Migranti oltre l’emergenza: che fare di più e di diverso da quanto già si fa?

Correlato con l’editoriale, pubblichiamo due interventi sulla questione dei migranti apparsi in questi gioni su Democraziaoggi. Riproponiamo al riguardo anche un nostro intervento datato 22 marzo 2016, che ci sembra mantenga (purtroppo) validità rispetto alla situazione migranti. Infine condividiamo un appropriato commento di Francesco Cocco, sempre su Democraziaoggi, che riportiamo integralmente.
Francesco Cocco, 12 Settembre 2016 su Democraziaoggi
Due interventi stimolanti sia quello di Franco Sabattini sia quello quello del direttore di Democraziaoggi. La soluzione la indica Sabattini a conclusione del suo articolo: stabilizzarli nei loro paesi d’origine pena la catastrofe. Non si può porre soluzione a questo esodo biblico con forme di carità pelosa o con interventi di becero affarismo come giustamente sostiene Andrea. Si stanno cominciando a delineare grossi problemi di ordine pubblico che col tempo possono diventare irrisolvibili. L’Occidente ha gravi responsabilità verso il terzo mondo ed oggi se ne deve far carico anche perchè quei popoli non hanno solo diritto ad un’assistenza caritatevole ma soprattutto a realizzare la loro soggettività storica e loro identità nelle terre d’origine. Quel che sta accadendo è in linea col più speculativo e cieco capitalismo non certo con gli interessi del popolo dei migranti.

occhi-migrantiL’accoglienza non basta, ci vuole l’inserimento

democraziaoggidi Andrea Pubusa su Democraziaoggi
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Migranti e mercato globale
di Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi
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Oltre l’emergenza poco si parla e poco si fa… microlamapadaaladinFranco Meloni su Aladinews (22 marzo 2016).
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L’accoglienza non basta, ci vuole l’inserimento

democraziaoggidi Andrea Pubusa su Democraziaoggi
Di fronte a quanto sta avvenendo nella vecchia Europa (ora il muro lo fanno Inghilterra e Francia) mi chiedo se il fenomeno dei migranti possa essere visto come un semplice problema di accoglienza. Accoglienza è un termine che si riferisce prevelentemente alla sfera morale, del sentire delle persone e indica la disponibilità a essere solidale con gli altri coi più deboli. E’ indubbiamente frutto di una visione umanitaria del mondo e della considerazione del rispetto e della sacralità di ogni persona, per il solo fatto di esistere. Credo che predicare l’accoglienza, com fa anche Francesco sia una cosa buona e giusta e lo sia ancor più la pratica dell’accoglienza. Tuttavia, spostando l’attenzione sulle istituzioni, mi chiedo se questo basti a porre nei giusti termini la soluzione del problema. E mi spiego. Muovendo dall’idea dell’accoglienza le istituzioni hanno demandato il compito di far fronte ai migranti ad associazioni umanitarie o religiose, prima fra tutte la Charitas, a cui assegna un contributo per ogni migrante assistito. Il risultato è che si è formato subito un business con risvolti oscuri e di tipo latamente mafioso.
Anche i privati che si sono lanciati nell’accoglienza hanno fiutato l’affare: vecchi locali fatiscenti e dismessi vengono rapidamente verniciati e messi a disposizione anche nei luoghi più improbabili ottenendo un ormai insperato guadagno. Basta leggere la cronaca: alberghi dismessi da anni nei luoghi più sperduti divengono i serragli, facilmente abbandonabili in cui i migranti vengono sistemati. I comuni vengono poi precettati a ricevere determinate quote e così si apre un altra criticità: come fanno quei centri, veri e propri luoghi di fuga a causa della disoccupazione senza rimedio, a dare una qualche prospettiva ai nuovi arrivati? E non c’è il pericolo che l’attenzione e la spesa in favore di questi, a fronte dell’abbandono dei nostri concittadini, provochi reazioni politiche e di opinione sempre più dure? Quanto si sta verificando in tanti comuni sardi, di solito più che tranquilli, insoma, è molto preoccupante. Ma lo è anche non potersi più recare in taluni paercheggi senza il timore di una vera e propria pressione arrogante e per nulla amichevole. O ancora il sedersi ad un tavolo a Marina nelle sere d’estate a scambiare due chiacchiere con degli amici ed essere interrotti continuamente dalla processione dei migranti che chiedono un obolo o propongono una compravendita. Vedere anche in via S. Ignazio tanti giovani neri aitanti e nulla facenti, sdraiati nelle panchine non è un bello spettacolo. Ogni esercizio pubblico cagliaritano ormai ha un questuante alla porta.
