Per ricordare Giorgio Pisano. La lettera di Maria

Giorgio Pisano US 20 8 16Caro dottore,
le scrivo per l’ultima volta. Le scrivo pur sapendo che non potrà rispondermi, che non potrà neppure leggere questa mia lettera, l’ultima di una di una corrispondenza non lunga ma durata quanto la mia, e la sua, esistenza. Le scrivo ancora al vecchio indirizzo, quello del giornale al quale ha appartenuto per tutta la vita, al quale ha voluto appartenere a tutti i costi.
Mi chiedo se Valeria o Giacomo, ora che lei non potrà più farlo, saranno tentati di aprire la lista dei messaggi che continueranno ad arrivare.
Non si stupisca se mi intrometto nelle cose più care che ha avuto nella vita. E’ stato lei stesso, del resto, a lasciarmi intendere la dolcezza, la delicatezza, la tenerezza dei suoi rapporti familiari, a lasciami intravedere uno scorcio del suo mondo privato. La sua espressione severa, il cipiglio, non hanno mai potuto nascondere il cuore. Il suo cuore, ahimè.
Immagino le sensazioni di Valeria e di Giacomo, il dolore che si asciuga, a poco a poco, nell’orgoglio di esser cresciuti assieme a tanto compagno e tanto padre. Quando si va via si lascia sempre qualcosa, qualcos’altro lo si porta via per sempre.
Quando mi ha contattato, per la prima volta, alla ricerca delle informazioni che ha utilizzato per scrivere il suo ultimo romanzo, la verità imperfetta, ho avvertito istintiva diffidenza. Mi capita sempre così, tutte le volte in cui mi trovo di fronte ad un giornalista. Ed io, nella mia vita, per le vicende che lei ben conosce, sono stata spesso esposta alla curiosità dei suoi colleghi, ho patito la loro morbosa curiosità e provato sulla mia pelle quanto i giornalisti possano essere inaffidabili e persino crudeli. Del resto, avendo avuto occasione di leggerla all’epoca in cui faceva il cronista per l’Unione Sarda, ricordo come fossero taglienti le sue parole, duro il tono, feroce la replica nei confronti del malcapitato, o della malcapitata, che osava frapporsi alle sue certezze. Come quando affibbiò l’insolente appellativo di donna in preda ad una crisi di nervi ad una lettrice che si era permessa di criticare una sua cronaca.
Sono stati questi pregiudizi ad impedirmi di offrirle, sin da subito e senza reticenze, la mia piena collaborazione.
Lei, mi aveva assicurato che avrebbe posto in essere tutte le cautele per impedire che io potessi essere riconosciuta. Ho stentato a crederle, lo confesso, ma mi è bastato conoscerla appena per ricredermi. Ho subito capito che, in fondo, lei condivideva il mio pregiudizio nei confronti dei giornalisti, o meglio, di tanti che, nella vita, fanno i giornalisti. Fare il giornalista, in effetti, non è difficile, può persino costituire un’esaltante esperienza di potere anche se, talvolta, può condurre verso imprevedibili e disonorevoli epiloghi. Conoscendola, ho compreso la differenza tra il fare il giornalista e l’essere giornalista. Lei, è appartenuto alla seconda categoria, a quella nobile stirpe, a volte persino aristocratica, governata dall’ineluttabile imperativo di obbedire soltanto alla propria coscienza, di anteporre la notizia a qualsiasi altro interesse, agli amici, alle fede politica, alla convenienza personale. - segue –
Conoscendola, ho subito compreso che mai e per nessun motivo sarebbe venuto meno alla sua promessa di non compromettermi, lei che assieme alla cronaca conclamata degli atti giudiziari ha raccolto anche le mie confidenze personali ed ha saputo scalfire la scorza che, per sopravvivere, ho costruito attorno alla nuova identità che ho assunto dopo quella triste storia.
Lei è convinto di aver ricostruito la mia vicenda personale, ne ha persino tratto un romanzo di successo, ma sappia che anch’io, da parte mia, ho seguito la sua, di vicenda personale. Lei che ha saputo rimaner fedele non solo a quella sorta di missione che il giornalista, ahimè, dovrebbe incarnare, ma persino, durante tutta la sua vita professionale, ad un’unica testata. Nonostante sia stato oltraggiato, persino umiliato, durante gli anni oscuri che hanno mortificato la professione e la stessa coscienza pubblica, non ha mai voluto seguire le sirene che proponevano strade alternative a quello straziante degrado, rimanendo fedele alla redazione dove ha svolto il praticantato sotto la guida di validi maestri. Proprio in quelle condizioni, in quel momento, è emerso il suo essere giornalista, un professionista che non si impiccia nelle beghe, capace persino di lasciar tacere la propria impaziente penna ma pronto, in qualsiasi momento, a riprendere l’eterno racconto dei fatti, alla sola condizione di non subire alcun condizionamento.
Se il razionale potesse veramente incarnarsi nel reale, le cose sarebbero andate diversamente: lei avrebbe chiuso la propria carriera come direttore di quel giornale al quale, nella buona e nella cattiva sorte, è stato sempre fedele. Sarebbe stata questa la naturale successione degli eventi.
Se in qualche momento abbia coltivato tale aspirazione non gliel’ho mai chiesto. Ora che non è in condizioni di controbattere, non esito ad affermare che, se mi avesse risposto in senso negativo, non le avrei creduto.
Caro dottore, credo che lasciar filtrare i propri sentimenti non sia facile per nessuno. Neppure per me. Pe questo, non le ho mai confessato, sinora, il fascino che lei ha esercitato su di me per il modo di interpretare la professione.
