Università: per non morire di autoreferenzialità

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di Franco Meloni

“Ask not what your country can do for you; ask what you can do for your country.” “Non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese”. E’ questa una delle frasi più famose tra quelle pronunciate da John Fitzgerald Kennedy; esattamente risale al 20 gennaio 1961, giorno del suo insediamento alla Casa Bianca come 35° presidente degli Stati Uniti d’America.

E’ una frase che mi piace e che a partire da ciascuno di noi deve riguardare tutti per orientare comportamenti virtuosi verso il bene pubblico. Ritengo che si possa riferire in modo pertinente soprattutto a quanti gestiscono la “cosa pubblica”.
Non è allora fuori luogo il fatto che mi sia venuta in mente pensando allo stato attuale delle università nel nostro paese. Cercherò di spiegarlo nel proseguo.
L’università pubblica che per definizione è al servizio del paese e dei cittadini, nonostante la sua funzione essenziale per qualsiasi traguardo di sviluppo sociale ed economico, è sottoposta da molti anni a questa parte a politiche vessatorie, fatte soprattutto di progressive restrizioni delle risorse statali, di aumento smisurato di adempimenti burocratici, di sfiancanti processi di riforma, in gran parte inefficaci.
A perderci in questa situazione non è certo, se non in minima parte, l’accademia, consolidata nei propri privilegi, quanto piuttosto gli studenti e, in conclusione, il paese intero. L’università pubblica, nel suo complesso, sembra destinata ad un inesorabile declino per mano assassina della politica (del governo come del parlamento) e, si badi per inciso, in presenza di un governo mai stato così tanto partecipato da professori, da assomigliare a un “senato accademico”
Ma perchè non si riesce a fermare questo precipitare verso il peggio? Forse i consapevoli quanto responsabili (colpevoli) di quanto accade pensano che le Università virtuose possano risuscitare dalle ceneri delle attuali. Sarebbe follia, ma sembra appunto questa la strada intrapresa. Non avanziamo qui ulteriori considerazioni, rinviando ad autorevoli approfondimenti, come quelli in grande parte condivisibili di Gianfranco Rebora (http://gianfrancorebora.org/category/universita/).
Invece vogliamo soffermarci su un aspetto: quello del modo in cui è percepita l’Università da parte della gran parte delle persone, dei cittadini e dalle altre organizzazioni. Fondamentalmente come un luogo di privilegiati che si occupano sì di scienza, cultura, insegnamento… ma quando e come vogliono, dall’alto delle loro sicurezze e con atteggiamenti di supponenza e separatezza, senza aver alcun obbligo di “resa del conto”, innanzitutto a chi finanzia l’università (in primis le famiglie, poi lo Stato, le Regioni, l’Unione Europea, etc). Sì, non è vero che sia tutto così deprecabile. Sappiamo, per esempio, quanti professori svolgono con scrupolo e impegno il loro prezioso lavoro e ancor di più quanti giovani nelle università lavorino sodo, i più senza adeguati riconoscimenti monetari e di carriera… Anche qui non mi soffermo, perchè il problema che voglio affrontare è un altro, precisamente questo: perchè nessuno, tranne i diretti interessati, difende l’Università? La risposta, a mio parere, si può ancora una volta trovare sul “peccato di autoreferenzialità” che marchia l’Università e che la rende largamente estranea al resto della società. Non voglio parlare di “parentopoli” o cose di questa natura, che rappresentano comunque perduranti patologie, ma piuttosto del modo normale di atteggiarsi delle università, soprattutto in relazione al modo in cui esse sono rappresentate dai rettori e dai diversi gruppi dirigenti. Del “peccato di autoreferenzialità” si ha certo da tempo consapevolezza, tanto è che perfino negli ambienti accademici si ricercano modalità per superarlo. Le stesse numerose leggi e altri miriadi di provvedimenti cosiddetti di riforma hanno a parole combattuto l’autoreferenzialità, ma possiamo azzardare che sia invece aumentata, tanto da far considerare la stessa come una delle cause più rilevanti del cattivo rapporto università-territorio.