E’ accoglienza questa? Insomma, l’accoglienza e solo l’essere garbati con questi nostri fratelli? Il tollerarli anche quando ci danno fastidio nelle nostre attività quotidiane? Penso che alla lunga questo atteggiamento, sostanzialmente, pilatesco delle istituzioni e nostro non costituisca argine al precipitare del problema.
Sarebbe, dunque, meglio lasciar l’accoglienza allo spirito dei singoli e, a livello istituzionale, trovare soluzioni che non siano la mera assistenza in appalto a questo o a quello, soggetto o associazione.
Certo, dare risposte è difficile, praticarle ancora di più. Ma bisogna provarci. Sicuramente occorre abbandonare le politiche liberiste e pensare a piani straordinari di lavoro che inseriscano bianchi disoccupati e neri in attività di recupero urbano. Basta guardare quante aree degradate ci sono a Cagliari e pensare al paradosso di giovani aitanti che costano 35-40 euro al giorno per non far nulla. Se poi si va nei paesi e nelle campagne il discorso non cambia, c’e tanto da fare. Insomma, dall’accoglienza bisogna passare all’inserimento loro, insieme ai tanti disoccupati nostri. E, assunte queste misure, richiedere con rigore l’assolvimento dei doveri a tutti, bianchi e neri. Senza sconti. Ma, per far questo, bisognerebbe rimettere il lavoro, l’occupazione, l’utilità sociale al centro dell’azione politica e amministrativa. Capisco che è più difficile che far semplice assistenza, ma ne va non solo della sorte dei migranti, ma delle stesse nostre istituzioni democratiche.
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Migranti e mercato globale
10 Settembre 2016

Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi

Il fenomeno dei migranti che incombe prevalentemente sui Paesi europei è affrontato irrazionalmente e in modo contraddittorio; l’ultimo esempio è l’accordo sui rifugiati tra l’Unione Europea e la Turchia, risalente alla fine dell’anno scorso; un Paese, questo, che oltre a non riscuotere molta fiducia sulla sua propensione a rispettare i patti, risulta essere uno dei principali sostenitori dell’ISIS, la cui ascesa è una delle cause principali del flusso dei rifugiati.
Al fine di evitare che questi ultimi costituiscano una massa di individui costretti a vagare senza scopo per il mondo, in “La nuova lotta di classe. Rifugiati, terrorismo e altri problemi coi vicini” Slavoj Žižek, filosofo sloveno, ricercatore all’Istituto di Sociologia dell’Università di Lubiana, sostiene che il “giusto obiettivo” di una razionale politica di accoglienza dei migranti dovrebbe consistere nel “cercare di ricostruire la società globale in modo tale che non ci siano più rifugiati disperati e costretti a vagare”; per quanto possa apparire utopistica, questa soluzione, a parere di Žižek, sarebbe l’unica realistica, ma l’”esibizione di virtù altruistiche finisce per impedirne la realizzazione”.
Ciò perché, più si trattano i rifugiati come destinatari di aiuti umanitari, lasciando che la situazione che li ha costretti a lasciare i loro Paesi si trasformi in una costante, più essi saranno propensi a migrare in Europa; ciò, fino a che le tensioni raggiungeranno un “punto di non ritorno”, a danno dei loro stessi luoghi di origine, ma anche dei Paesi europei di accoglienza.
