Reddito di cittadinanza

LAVORO
di Roberta Carlini, su Rocca 06/2017

Mi successe una sera all’improvviso, mentre lavavo i piatti e guardavo nel giardino attraverso la finestra. Fu allora che mi venne in mente che tutte le cose più importanti che facevo per la mia vita, quella della mia famiglia e degli altri, non erano pagate affatto o erano pagate pochissimo». Philippe Van Parijs, filosofo ed economista belga, fa risalire a quella intuizione l’inizio degli studi e del lavoro sul reddito universale di cittadinanza. Una suggestione, il recupero di un’antichissima utopia sociale, che poi è diventato il suo cavallo di battaglia, l’impegno di una vita e una rete internazionale, il Basic Income Earth Network. Nella costruzione teorica di Van Parijs, il reddito di base è un dividendo sociale, la ricompensa per quello che ciascuno di noi fa, gratuitamente e quotidianamente, per contribuire alla ricchezza sociale.
Quella di Van Parjis è la versione più radicale, estesa e utopistica di un carnet di proposte di sostegno monetario pubblico alle persone o alle famiglie, che in questi mesi molti sono tornati a sfogliare. Dai giganti della tecnologia della Silicon Valley, dove è nata un’impresa per sperimentare il reddito garantito su un piccolissimo numero di 100 persone; al governo finlandese, che dall’inizio del 2017 svolge analoga sperimentazione su un campione di 2000 cittadini; agli elettori svizzeri, che lo scorso anno se ne sono occupati in un referendum – che hanno bocciato; al candidato socialista francese all’Eliseo Benoit Hamon, che ha inserito la proposta di un reddito di base nel suo programma; alla politica italiana, che ha dibattuto (poco) in parlamento su due proposte, di M5S e Sel, intitolate rispettivamente al reddito di cittadinanza e al reddito minimo garantito (in tutti e due i casi, scatterebbe solo al di sotto di una certa soglia di reddito, familiare o individuale), e che è tornata a occuparsene con più clamore dopo il ritorno di Matteo Renzi dal suo mini-viaggio in California. Svuotando il trolley, l’ex premier italiano ha tirato fuori la proposta di reddito di cittadinanza – quella sulla quale, appunto, stanno ragionando alcune teste della Silicon Valley – e l’ha subito scartata per trasformarla in qualcosa di diverso, il «lavoro di cittadinanza». Reddito, lavoro, cittadinanza: attorno a queste parole chiave si articola una gamma di proposte diverse, sulle quali è utile indagare andando oltre gli slogan e gli opportunismi del momento.
- segue -
perché ora
Dalla fine del Diciottesimo secolo, quando l’utopista americano Thomas Paine diede la prima sistemazione teorica all’idea di un reddito di base per tutti, a oggi, molti fatti e molte teorie sono passate sotto i ponti. E la formula del reddito garantito, con diverse varianti, ha attraversato destra e sinistra, dal liberismo estremo di Milton Friedman (il teorico dello Stato minimo e l’ispiratore delle politiche di Reagan e Thatcher) al rifiuto del lavoro e al diritto all’ozio degli anni ’70. Non ha mai «sfon- dato» nel campo dei partiti operai nove- centeschi, né tantomeno dei sindacati nei Paesi nei quali le organizzazioni del lavoro erano potenti e in grado di influenzare la politica. Un’etica «lavorista» fortissima, e al contempo la certezza del fatto che il reddito si deve pretendere dal capitalista, non dallo Stato, spiegano la diffidenza ver- so la formula di un assegno monetario garantito a prescindere da quel che si fa e per chi. Altri erano, in questa cultura, i servizi universali che lo Stato doveva garantire: sanità, istruzione, più servizi sociali di base da dare in natura e non in moneta. Specularmente, i conservatori americani con Friedman volevano un reddito minimo (nella formula tecnica dell’imposta negativa) proprio per cancellare tutto quest’apparato di welfare e sostituirlo solo con una erogazione monetaria limitata ai più poveri, che avrebbero con quei soldi potuto scegliere quale istruzione, sanità, servizi comprare.
Oggi il dibattito torna in un contesto del tutto nuovo: quello della disoccupazione causata da uno dei passaggi di tecnologia più dirompente che ci sia stato dall’invenzione della macchina a vapore. Non passa giorno senza una nuova stima sull’effetto della rivoluzione delle macchine sul lavoro: l’ultimo studio, prodotto da due ricercatori di Oxford (Carl Frey e Michael Osborne) sostiene che quasi la metà dei posti di lavoro negli Stati Uniti sarà automatizzato nei prossimi venti anni. Qualche tempo fa una ricerca McKinsey prevedeva lo stesso scenario, avvertendo però che le cose possono andare molto più rapidamente, o anche molto meno rapidamente, a seconda delle condizioni economiche e sociali esterne. Come dire: tutto può succedere, non sappiamo con precisione quando, ma è certo che succederà. Due tra i più importanti studiosi dell’economia dei robot Eric Brynjolfsson e Andrew McAfee del Mit di Boston, più che quantificare i posti di lavoro «persi» invitano a guardare al gigantesco cambiamento in corso prendendo atto del fatto che quei lavori non torneranno più, ma guardando con ottimismo al potenziale di produttività e ricchezza liberato dalla «nuova rivoluzione delle macchine». Ma anche per i robot-ottimisti è innegabile che la transizione non sarà un pranzo di gala, e che lascerà (sta già lasciando) sul terreno milioni e milioni di posti di lavoro.
Già nel 1930 John Maynard Keynes, parlando degli effetti di uno choc tecnologico e dell’aumento di produttività che l’innovazione delle macchine avrebbe potuto consentire, si lanciava in una profezia: «Grazie al progresso tecnologico, ci basterà lavorare quindici ore a settimana. E tra cento anni l’economia smetterà di essere un problema per l’umanità». Al centenario di quella profezia di Keynes manca pochissimo, e se ne è attuata solo metà: in effetti il progresso tecnologico richiede molto meno lavoro per fare un numero crescente di merci. Ma l’economia non ha smesso di essere un problema per l’umanità, ripetendosi invece come un incubo ogni notte peggiore. Oggi i fautori delle varie forme di reddito garantito vorrebbero attuare la seconda parte di quella profezia di Keynes: godiamoci le ore di lavoro liberate dalla tecnologia. Ma l’unico modo per farlo è «sganciare» il reddito dal lavoro, attraverso un sostegno di base garantito, un pavimento sotto il quale non si può cadere. L’alternativa – mantenere l’ideale e l’obiettivo della piena occupazione, attraverso le lotte sociali e l’intervento pubblico – richiederebbe di fermare il progresso tecnologico, ricostituire il potere delle organizzazioni sindacali, ridare linfa e risorse agli Stati nazionali: tre cose difficili, al momento.