Richiestomi da un’amica ricercatrice universitaria che indaga sull’apertura delle università al territorio così come appare dalla riformulazione degli statuti, in applicazione di quanto previsto dalla legge 30 dicembre 2010 n. 240, ho letto tutti o quasi gli statuti, pubblicati nei siti degli Atenei, tanto da ritenermi legittimato ad esprimere qualche giudizio. La mia lettura ha riguardato fondamentalmente gli aspetti dell’apertura dell’ateneo al territorio, in certa parte rappresentata dalla valorizzazione dei saperi nel loro trasferimento sul territorio e l’apertura al medesimo territorio attraverso la partecipazione alla governance universitaria dei soggetti del territorio. Per il primo aspetto (apertura) devo dire che in tutti gli statuti esaminati emerge l’attenzione verso il territorio di riferimento di ciascun Ateneo. L’impegno particolare verso la regione (istituzione e territorio) risulta in tutti, ma in modo marcato per le università che operano nelle regioni a statuto speciale (tra questi statuti segnalo quello dell’Università di Sassari per i riferimenti alle specificità delle problematiche regionali come la lingua, l’identità la cultura, etc). Maliziosamente potremmo darci ragione di tale enfasi rammentando come i rapporti Università-Regione comportino importanti trasferimenti di risorse dalle casse regionali a quelle universitarie, generalmente regolati da appositi protocolli d’intesa/convenzioni. Tuttavia – e qui parliamo del secondo aspetto (partecipazione alla governance) – il rapporto con il territorio rispetto all’ambito di diretto riferimento o considerato quello di più vaste dimensioni (nazionale, europeo, internazionale) non prevede negli statuti esaminati particolari forme di integrazione a livello gestionale, salvo alcuni statuti, ad esempio delle università dell’Emilia e Romagna e  dell’Università di Bari che hano istituito appositi organismi (come la “consulta dei sostenitori” per le università emiliano-romagnole e la “conferenza d’ateneo” per l’università di Bari), con prerogative abbastanza significative per quanto riguarda il controllo “esterno” sulla (e il coinvolgimento nella) programmazione delle attività dell’Università. Si osserva come dal punto di vista dell’integrazione tra Università e  Istituzioni dell’ambito territoriale risultino, anche per effetto della legge di riforma e degli statuti, significativamente affievoliti i legami che storicamente si erano precedentemente  consolidati. Parliamo soprattutto del legame con le città. Gli statuti riformati sulla base della legge citata prevedono la presenza nei consigli di amministrazione e nei nuclei di valutazione di esperti non appartenenti al mondo accademico, ma hanno abolito qualsiasi rappresentanza delle Isituzioni (Comune capoluogo in primis). Da questo versante possiamo pertanto dire che i nuovi statuti ci hanno consegnato università rafforzate nell’autoferenzialità. Si può osservare come la legge di riforma non impediva la costituzione di organismi di collegamento e di partecipazione alla programmazione, e gli statuti citati (sia pure nella debolezza della  ”consulta dei sostenitori” o consimili) ne è prova, ma l’errore di non aver previsto l’obbligatorietà di tali organismi (così come previsto, ad esempio, nell’ordinamento delle università spagnole) ha portato di fatto a non contemplarli e pertanto ad una ulteriore chiusura autoreferenziale delle università. Ne emerge la riproposizione “in peius” di modelli tradizionali, meno partecipati dalle Istituzioni e dal mondo delle Imprese, nei quali anche la famosa “terza missione” viene sì prevista ma con carattere subordinato rispetto alle tradizionali funzioni universitarie (ricerca e insegnamento). Certo bisogna riconoscere la positività della previsione dell’impegno per il trasferimento tecnologico per la quasi totalità delle Università che lo hanno citato nei principi fondamentali degli statuti, cosa che dovrebbe indurre a un maggiore impegno dell’Ateneo per questa missione, ma il tutto appare davvero insufficiente. Nello specifico, probabilmente bisogna prendere atto che l’attività di diffusione del sapere/trasferimento tecnologico può essere efficacemente attuata solo con una strumentazione diversa da quella propriamente accademica e pertanto attraverso strumenti come Fondazioni e Consorzi. Infatti è difficile pensare che una gestione efficace ed efficiente di tali attività possa essere svolta dagli attuali organi di governo dell’Ateneo (Rettore, Senato accademico, Consiglio di amministrazione…). Al tutto dobbiamo aggiungere, in negativo, una maledetta spirale burocratica che avvolge gli Atenei pubblici fino a volerli ridurre a una sorta di licei rigidamente controllati dal Ministero dell’economia. In analogia per quanto detto in fatto di partecipazione delle Istituzioni (e delle Imprese) alla governance degli Atenei sarebbe auspicabile che una legge prevedesse l’obbligatorietà per ogni università di dare vita a una propria fondazione per le attività propriamente riconducibili alla “terza missione”.
E infine, torniamo all’incipit del presente contributo, riscrivendo a nostro uso la famosa frase di Kennedy: cara Università “non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese”, mettendo concretamente da parte la tua autoreferenzialità.
Forse troverai più gente e più organizzazioni convintamente al tuo fianco per salvarti insieme al paese!
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L’Università fuori dall’Europa