La soluzione proposta da Žižek, di risolvere il problema dei migranti attraverso una ricostruzione della società globale, è plausibile; ma risulta oltremodo utopistica, non tanto riguardo allo scopo, quanto riguardo al modo in cui perseguirlo; si tratta di un’opzione “movimentista”, da tempo conosciuta, non solo per avere avuto un certo successo negli anni passati, ma anche per essersi rivelata del tutto priva di effetti, sul piano della cura delle conseguenze negative dovute alla crisi delle relazioni internazionali.
A parere di Žižek, il problema dei rifugiati offre all’Europa, e forse al mondo intero, considerato che tale problema ha una dimensione globale e non solo europea, la “possibilità di ridefinirsi, di contraddistinguersi dai due poli che le si oppongono: il neoliberismo anglosassone e il capitalismo autoritario permeato di ‘valori asiatici’”; pertanto, l’Europa, anche per ricuperare il nucleo emancipativo dell’idea comunitaria, dovrebbe “lasciarsi alle spalle” una serie di pregiudizi sui quali sinora la sinistra ha impostato il proprio atteggiamento riguardo al fenomeno migratorio. Fra tali pregiudizi, alcuni risultano, oltre che dannosi, contraddittori rispetto all’urgenza per l’Europa di ridefinirsi; in particolare, quelli di equiparare l’eredità emancipativa con l’imperialismo culturale e il razzismo, nonché l’altro, secondo cui “la protezione del proprio modo di vita sia in sé una categoria protofascista o razzista”.
Malgrado le responsabilità dell’Europa per la situazione dalla quale i rifugiati oggi fuggono, occorre che ci si liberi dal convincimento secondo cui il compito principale degli europei dovrebbe essere la “critica dell’eurocentrismo” e il rifiuto dei valori culturali dell’Occidente, “proprio nel momento in cui, se reinterpretati criticamente, molti di essi – egualitarismo, diritti umani fondamentali, welfare state, per fare qualche esempio – potrebbero servire da arma contro la globalizzazione capitalista”. Inoltre, occorre anche cessare di credere nella protezione multiculturalista dello stile di vita dei migranti; insistendo troppo in questo intento, si finisce coll’aprire “la strada all’ondata xenofoba che prospera in tutt’Europa”, provocando l’esplosione di un arrogante moralismo contro i “diversi”.
Perché pensare di ridefinire l’idea comunitaria o l’intera arena globale in funzione della soluzione del fenomeno mogratorio? Perché, a parere di Žižek, l’attuale disordine globale, del quale il fenomeno migratorio è solo uno dei tanti aspetti, è il “vero volto del Nuovo Ordine Mondiale”; all’interno di questo “Ordine”, gli africani e tutti coloro che lasciano il loro Paese d’origine alla ricerca di un nuovo posto in cui ”sia conveniente vivere”, se lasciati a sé stessi, non saranno mai in grado di cambiare la loro condizione esistenziale. Perché i Paesi europei e, in genere, tutti i Paesi che costituiscono il ricco Occidente, impediscono loro di farlo?
Perché, come già messo in evidenza da Thomas Pogge, malgrado la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata e proclamata dalla Conferenza delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, le politiche delle economie ricche nei confronti dei Pesi arretrati privano i loro cittadini dei più elementari diritti di sopravvivenza, non solo con la soppressione e la devastazione delle loro economie di sopravvivenza, ma anche con l’espropriazione delle loro risorse. In questo modo, originano nuove forme di apartheid, nel senso che alcune parti del mondo, in cui è possibile la sopravvivenza, si differenziano, isolandosi da “un caotico ‘fuori’, afflitto da disordini diffusi, dalla fame e da guerre permanenti”. Nonostante tutte le critiche formulate contro il neocolonialimso economico – secondo Žižek- l’Occidente non rileva appieno gli “effetti devastanti che ha avuto la globalizzazione su molte economie locali” arretrate.
