui il Regno Unito ha deciso di chiamarsi fuori dall’Europa, ve ne sono alcune che sono a dir poco sorprendenti, se non incomprensibili, almeno dal punto di vista della prosecuzione del processo di attuazione del disegno europeo; incomprensibili, perché quelle riflessioni, intorno alle possibili conseguenze di Brexit, provengono da soggetti che, a volte, sottolineano l’urgenza di ulteriori avanzamenti sulla via dell’integrazione dei Paesi europei per risolvere i problemi che maggiormente affliggono il Vecchio Continente; a volte, come sta accadendo in questi giorni, essi evidenziano le conseguenze positive delle quali possono avvantaggiarsi i singoli membri dell’Unione Europea relativamente agli altri, come se il processo d’integrazione dell’Europa potesse essere accelerato, non attraverso rapporti collaborativi e solidaristici, ma attraverso rapporti competitivi, sorretti dalla propensione dei Paesi motivati a migliorare la loro forza contrattuale nel portare a compimento il progetto comune.

Le riflessioni svolte in tal senso risultano ancora più gravi, se si pensa che esse, anziché favorire un processo di attenuazione dell’euroscetticismo all’interno di alcuni Paesi molto critici nei confronti delle politiche delle istituzioni europee, hanno l’effetto di rendere dubbiosi anche molti di coloro che ancora credono nel progetto di un’Europa Unita, non valutando conveniente perciò che, dopo Brexit, ciascun Paese debba agire, a livello di relazioni globali, al fine di aumentare il proprio “peso” internazionale, per meglio soddisfare i propri interessi; è inevitabile che di fronte a simili riflessioni, chi non avesse ancora maturata una posizione euroscettica si convinca definitavene che l’Europa residua, anziché risultare ancora impegnata sulla via dell’integrazione, risulti invece molto probabilmente prossima alla sua definitiva disintegrazione.

Per rendersi conto del modo di ragionare “antieuropeo” di alcuni commentatori, propensi a valutare positivamente la fuoriuscita del Regno Unito dall’Europa, dal punto di vista degli interessi dei singoli Paesi, può essere sufficiente riferirsi, sia all’articolo di Germano Dottori (“Una grande opportunità per l’Italia”, in Limes n. 6/2016), sia quello breve Lucio Caracciolo (“Quale posto ci tocca in questa Europa”, in “la Repubblica” del 13 luglio scorso).

Dottori, nel suo articolo, esordisce affermando esplicitamente che il “voto britannico dello scorso 23 giugno ha forse posto nelle mani del nostro Paese un paio di splendide carte da giocare per migliorare la propria posizione nello scacchiere internazionale. Salvo ripensamenti… l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea dovrebbe in effetti comportare una rivalutazione del peso geopolitico italiano nelle istituzioni comunitarie”. Più che la possibile nuova rilevanza che l’Italia potrà assumere all’interno dei Paesi europei, a parere di Dottori, conterà il fatto che gli Stati Uniti, con l’uscita della Gran Bretagna, perderanno il “più efficace vettore d’influenza” di cui hanno disposto dentro l’Unione Europea sino al 23 giugno scorso; come dire che l’Italia dovrebbe approfittare di Brexit per sostituirsi al ruolo svolto dall’Inghilterra dentro la UE, per conto del sistema bancario statunitense, propenso a speculare sul debito sovrano dei Paesi europei in crisi (tra i quali l’Italia) e ad esercitare un’opposizione a tutte le iniziative dell’Europa che in qualche modo dovessero “fare ombra” alla primazia economico-politica globale americana.

L’Italia, a parere di Dottori, sarebbe un ottimo sostituto del Regno Unito, perché potrebbe garantire la continuità del ruolo da quest’ultimo svolto all’interno dell’UE sin tanto che ne ha fatto parte, ostacolandone l’azione a livello internazionale, a compenso della “relazione privilegiata” che da sempre ha contraddistinto il rapporto tra l’Inghilterra all’America. Ovviamente, l’Italia dovrebbe sostituirsi al Regno Unito nel rappresentare gli “interessi” americani in seno all’UE, in quanto Francia e Germania hanno mostrato di non voler essere sempre allineate sulle direttive degli USA, e perciò tenute costantemente sotto osservazione da Washington, per “prevenirne le eventuali fughe in avanti”.