soldi, lavoro, cittadinanza
In questo complicato scenario si calano anche il dibattito italiano sul reddito garantito e le relative proposte. Da un lato, è uno slogan al quale si stanno aggrappando qua e là forze politiche o movimenti di base alla disperata ricerca di soluzioni al problema della precarietà del lavoro, e a quello ancora più pressante dei salari bassi e bassissimi. Va precisato però che nessuna delle due proposte parlamentari – quella del Movimento Cinque Stelle e quella di Sel – è un reddito di cittadinanza in senso stretto, cioè un assegno dato a tutti, a prescindere dal loro reddito e dalla loro condizione familiare e occupazionale. Anche se il M5S lo chiama «reddito di cittadinanza», di fatto è, come quello proposto da Sel, un reddito minimo garantito: se si supera una certa soglia di reddito (attorno ai 6-700 euro al mese) se ne perde il diritto. Il che può sembrare giusto in linea di principio, ma pone un grosso problema: si introduce un disincentivo a lavorare, tanto più se si considera che spesso i giovani dovrebbero faticare per ottenere una cifra di poco superiore sul mercato. Il costo delle proposte in esame, secondo i calcoli dell’Istat, oscilla tra i 14,9 miliardi annui della proposta del M5S ai 23,5 di quella di Sel (che eroga il reddito su base individuale e non familiare).