E’ da qui che, a parere del filosofo sloveno, i Paesi dell’Occidente, e dell’Europa in particolare, devono partire, se realmente intendono porre rimedio al fenomeno, divenuto ormai insostenibile, della nuova forma di migrazione dei popoli; senza trascurare il fatto che la condizione disperata dei rifugiati fa parte di un piano ben concertato, dal quale alcuni Stati, alla maniera degli antichi negrieri, traggono vantaggi inconfessabili (Turchia docet). In altri termini, i Paesi del ricco Occidente devono convincersi che la nuova forma di apartheid, che separa i ricchi dai poveri a livello gloabale, non costituisce una “contingenza deplorevole, ma una necessità strutturale dell’odierno capitalismo globale”; è questa necessità strutturale che occorre cambiare, ma come?
Nel mondo globalizzato, mentre le merci circolano liberamente, le persone sono ostacolate nei loro movimenti, rendendo contraddittorio il modo in cui il capitalismo si relaziona a tali movimenti: esso ha bisogno che gli individui si muovano liberamente, per disporre dei loro servizi lavorativi a basso costo, ma nello stesso tempo ha bisogno di controllarne i movimenti, perché non può garantire la sopravvivenza a tutti. Poiché la richiesta di libertà di circolazione da parte dei migranti è insopprimibile, non potendo ottenerla all’interno del vigente ordine mondiale, a parere di Žižek l’impedimento sarebbe il punto dal quale essi dovrebbero partire, imponendo mediante una lotta di emancipazione, l’estensione della libera circolazione delle merci alle persone, come prezzo che i Paesi dell’Occidente sono chiamati a pagare per la conservazione dell’economia globale.
Per questa via, l’Occidente sarebbe costretto a fornire ai rifugiati i mezzi per la loro sussistenza fuori da ogni afflato umanitario, acquisendo la consapevolezza che il futuro del mondo “sarà fatto di grandi migrazioni” e che l’unica alternativa all’integrazione sarebbe “una rinnovata barbarie”. Per evitare quest’alternativa sarà necessario, a parere di Žižek, che l’Occidente accetti un cambiamento radicale dell’ordine mondiale esistente, tale da fare cessare il verificarsi del fenomeno dei rifugiati; tenendo presente che la causa prima del fenomeno è l’attuale capitalismo globale; sin tanto che quest’ultimo non sarà riformato, i flussi di migranti saranno destinati ad espandersi. L’iniziativa per realizzare questa riforma dovrà essere presa dai popoli dell’Occidente, perché se essi vorranno attendere l’arrivo di un improbabile “attore rivoluzionario” che sappia offrirsi come loro leader, il rischio verso il quale saranno spinti dallo sviluppo storico lasciato a sé stesso sarà una sicura catastrofe.
Per evitare questo rischio, i popoli occidentali dovranno optare, al fine di cambiare lo status quo del mondo capitalistico, per una riproposizione della “vecchia” lotta di classe, fondata sulla “solidarietà globale degli sfruttati e degli oppressi”; a parere di Žižek, se i popoli occidentali non si impegneranno a promuoverla ed a sostenerla, essi saranno inevitabilmente perduti, meritando questa fine per via della loro inanità.
Žižek, tuttavia, conclude la sua analisi del problema degli immigrati osservando che, forse, la sua speranza di vedere riproposta la lotta di classe per risolvere il problema dei rifugiati è un’utopia; in realtà, egli ha motivo di ritenerla tale, ricordando forse che, negli anni Sessanta del secolo scorso, Franz Fanon, filosofo francese, quale rappresentante del movimento terzomondista, sosteneva la necessità che i Paesi colonizzati conducessero uniti una lotta di classe per portare a compimento il processo di decolonizzazione. Nella sua opera principale “I dannati della terra”, Fanon, proponeva, come Žižek, che i Paesi colonizzati realizzassero con la loro lotta una rivoluzione globale che abolisse definitivamente il colonialismo.