La funzione di tenere sotto controllo Francia e Germania, almeno all’interno della UE – afferma Dottori – “spetterà a noi, se la vorremo esercitare e se saremo in grado di elaborare una relazione bilaterale con gli americani che soddisfi al massimo gli interessi reciproci”. L’Italia, quindi, secondo Dottori, per migliorare il suo status all’interno dell’Europa, dovrebbe allinearsi alla volontà degli USA e mettersi contro gli altri importanti partner europei, quali sono appunto la Francia e la Germania. Così stando le cose, si tratta ora di capire in che modo l’Italia può fare valere le proprie chance, per consolidare la sua posizione “di terzo grande d’Europa”, cogliendo l’occasione del “default altrui”, per capitalizzare gli esiti positivi che è possibile derivare dalla grande occasione offerta alla “nostra diplomazia repubblicana”.

Nella rivalutazione del ruolo del nostro Paese, sempre a parere di Dottori, sarebbe bene che i responsabili della politica estera italiana ricordassero che l’”atteggiamento prevalente delle istituzioni europee nei nostri confronti non è stato propriamente amichevole”, dato che ricorrentemente, con arroganza, sono stati assegnati al Paese “compiti a casa”, che sono valsi a fare perdere all’Italia, con le privatizzazioni, importanti “pezzi” del proprio sistema produttivo, spesso a vantaggio dei più diretti concorrenti europei.

Il miglioramento della posizione dell’Italia dovrebbe essere, perciò, orientato a consentirle di “fermare la grande rapina” che sta avvenendo ai suoi danni, esigendo soprattutto l’impegno della Germania a fare sì che la Commissione europea cessi di porre rigidi vincoli alla ripresa dello crescita dell’economia italiana; mentre, quanto “agli Stati Uniti, dovrà essere fatto capire loro che un’Italia debole non rientra più in alcun modo nei loro interessi” e che, quindi, è sempre nel loro interesse a che le loro agenzie di rating formulino valutazioni meno allarmistiche sull’economie dell’Italia.

La nuova politica estera del Paese dovrà ovviamente presupporre che, non solo non ci siano dei ripensamenti riguardo all’uscita del Regno Unito dall’Europa, ma anche che si tenga conto delle dinamica dei rapporti tra le forze politiche che caratterizzano la società ed il sistema politico italiani; considerando in particolare il fatto che anche in Italia sono presenti atteggiamenti non favorevoli all’Europa, per cui gli stessi fattori che hanno spinto gli inglesi a votare per il “leave” potrebbero approfondirsi presso gli elettori italiani. Tuttavia, conclude Dottori, per quanto sia difficile prevedere quali potranno essere gli esiti di questa nuova politica estera, in considerazione del fatto che il sistema politico nazionale è in permanente stato di ristrutturazione, occorrerà che essa intercetti il consenso dei populisti anti-europei; ciò appare necessario in una fase come quella attuale, nella quale i partiti che li rappresentano appaiono esitanti e prudenti “di fronte all’enormità di quanto accaduto Oltremanica”, quasi temessero di non essere seguiti “fino in fondo in un eventuale percorso di uscita dall’Europa comunitaria”.

Quale discorso potrebbe essere più convintamene contrario alla logica che dovrebbe sottendere, di fronte al voto inglese, il rilancio dell’unificazione europea di quello condotto da Dottori? Non sembra che il miglior viatico, tra quanti sono impegnati nella realizzazione di un obiettivo comune, sia mai stato il conflitto e la contrapposizione.

Non diverso da quello di Dottori è il senso dell’articolo di Caracciolo. Secondo questi, Brexit ha “prodotto un cambio di scala della questione tedesca. L’Unione Europea serviva in origine la Francia per imbracare la Germania. Il distacco del Regno Unito assesta il colpo di grazia a questo machiavellismo”; senza un’Europa unita, con la Gran Bretagna fuori, secondo Caracciolo – “la potenza tedesca è nuda” e, per rimediare al default inglese la Germania sarebbe spinta ad intessere una “special relationship” in salsa tedesca con gli Stati Uniti. Ciò, però, a parere di Caracciolo, “comporterebbe per Washington un doloroso appeasement con Mosca, sponda alla quale Berlino non è disposta a rinunciare”. Questa situazione di empasse innalzerebbe il “rango dell’Italia in ambito atlantico”, dove migliorare il rapporto con gli Stati Uniti; fatto, questo che varrebbe a portare “Roma sul podio europeo, da cui era scesa nel 1973 a causa dell’ingresso di Londra nella Comunità europea”. Tutti questi “giri di walzer” dovrebbero ovviamente rinforzare la capacità negoziale dell’Italia, per meglio contare nella probabile ripresa del processo di unificazione politica dell’Europa.