Dall’altro lato, c’è chi vede in queste proposte il rischio di una riproposizione del vecchio assistenzialismo, tanto più pericoloso se si considera la differenza tra Nord e Sud che permane attraverso i secoli e che dirigerebbe gran parte delle risorse per il «nuovo» reddito a Mezzogiorno. Su questo secondo crinale si è posizionato l’ex premier Renzi, quando, tornando da un breve viaggio californiano, ha contrapposto alla formula del «reddito di cittadinanza» quella del «lavoro di cittadinanza»: in sostanza, per meritarsi l’assegno bisognerebbe essere disponibili a lavorare, a fare qualcosa per la società. E questo, per evitare che si approfitti della situazione, restando a grattarsi la pancia «tanto c’è papà-Stato che ci pensa».
Con questa proposta, Renzi fa però un salto nel secolo scorso, tornando a quell’equivalenza tra lavoro e reddito che l’evoluzione in corso sta scardinando. Se i lavori «utili» di cui parla servono, non si vede perché non possano essere forniti dal mercato o (se si tratta di beni e servizi che il mercato non «prezza») dallo Stato, che dunque dovrebbe in questo caso assumere lavoratori e pagare i salari corrispondenti. Se invece si tratta di tener impegnate le persone tanto per evitare i mali dell’ozio, o comportamenti opportunistici, la proposta suona abbastanza paternalistica, oltre che viziata da due preconcetti: che la disoccupazione dipenda dal rifiuto di accettare i lavori e lavoretti esistenti sul mercato, invece che da una strutturale eccedenza di persone rispetto ai posti disponibili; e che la gente, di fondo, non abbia alcuna voglia di lavorare. Il reddito incondizionato – cioè non legato alla verifica della disponibilità a lavorare, che peraltro sarebbe molto costosa dal punto di vista amministrativo – ha moltissimi rischi, ma ha due virtù: non bisogna mettere su un apparato burocratico per verificare chi «se lo merita», e si rafforza la capacità contrattuale dei lavoratori (e aspiranti tali) su un mercato dove al momento i rapporti di forza sono tutti per i datori di lavoro.
Se stiamo tutti insieme transitando da un modello economico a un altro, è un aiuto per chi, nel passaggio, rischia di restare stritolato, non possedendo già le competenze e le forze per il nuovo mondo ma non avendo più nessuna tutela dal vecchio. Con tutte le sue incognite, pare questa la direzione da sperimentare.

Roberta Carlini, su Rocca 06/2017

Rocca 6 2017
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codonesu-dueUna tassa sui robot?
Dalla meccanizzazione alla cibernetica, dai mainframe all’informatica distribuita e alle reti, dal silicio alle reti neurali e ai computer quantici, dall’intelligenza artificiale alla robotica nel tempo di internet degli oggetti.

II intervento (il primo è stato pubblicato il 30 marzo 2017)
di Fernando Codonesu
(…)

Ci si riferisce qui ad un documento di gruppo di lavoro creato dall’Amministrazione americana di J.F. Kennedy noto come “Ad Hoc Committee” che aveva il compito di valutare gli effetti delle tre rivoluzioni allora in atto, nell’ordine: la rivoluzione cibernetica, la rivoluzione degli armamenti atomici e quella dei diritti umani.
A proposito della rivoluzione cibernetica, i firmatari del documento presentato nel 1964 al presidente Lyndon Johnson, subentrato a Kennedy a seguito del suo omicidio a Dallas, coscienti che la ricchezza creata dal lavoro delle macchine è ricchezza alla pari di quella generata dal lavoro umano, suggerivano all’Amministrazione statunitense alcune azioni da compiere nel periodo transitorio per evitare gli effetti più tragici rilevabili nel corso del tempo. Tra le varie azioni suggerite per incrementare l’occupazione se ne riportano alcune perché le ritengo più attuali che mai: una sorta di “reddito di cittadinanza” (1) per tutti coloro che erano rimasti o avrebbero potuto rimanere fuori dai cicli di produzione per poter beneficiare del benessere creato dalle macchine; un grande intervento nel settore educativo per colmare lo svantaggio di competenze delle persone che non conoscevano il funzionamento dei computer; un piano di opere pubbliche finalizzato alla realizzazione di infrastrutture; un grande programma di edilizia popolare per i meno abbienti; lo sviluppo e finanziamento di efficienti sistemi di mobilità urbana a causa dei fenomeni di inurbamento; una revisione del sistema fiscale con un prelievo progressivo in base al reddito per poter finanziare i bisogni dei più disagiati, ecc.
Sembra un programma di stampo socialista, ma quelli non erano socialisti, erano scienziati (1b), giornalisti, scrittori, imprenditori, ecc., rappresentativi della società americana del tempo.

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Note
(1) “… We urge, therefore, that society, through its appropriate legal and governmental institutions, undertake an unqualified commitment to provide every individual and every family with an adequate income as a matter of right. … We regard it as the only policy by which the quarter of the nation now dispossessed and soon-to-be dispossessed by lack of employment can be brought within the abundant society. The unqualified right to an income would take the place of the patchwork of welfare measures – from unemployment insurance to relief – designed to ensure that no citizen or resident of the United States actually starves.”.
La primogenitura di tale proposta, come si vede, non appartiene a nessuna delle forze politiche oggi in campo in Italia.
(1b) Tra i firmatari c’erano i premi Nobel Linus Pauling e Gunnar Myrdal.

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One Response to Reddito di cittadinanza

  1. […] né dalla disponibilità ad accettare un lavoro. Se ne è parlato in altri numeri di Rocca (n. 6 e n. 20): può piacere o non piacere, ma il reddito di cittadinanza va anche al «surfista di […]

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