In realtà, la decolonizzazione che si è verificata nei primi decenni della seconda metà del secolo scorso non è stata certo conseguita per merito della lotta di classe condotta dai Paesi colonizzati, ma per l’interesse delle potenze egemoni del dopoguerra (USA e URSS) a ridimensionare il diritto esclusivo sulle risorse dei Paesi colonizzati da Parte di quelli colonialisti più conservatori (Gran Bretagna, Francia, Belgio, ecc.). Ciò, tuttavia, non ha impedito che si riproponesse, sotto altre forme (neocolonialismo) la conservazione del diritto esclusivo sulle risorse dei Paesi ex colonizzati da parte dei Paesi economicamente avanzati; le conseguenze sono state la destabilizzazione delle condizioni esistenziali dei popoli arretrati e la nascita successiva del fenomeno migratorio, oggi in cima alle preoccupazioni di chi domina l’economia globale.
Di fronte al fallimento delle utopie, quali quelle avanzate da Žižek e, prima di lui, da Fanon, è forse più conveniente fare assegnamento, realisticamente, sulla razionalità dell’Occidente; questo, prima o poi non mancherà di valutare il “costo” del prprio egoismo e quando il costo si livellerà ai vantaggi dell’egoismo, sarà giocoforza valutare conveniente la rimozione delle conseguenze negative dell’esclusivismo. La situazione in cui versa il mondo globale in presenza del problema migratorio è prossima al momento in cui se ai migranti non sarà data la possibilità di stabilizzarsi in condizioni dignitose nei loro Paesi d’origine, l’alternativa alla mancata soluzione del problema sarà, come ricorda Žižek, la catastrofe.

One Response to Migranti oltre l’emergenza: che fare di più e di diverso da quanto già si fa?

  1. […] Ricordiamo anche l’art. 117 comma 1 della Costituzione: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto … dei vincoli derivanti … dagli obblighi internazionali”. Cerchiamo allora di rispondere a una delle domande più ricorrenti: visto che la migrazione verso il nostro Paese avviene principalmente attraverso il mare, è possibile impedire l’arrivo dei migranti? Diciamo che è molto difficile. Esiste innanzitutto un obbligo di soccorrere il naufrago, che appartiene al diritto consuetudinario delle genti di mare. Fra le ultime disposizioni va citata la “Convenzione ONU sul diritto del mare” (c.d. Convenzione UNCLOS) del 1982 che dispone all’art. 82 l’obbligo per gli Stati di “esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera … presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo”. E la “Convenzione internazionale sull’assistenza e soccorso in mare” del 1989 (c.d. Salvage), la quale prevede all’art. 10 come “Ogni capitano è tenuto a prestare assistenza a qualsiasi persona che si trovi in pericolo di perdersi in mare”. La domanda successiva può essere: va bene salvare i naufraghi dal rischio di annegamento, se la loro imbarcazione è affondata o in difficoltà di navigazione (nei trattati si parla di “distress”), ma perché portarli in Italia? In effetti, non ci sono molte alternative. Quando una nave, di qualunque nazionalità, avrà accolto a bordo dei naufraghi, al caso si applica la “Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare” del 1979 (la c.d. Convenzione SAR), la quale dispone che “Le Parti si assicurano che venga fornita assistenza ad ogni persona in pericolo in mare. Esse fanno ciò senza tener conto della nazionalità o dello statuto di detta persona, né delle circostanze nelle quali è stata trovata”. Tale dovere è completato dalla Risoluzione MSC.167(78) del 2004, paragrafo 2.5: gli Stati hanno l’obbligo di “… fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito…”. Il luogo sicuro è tale se garantisce alle persone soccorse la sicurezza e l’opportunità di acquistare lo status di “rifugiati” e quindi il “diritto di asilo”. Anche sul punto abbiamo una norma