Mozione approvata all’unanimità dell’Assemblea della CRUI

(20.12.2012)

Le gravissime e irresponsabili scelte del Governo e del Parlamento contenute nel DDL di stabilità risultano perfettamente coerenti con il piano di destrutturazione del sistema iniziato con le LL. 133/2008 e 126/2008 nella legislatura appena conclusasi, a carico di un sistema universitario notoriamente e pesantemente sottofinanziato rispetto alle altre realtà internazionali. La richiesta di mantenere nella disponibilità delle Università 400mln di euro equivaleva a poco più del 10% degli emendamenti introdotti dal Senato e ad appena l’1% dell’impatto complessivo della manovra. Non si è voluto intervenire se non con un pour boire di 100mln di euro.

La CRUI prende atto di come gli appelli più volte lanciati dalla Conferenza in via ufficiale e a mezzo stampa sin dall’insediamento del Governo sulle conseguenze dell’ulteriore taglio di 400 milioni siano rimasti del tutto inascoltati e le garanzie formulate al riguardo dal Ministro dell’Università siano state totalmente tradite e disattese. E non è più sufficiente, purtroppo, dichiarare che l’Università va in fallimento senza che ciò produca i suoi necessari effetti a tutti i livelli.

Quanto approvato dal Parlamento è in patente contraddizione con le tanto frequenti quanto vacue prese di posizione in favore dei giovani e della ricerca; determinerà un crollo oggettivo del sistema universitario italiano e la sua immediata fuoriuscita dall’Europa.

La CRUI respinge in toto il disegno politico che porta all’affossamento del sistema universitario nazionale, statale e non statale. Per conseguenza, a fronte di una diminuzione del 12% delle risorse nel triennio e di una qualsiasi idea di sviluppo del sistema universitario, la CRUI annuncia fin da subito:
• l’impossibilità di avviare alla ricerca i giovani meritevoli;
• l’irricevibilità del piano triennale inviato alla Conferenza dal MIUR e delle conseguenti forme di ripartizione ivi previste, incluse quelle premiali;
• l’impossibilità di adempiere alle scadenze burocratiche indicate dall’ANVUR di valutazione della didattica, vista l’assenza di risorse adeguate per la costruzione dell’offerta formativa;
• l’impossibilità, alle condizioni attuali, di partecipare in modo competitivo al programma Horizon 2020 e agli obiettivi di efficienza didattica in termini di laureati chiestici dall’Europa.

Deve essere inoltre ben chiaro che, a séguito dei nuovi tagli, le Università italiane garantiranno le spese del solo personale in servizio e si vedranno costrette alla riduzione di non meno del 20-25% dei servizi essenziali per il funzionamento (luce, gas, riscaldamento, laboratori, biblioteche) con le prevedibili conseguenze sulle infrastrutture della didattica e della ricerca, sull’offerta formativa, sulle immatricolazioni e sulla correlata fuga delle menti migliori verso Paesi più “ospitali”. Inoltre, come più volte annunciato, la drastica e inopinata diminuzione delle entrate dallo Stato provocherà lo sforamento dei bilanci di più della metà degli Atenei italiani.

Il Paese, anche in vista delle prossime scadenze elettorali, deve essere consapevole che alle parole spese per lo sviluppo, per la difesa dei giovani e delle loro opportunità dovrà seguire la garanzia dei fatti. Non si può né si deve continuare a mentire. Come può l’Italia stare in Europa se non vi porta le sue Università? Le Università italiane vogliono essere trattate e giudicate su standard europei. Nulla di più.

La CRUI ritiene che l’occupazione dei propri spazi di autonomia da parte di una politica nemica del sapere abbia prodotto risultati disastrosi; intende avviare nelle prossime settimane un dibattito sulle nuove scelte per il futuro del sistema con tutti gli interlocutori coinvolti, a cominciare dagli studenti e dalle famiglie, in vista di un’Assemblea aperta da tenersi prima delle elezioni politiche per rilanciare un’idea diversa di Università nel Paese.