Caracciolo ritiene quindi che, con l’uscita del Regno Unito dall’Unione, l’Italia, forte del rinnovato rapporto con gli USA, dovrebbe scegliere tra un possibile accordo con la Francia, per compensare la “prepotenza tedesca”, oppure avvicinarsi alla Germania, per realizzare un’intesa strategica tale da assicurarle di “compartecipare da junior partner a un Euronucleo imperniato su Berlino”. Se l’Italia dovesse risultare refrattaria alle scelte, conclude Caracciolo, saranno gli altri Paesi membri dell’Unione ad assegnarle il “posto a tavola”, che sicuramente non sarà vicino all’orecchio del centro decisionale che conterà.

A riflettere sulle argomentazioni di Dottori e di Caracciolo, vengono alla mente gli scenari evocati dalla lettura di pagine della storia del periodo precedente lo scoppio della Grande Guerra. Francamente, è bene domandarsi: è questo lo spirito necessario ed utile, ora che ci si è liberati della “palla al piede” della presenza dell’Inghilterra nel contesto europeo, per riprendere il processo, se mai sarà possibile, di unificazione politica dell’Europa? Va bene essere realisti; ma immaginare la ripresa del cammino verso l’unità politica dell’Europa, in assenza di uno “spirito collaborativo e solidaristico”, ma in presenza di una pratica della vecchia “logica di potenza”, è troppo!

Se così stanno le cose, come si può pretendere che i cittadini europei dei Paesi che maggiormente hanno pagato le conseguenze della Grande Depressione possano continuare ad accettare supinamente ulteriori sacrifici in virtù della falsa presunzione che sia l’”Europa a chiederlo”? Giunti a questo punto sarebbe bene che la classe politica ne traesse le dovute conseguenze: o si resta in Europa e si rinnova l’impegno, senza alcuna pretesa revanscista, a realizzare l’unità; oppure sarà il caso di pensare di ricuperare la piena autonomia decisionale del Paese, liberato da ogni vincolo esterno falsamente europeo, per la tutela dei propri interessi, fuori però da ogni sorta di machiavellismo.
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RIPRESA? Sapelli: smontiamo l’Europa per evitare un’altra recessione.
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Brexit zlampadadialadmicromicro13Riprendiamo da Rocca (n. 15 del 1° agosto 2016) un articolo di Umberto Allegretti, scritto all’indomani dell’esito referendario della Gran Bretagna, che riflette sulla situazione soprattutto nella prospettiva del “che fare?” per l’Europa. Sono questioni di grandissima importanza sulle quali è necessario costruire (contribuire a, anche per quanto ci riguarda) una nuova politica. Molto difficile considerate le posizioni in campo che vedono profondamente divise anche le forze progressiste. L’articolo di Umberto, chiaramente ancorato alle sue profonde convinzioni di europeista, ci aiuta comunque. Attendiamo anche il successivo approfondimento, promesso dall’Autore per il prossimo numero di Rocca, che puntualmente riproporremo (per questo ringraziamo la redazione di Rocca e, in particolare il direttore Gino Bulla).
Brexit. Ripensare l’Europa
di Umberto Allegretti, su Rocca n. 15 del 1° agosto 2016