di diritto internazionale: secondo l’art. 33 della “Convenzione di Ginevra”, gli Stati non possono respingere un rifugiato “verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. Simile divieto troviamo nell’art. 19 della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” (c.d. Carta di Nizza): “Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti”. Ebbene, se pensiamo che attualmente buona parte dei salvataggi avviene nel tratto di mare che separa la Libia dall’Italia, praticamente non esistono alternative allo sbarco nel nostro Paese. Perché quelli libici sono considerati porti “non sicuri”, a causa del trattamento riservato ai migranti, privati del diritto di protezione e spesso sottoposti a detenzione e torture. Dal canto suo la Tunisia, eludendo gli obblighi internazionali, rifiuta lo sbarco di migranti che non siano suoi concittadini, o salvati da navi tunisine, o partiti dal proprio territorio; mentre Malta rifiuta gli sbarchi se il naufragio non avviene nelle proprie acque territoriali. Non è quindi contestabile la decisione di un comandante che dirige la nave verso un porto italiano. Però, almeno a salvataggio compiuto, è possibile rimpatriare l’immigrato? Diciamo subito che anche questa è impresa ardua. L’impianto delle norme sul tema è costituito dal “testo unico sull’immigrazione” n. 286 del 1998 sottoposto a successive modifiche. Per farla breve, secondo queste disposizioni l’immigrato deve essere accolto presso i “Centri di permanenza temporanea”, ma la permanenza è obbligatoria solo per un limitato periodo di tempo, trenta giorni, al quale può seguire un ulteriore trattamento coercitivo (una specie di detenzione amministrativa) per un tempo massimo di 180 giorni presso i Centri di identificazione ed espulsione. Trascorsi i sei-sette mesi di simile “trattenimento”, il migrante, se non avrà ottenuto il diritto di asilo del quale abbiamo parlato, riceverà un decreto di espulsione. E qui arriva l’ultimo nodo, perché solo pochi Stati africani hanno raggiunto con l’Italia accordi per il rimpatrio; si tratta di Tunisia, Algeria, Marocco, Nigeria, Gambia ed Egitto, spesso con difficoltà e limitazioni. Resta quindi una moltitudine di stranieri, ufficialmente espulsi, che vagano per il nostro Paese ufficialmente senza lavoro e senza dimora, invisibili, ma esistenti. In passato si provò a introdurre il reato di immigrazione clandestina, poi rivelatosi anch’esso un rimedio inutile perché semplicemente differiva il fenomeno di pochi anni con l’aggiunta dei costi esorbitanti della carcerazione. L’unico palliativo sembra perciò il ricorso a sanatorie, attraverso permessi di soggiorno che quantomeno consentono di far emergere il lavoro nero e garantire l’istruzione, l’integrazione e la sicurezza. Non a caso si affidano in modo ricorrente a tale strumento sia gli altri Paesi europei che l’Italia, a prescindere dal colore politico di chi governa; ricordiamo ad esempio il decreto “Bossi – Fini” n. 195 del 2002, grazie al quale circa seicentomila “irregolari” ottennero il permesso di soggiorno sulla base di una semplice autodichiarazione del datore di lavoro che attestava un rapporto di lavoro “in nero”, come braccianti, badanti etc, di almeno tre mesi. Può sembrare una resa incondizionata, ma possiamo giustificarla vantandoci di essere i degni epigoni di una cultura che aleggia nel mediterraneo fin dall’antichità e che legittimava l’accoglienza riservata a Ulisse dal mitico popolo dei Feaci con simili versi: “questi è un misero naufrago, che c’è capitato, e dobbiamo curarcene: vengono tutti da Zeus gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro”. ———————- * Articolo pubblicato a maggio 2020 sulla rivista abruzzese “LACERBA”. ———————— Per correlazione: su Aladinpensiero online. […]

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