5 Responses to Università: per non morire di autoreferenzialità

  1. […] e sulle terre di Sardegna. Occorrerebbe, come occorre perchè ce n’è bisogno quanto il pane, ripensare tutta l’Università e il suo ruolo in e per la Sardegna, in e per l’Europa, e oltre… Discorso complesso, che […]

  2. […] Università: per non morire di autoreferenzialità […]

  3. […] può fare per il paese”. In queste battute conclusive abbiamo riscontrato assonanza con un editoriale di Aladin del 23 gennaio 2013, che riproponiamo, in quanto ne rimane sostanzialmente immutata la validità delle argomentazioni […]

  4. […] di Franco Meloni Nel mese di giugno l’Università di Sassari eleggerà il nuovo Rettore per il sessennio 2014-2020, in sostituzione del prof. Attilio Mastino, il quale per le disposizioni di legge e statutarie non potrà ricandidarsi. Il nuovo Rettore entrerà in carica il 1° ottobre del corrente anno. Per l’Università di Cagliari il nuovo Rettore sarà eletto nel mese di giugno 2015 ed entrerà in carica il 1° ottobre del medesimo anno. E’ importante e necessario che si colgano tali scadenze per riprendere il dibattito sullo stato delle Università sarde, sul ruolo che rivestono nella regione attualmente e, soprattutto, su quanto si può e si deve cambiare, ovviamente in meglio. Sì perchè siamo convinti che i sardi non siano soddisfatti dell’attuale situazione delle loro Università e vogliono che sia superata l’attuale inadeguatezza rispetto alle esigenze di sviluppo della Sardegna. La recente legge di riforma delle Università (Legge 30 dicembre 2010, n. 240*) con tutti i conseguenti provvedimenti attuativi non è certo servita a migliorare l’Università italiana, anzi in generale a peggiorarne lo stato, come ben dimostrato in una serie di importanti convegni che si sono tenuti in questi anni (si segnala al riguardo l’ultimo organizzato dalla rivista on line Roars, che abbiamo ripreso come Aladin). A dire il vero la criticabilissima legge che prende il nome dal ministro berlusconiano Mariastella Gelmini, ha avuto come fiero oppositore soprattutto il movimento degli studenti sostenuto da pochi altri; sicuramente non dalla stragrande maggioranza dei Rettori che si sono rapidamente adeguati alle impostazioni del ministro e della maggioranza parlamentare di centro destra (e non solo). E’ giusto segnalare come uno dei rettori più critici rispetto alla riforma sia stato Attilio Mastino, che su tali posizioni si era anche proposto alla guida della Conferenza italiana dei Rettori, peraltro senza successo. I ministri dell’Istruzione e dell’Università che si sono succeduti non hanno modificato l’impostazione della legge. Ricordiamo al riguardo gli apprezzamenti degli allora presidente del consiglio Mario Monti e del suo ministro ex rettore Francesco Profumo. Una delle ragioni del forte riallineamento dei Rettori rispetto alle posizioni ministeriali è senza dubbio attribuibile alle notevoli concessioni in termini di aumento smisurato del potere dei rettori (definiti da Sabino Cassese nel citato convegno come zar o boss**) e nell’antidemocratica proroga “ope legis” di due anni del loro mandato rettorale. Normativa che ha comportato uno staordinario incremento del potere baronale e anche una conferma della gerontocrazia, considerato che molti Rettori in carica erano anziani e al termine della loro carriera accademica. A parziale correzione di questa situazione è stata inserito nell’articolo 2 della legge un comma che così recita: “L’elettorato passivo per le cariche accademiche è riservato ai docenti che assicurano un numero di anni di servizio almeno pari alla durata del mandato prima della data di collocamento a riposo”. Ciò significa che, per fare gli esempi delle nostre Università, non può essere candidato come rettore dell’Università di Sassari chi compia 70 anni oltre il 30 settembre 2020 e per l’Università di Cagliari chi compia i 70 anni oltre il 30 settembre 2021. Ma, torniamo alla questione più importante: è necessario (e per questo ci impegniamo anche noi con i nostri modesti mezzi) che il dibattito sulle Università esca dalle stanze accademiche per riguardare l’intera comunità sarda. In primis nel dibattito deve entrare la costituzione dell’unica Università della Sardegna, articolata almeno nei suoi due Atenei storici. Concludiamo ricordando la nostra impostazione che richiede l’abbandono dell’Università di ogni impostazione autoreferenziale e la gi…. […]

  5. […] Uniti d’America. Riscrivendola “a nostro uso e consumo” suona così: cara Università “non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese”, mettendo concretamente da parte la tua autoreferenzialità. Forse troverai più gente e più […]

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