Scrivendo sull’Europa prima della fine di giugno si può solo riflettere sulla Brexit in via generale, con riserva di ritornare sull’argomento quando alcune cose saranno più definite. Ma intanto qualcosa è possibile dire.
Non c’è dubbio che l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea sia un avvenimento tra i più drammatici del nostro tempo, che nessuno di noi deve sottovalutare e nei confronti del quale, per cercare di riassor- birlo e contenerne gli effetti peggiori, ognu- no, veramente ognuno, deve sentirsi obbligato a fare qualcosa.
le quattro ragioni del trauma
Le ragioni di questo trauma a cui l’Inghilterra ha sottoposto l’Europa tutta (e il mondo, addirittura) sono molte e complesse. Una delle meno nobili è la ragione elettorale, che nelle ultime elezioni spinse Cameron a promettere alla parte più scettica della popolazione britannica un referendum che poi si sentì obbligato ad attuare. Questo deve spingerci a riflettere su una carenza insita nella democrazia e presente più o meno dovunque: la democrazia è ormai in gran parte priva di valori sostanziali, subordina tutto alla voglia di potere di uomini e partiti, ci riporta ai difetti che conducevano spesso gli antichi Greci, che pur la inventarono (e i loro pensatori migliori), a considerarla un regime notevolmente difettoso – anche se, come perfino Il Politico di Platone rilevava – non se ne è ancora trovati di meno imperfetti. Dovremmo rifletterci di più, per sperimentare quanto meno parziali rimedi (altri regimi non essendo evidentemente da prendere in considerazione). Anche peggiore una seconda ragione. Il ripiegamento sulla vecchia tradizione nazionalistica (l’individualismo dei popoli) che, oltre ai britannici – o gli inglesi, essendo stati più sani il voto scozzese e quello nord-irlandese – ha contagiato, oltre chi vi era già incline come la Francia, paese parimenti dal passato imperiale, altri come l’Olanda e la Danimarca, dopo aver molto influito e spinto non da ora il Regno Unito a chiedere e ottenere privilegi molteplici nel loro status europeo, che evidentemente non gli bastano più.
Terza ragione quella culturale: Inghilterra ed Europa continentale, o almeno la sua parte occidentale – quella più a Est entro l’Unione, sta rivelando sempre più le eredità più pestifere lasciate dal loro passato sovietico – rivelano, nonostante l’origine britannica della democrazia, il divario di idee e comportamenti che porta i britannici all’orgoglio e alla superiorità più insostenibili e a un isolazionismo cieco. Quarta ragione, quella sociale. Sembra che i più poveri e la ex-classe operaia abbiano votato per l’uscita dall’Unione. Il timore che ha mosso questo voto è stato il perdere i propri spesso inesistenti privilegi rispetto agli altri europei in tema di salute e di assistenza e nei confronti dell’accresciuta pressione migratoria dagli altri continenti.
al di là della Ragione
Ma, al di là delle ragioni dovrebbe esserci (ed è stata lasciata da parte in questa vicenda) la Ragione. La Ragione è stata messa da parte dalla maggioranza degli inglesi, che hanno fatto prevalere in realtà riflessi psico-antropologici rispetto per esempio alle condizioni economiche, secondo tutte le previsioni destinate a peggiorare in Gran Bretagna, e alla stessa supremazia finanziaria della piazza di Londra nel mondo. E la Ragione calpestata ha impedito ogni istinto di solidarietà, essendo la solidarietà convergenza dell’interesse altrui e dell’interesse proprio, mettendo con la rottura in difficoltà tutta l’Europa e la stessa Gran Bretagna. Anzi, questo stesso Paese – ed è un’ulteriore rottura della Ragione elementare e storica – verrà privato del rilievo che ha avuto sinora l’unione di Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord nel generare la felicità di una regione geopolitica che, nonostante l’unità insulare, non può vivere ridotta alla sola Inghilterra e Galles, dato che già Scozia e Irlanda accennano alla separazione dall’Inghilterra. Come ha ben detto Mario Monti giudicando di Cameron, questi ha compiuto un doppio capolavoro: ha pregiudicato l’unità del resto d’Europa e rotto l’unità del suo stesso Paese, per linee geografiche, sociali e culturali.
quale futuro?
Ma ora che futuro attende il Regno Unito e noi tutti? Difficile dirlo a prima vista. Bisogna pensarlo con la calma ma anche con la rapidità necessarie. Certo, occorre che l’Unione ripensi tutta la propria organizzazione, rendendola più salda e meno dominata dai poteri nazionali e conferendole quei compiti che l’Inghilterra più di tutti impediva: dandole condizioni di uniformità tributaria e fiscale, poteri di incidenza non puramente restrittiva sui bilanci, compiti precisi in campo sociale e così via. Ma soprattutto occorre ripensare la cultura e lo spirito europei, pur salvaguardandone la varietà e le differenze. Occorre forgiare una comunità, immaginare un progetto positivo, unitario, che illumini il nostro cammino. I viaggi erasmiani degli studenti e i matrimoni misti non bastano, anche se sono stati già molto utili a far nascere un popolo multiforme ma di sentimento unitario. Occorre che, come si diceva, ci sia un impegno non solo delle istituzioni, certo di primaria importanza, ma anche l’assunzione di un compito da parte di ciascuno di noi – nel grande o piccolo ruolo che svolge nella società – per la creazione di un forte e attrattivo atteggiamento di unione continentale. Si potrà prendere spunto dal dolore dell’attuale e presumibilmente futuro momento: il dolore infatti è un grande insegnante, come lo è stato dopo la seconda guerra mondiale.