Per questo, anche per questo, una volta terminata la ricerca per la stesura del romanzo, ho continuato a mantenere con lei un rapporto epistolare.
Ho dovuto farlo con qualche cautela, ricorrendo agli accorgimenti utili ad evitare che mio marito potesse avvedersene, ma ora le confesso (a chi lo confesso?) che più non mi interessa.
Si è trattato di un gioco piacevole e gratificante. A volte commentavo qualcuno dei corsivi a sua firma che continuavano ad apparire sull’Unione Sarda, a volte mi permettevo qualche suggerimento. In almeno un’occasione ho preso atto, con piacere, che lei, per la redazione di uno dei suoi corsivi, si era ispirato al mio suggerimento. – segue –
Non mi limitavo a ciò. Talvolta, mimetizzata tra il pubblico, ho assistito a qualche dibattito che contemplava anche la sua presenza. Ricordo un episodio, recente, che per quanto avevo imparato a conoscerla non avrei mai potuto immaginare. In occasione della presentazione di un libro, mi pare, l’ho sentita fare un pubblico apprezzamento nei confronti di una persona che sicuramente non rientrava tra i santi ai quali lei era devoto, al contrario…
Quel piccolo episodio mi ha fatto riflettere. Una mitigazione senile della sua severità ed inflessibilità? O una prova del cuore che si nascondeva dietro l’apparente rigore? Non posso dirlo.
Lei è sempre stato cortese e amabile nei miei confronti, netto quando le capitava di dovermi porgere un consiglio, mai prolisso. Quando, recentemente, mi ha chiesto una piccola collaborazione, mi è piaciuto risponderle di si senza far domande, senza discutere e senza chiosare. Proprio come immagino lei facesse quando le veniva chiesto di realizzare un’intervista o di scrivere un articolo.
Mai prolisso. Riservato. Geloso della propria vita privata, delle proprie gioie e dei propri dolori. Capace, tuttavia, di comunicare anche le sue sensazioni con piccoli segni. Sono stata totalmente all’oscuro, sino a quando la notizia della sua morte non mi è rimbalzata sulla mente e sul cuore, dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute. La nostra surreale corrispondenza, del resto, prevedeva che la storia continuasse ad avere un seguito, che il nostro pur provvisorio calendario del futuro potesse sopportare ulteriori impegni.
In tale contesto, un giorno, nel corso di una breve telefonata, mi ha comunicato, incidentalmente, che mi stava chiamando dall’ospedale. Niente di più. Ho registrato l’informazione ma non ho chiesto spiegazioni. Ho nutrito sospetti, ma alla fine ho scelto l’interpretazione più convenzionale, o quella più comoda.
Voleva lanciarmi un segnale? Me lo son chiesta. Ma ci eravamo dati un appuntamento, rimaneva solo da fissare la data, sulla porta dell’orto botanico, perché lei intendeva verificare un’informazione che le avevo fornivo per la rubrica che continuava a mantenere nel giornale del quale avrebbe potuto essere il direttore.
Immaginavo che in quell’occasione, a margine della verifica del fatto, avremmo trovato il tempo per qualche riflessione, per scambiare qualche confidenza, visto che, considerandomi sua amica, confidavo nella reciprocità del sentimento.
Immaginavo che, prendendo lo spunto da quella telefonata, avrei potuto chiederle delle sue condizioni di salute. Consumando un aperitivo nel bar dirimpetto. O seduti in una panca dell’orto, all’ombra di alberi che hanno assistito a tante storie. Ma lei a quell’appuntamento non si è presentato, né si presenterà più agli altri già registrati in agenda.
Per me, si è consumata un’altra storia.
La prima cosa cui ho pensato, nell’apprendere del suo decesso, è stata che non l’avrei mai più incontrata, che il mondo in cui vivo, senza più la sua presenza, sarà diverso, sicuramente più povero. Un mondo che continuerà a progredire, come è giusto che sia, ma che va spogliandosi, a poco a poco, di quelle amate compagnie che hanno dato, e danno, senso alla vita. Alla mia vita, s’intende.
Non ho mai avuto occasione di frequentarla con assiduità. Se si eccettuano le intense sequenze dovute alla sua ricerca, i nostri contatti sono stati sporadici. Eppure avvertivo la sua presenza, per i suoi commenti, per le sue nuove recenti imprese e collaborazioni, che mi sembravano appartenere ad un preciso disegno, ad un rinnovato impegno, all’adempimento di un dovere atavico.
Per questo, e soprattutto per il sentimento di amicizia che ho provato nei suoi confronti, sento la sua morte un po’ come la mia. Del resto, cos’altro è la morte se non il venir meno della corrispondenza di sensi?
Prima ancora, l’ho persino immaginata la sua morte. Come immagino la mia, quotidianamente, nel prendere coscienza di come siano eventuali i programmi che annoto per i giorni a seguire. Eppure continuo ad annotarli. Son sicura che anche lei li appuntasse, con una incertezza pari, o probabilmente superiore, alla mia.
Ora che la burbera espressione del suo volto rimarrà per sempre uguale a se stessa, la sensazione dominante, per me, non è il dolore. Son dominata dalla tristezza. Mi rassegno ai domani che verranno.
Lascerò che la nostra surreale corrispondenza continui ad occupare il piccolo spazio di una gigantesca memoria.

La saluto, per l’ultima volta,

Sua affezionatissima
Maria.
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Giorgio Pisano sab 8 ott 16
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