l’eresia
Qui tocchiamo un confine tra quella che chi scrive considera – naturalmente in senso assolutamente traslato e non eccessivo – una «eresia», e una posizione più dichiaratamente corretta. L’eresia, che può vantare come seguaci interi gruppi di politici e pur illustri giuristi, sta nella convinzione che l’asse dei problemi che generano tante sofferenze e tante insoddisfazioni stia nell’imperfezione degli assetti istituzionali. Ciò sia nella questione italiana, dove questa posizione ingombra da decenni la vita del Paese, pur in presenza di una buona Costituzione; e sia in quella europea, dove certo le inadeguatezze istituzionali sono maggiori per effetto di sviluppi storicamente e politicamente incompiuti. Naturalmente tutto questo è in parte vero. Ma non occorre mai dimenticare che le istituzioni, il diritto e la loro conformazione non sono che strumenti per la trattazione di questioni più sostanziali: strumenti che, se ben congegnati, possono agevolare e se inadeguati impigliare quella trattazione, ma mai o quasi mai – in democrazia – sono la chiave decisiva che apre o chiude la porta ai risultati a cui la società aspira e che la rendono giusta o ingiusta.
la posizione più corretta
La chiave, se chiave vi è, va cercata nelle posizioni che si prendono e nelle azioni che si compiono su piani in cui la Gran Bretagna, ma non solo lei, si è posta come un grande ostacolo. Nell’Unione Euroepa, nei singoli Paesi e più particolarmente in Italia, quelli che vanno con lungimiranza affrontati, rovesciando, come è stato detto, molte «risposte sbagliate o mancate» del passato e del presente, sono i problemi di una politica economica non puramente «finanziaria» – nell’ambito della seconda bisognerà finalmente decidere (finora è soprattutto la Germania a essersi opposta) l’emissione di bond europei –; di una politica bancaria che includa (e anche qui l’opposizione tedesca è forte) la garanzia dei depositi; di una politica sociale che tenda a ridurre, anziché a esacerbare, le distanze tra le varie parti della società, che dia davvero speranze di lavoro ai giovani e attenzione a tutti.
E ancora: sono da affrontare i problemi di una politica ambientale e territoriale sagaci,
che nel primo caso incentivi una nuova economia delle fonti energetiche e del loro uso, per esempio nelle abitazioni (e qui chi scrive è in grado di osservare nel quotidiano l’abisso che separa la Germania dall’Italia), e nel secondo sostituisca all’incoraggiamento delle nuove costruzioni il lavoro sull’edificazione esistente (la carenza della quale è osservabile, seppure in misura e con modalità diverse, in entrambi i Paesi). In Italia, ciò si dovrebbe fare indirizzando le imprese al risanamento dei centri storici e delle periferie moderne, al risanamento sismico e a quello idrogeologico. Inoltre, deve esservi un’attenzione effettiva a una ricca azione culturale, sia ai livelli alti della ricerca e dell’insegnamento che ai livelli comuni e diffusi della società intera. Infine, ma non ultima per importanza, occorre realizzare una politica solidaristica delle migrazioni – che come già detto non ha solo valore umanitario –, vincendo in particolare l’opposizione alla distribuzione per quote, ostacolata dai vecchi paesi socialdemocratici del Nord e da quelli ex-comunisti dell’Est, e accantonando definitivamente l’orrenda pratica dei reticolati e dei muri, che ancora minaccia perfino il nostro Brennero, la cui piena apertura è stata finora simbolo e pratica quanto nessun altro confine del superamento dei conflitti europei.
La società deve farsi sentire sempre di più in questo senso e sostenere e spingere il Governo, il Parlamento e tutte le istituzioni. E ciò potrà fare non certo manifestando sfiducia e disillusione (per il lavoro sull’edificazione esistente per parzialmente giustificate che siano) e men che meno esprimendosi contro l’Unione Europea o anche solo per l’uscita dall’euro (non sarebbe già questo un uscire dall’Ue?), ma con un’azione positiva di richiesta, pressione e proposta, tenace e mai cedente allo scoraggiamento. Nella stessa direzione degli organi direttamente politici, un’opera strategica può esser svolta dal Presidente della Repubblica – anche se ovviamente nei modi non direttamente operativi né contingentemente decisionali che non gli competerebbero –, proprio come è avvenuto con Napolitano (si veda il bel libro di V. Lippolis e G.M. Salerno, La presidenza più lunga. I poteri del capo dello Stato e la Costituzione, Il Mulino, maggio 2016, presentato a Roma il 7 luglio) – e come sta avvenendo ora con Mattarella. Su tutto questo, cercheremo di esprimere altre osservazioni in un numero seguente, quando, speriamo, anche alcune scelte procedurali, tanto discusse fin dai primi giorni dopo il Brexit, diverranno più chiare.
Umberto Allegretti
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