Il Partito sociale e il diritto alla città

umberto_boccioni_1911_the_street_enters_the_house_oil_on_canvas_100_x_100-6_cm_sprengel_museumIl Partito sociale e il diritto alla città
di Sandro De Toni, su sbilanciamoci.

23 maggio 2017 | Sezione: Alter, Italie, Società
Note a margine del volume recentemente pubblicato dalle edizioni dell’Asino, “Il partito sociale”, una raccolta di scritti di Osvaldo Gnocchi-Viani

La lettura dell’introduzione di Giulio Marcon a “Il partito sociale” (edizioni dell’asino), una raccolta di scritti di Osvaldo Gnocchi-Viani, mi ha sollecitato alcune annotazioni (laterali) ispirate dai teorici della “rivoluzione urbana”. Tra gli altri: Henri Lefebvre (Il Diritto alla città ed altre opere) e David Harley (vedi, ad esempio, Città ribelli).

Le tesi di Osvaldo Gnocchi Viani (1837-1917), fondatore del Partito Operaio Italiano (POI), sul socialismo, sulle camere del lavoro, le organizzazioni operaie, sul mutualismo e la cooperazione sociale, sono ancora di grande attualità. In particolare, la sua critica alla separatezza tra politica e questione sociale e la sua rivendicazione della centralità dell’autogestione e della democrazia dal basso.

Nell’organizzazione delle classi subalterne sono state due le strade perseguite storicamente dal movimento operaio.
Da un lato, una lunga storia di ricerca politica che mira al controllo operaio, all’autogestione, alla cooperazione e cosi via. La maggior parte dei tentativi di questo tipo, nel lungo periodo si sono però dimostrati irrealizzabili o assorbili dal sistema capitalista, malgrado gli sforzi e i nobili sacrifici che li hanno tenuti in vita. Il controllo dei lavoratori in unità produttive relativamente isolate raramente riesce a sopravvivere. Ogni spazio alternativo spontaneo, pur importante, è destinato a svanire; alla fine esso è riassorbito dalla prassi dominante.

Di fronte a questa difficoltà, gran parte della sinistra è giunta alla conclusione che la lotta per il commando dell’apparato statale sia l’unica. Lo Stato dovrebbe essere l’agente che controlla i circuiti del capitale e controlla le istituzioni, i poteri e i soggetti che gestiscono i flussi responsabili del perpetuarsi dei rapporti di classe nella produzione. Ma l’esperienza storica ha visto il fallimento dei paesi del socialismo reale e la debolezza delle socialdemocrazie nei confronti del neo-liberismo, nonché la perdita di potere degli stati-nazione di fronte ai fenomeni della globalizzazione.

È possibile trovare una via di mezzo tra le strade dell’autogestione e quella del controllo centralizzato statale, se nessuno delle due funziona come antidoto efficace al potere del capitale? Lefebvre e Harvey sostengono che la sinistra dovrebbe promuovere un movimento sociale urbano che rivendichi il diritto alla città per tracciare una via per la costruzione di un alternativa anticapitalista.

Vediamo perché e come.

Perché il diritto alla città? L’uso capitalistico dei fenomeni di urbanizzazione è funzionale al ciclo del capitale . Come conseguenza, viviamo in città sempre più divise, frammentate e conflittuali. L’urbanizzazione ha svolto e svolge un ruolo cruciale nell’assorbimento delle eccedenze di capitale, agendo su scala geografica sempre più ampia, ma al prezzo di processi di distruzione creativa che hanno espropriato le masse urbane di qualunque diritto alla città. L’intero programma neoliberista dell’ultimo trentennio è stato orientato alla privatizzazione del controllo dell’eccedenza. L’urbanizzazione è diventata globale anche tramite l’integrazione dei mercati finanziari mondiali.

Il rapido degrado della qualità della vita urbana ci indica che oggi la crisi ha tutte le caratteristiche per essere definita una crisi urbana. Il nostro principale compito politico – suggeriscono Lefebvre e Harvey – consiste allora nell’immaginare e ricostituire un modello di città completamente diverso dall’orribile mostro che il capitale globale e urbano produce incessantemente. Ma tutto ciò non può accadere senza la creazione di un forte movimento anticapitalista il cui principale obiettivo consista nella trasformazione della vita quotidiana nella città. Insomma, dal diritto alla città alla rivoluzione urbana.

Dobbiamo affermare il diritto alla città da parte degli espropriati, il diritto di cambiare il mondo e la vita, e di reinventare la città in modo più conforme ai nostri desideri. Questo diritto collettivo alla città (anche se la distinzione tra la città e il rurale è saltata per via dell’urbanizzazione dilagante della stessa campagna; ma ne rimane il forte valore simbolico che smuove un potente immaginario) è un diritto collettivo che può essere una parola d’ordine programmatica e un ideale politico. I produttori urbani devono sollevarsi e rivendicare il loro diritto alla città che collettivamente producono.

Dove e in quale modo si possono riunire per dare voce alle loro proteste e alle loro richieste collettive? In questi anni sono venuti alla ribalta movimenti urbani di ogni tipo che cercano di superare l’isolamento e di dare una nuova forma alla città.

Vanno costruiti meccanismi democratici alternativi per decidere come rivitalizzare la vita urbana al di fuori dei rapporti di classe dominanti. La conclusione strategica è che l’organizzazione dovrebbe pensare in termini di intervento nelle città invece di limitarsi ai luoghi di lavoro. Può sorgere una coalizione sociale e politica con una forma di organizzazione territoriale.

Dunque un “Partito sociale”, ma di quale parte della società? Gnocchi-Viani a cavallo del ‘900 faceva riferimento al proletariato. Ed oggi, quale deve essere il blocco sociale di riferimento per un partito di sinistra? Sul soggetto del cambiamento c’è un dibattito in corso tra post-operaisti e populisti democratici (vedi per le loro tesi, rispettivamente, le elaborazioni di Antonio Negri e di Carlo Formenti).

Senza sposare le tesi populiste, ritengo comunque che il blocco sociale sul quale deve poggiarsi la rinascita di un partito di sinistra a base popolare debba superare sia la vecchia centralità della fabbrica che quella dei lavoratori della conoscenza informatica mediante una presunta autonomizzazione del loro lavoro vivo dal capitale.

La classe operaia rivoluzionaria in occidente è sempre stata costituita da lavoratori urbani, piuttosto che esclusivamente da operai. Il lavoro, importante e in costante espansione, di creazione e sostegno della vita urbana è sempre più affidato a una forza lavoro non garantita e sottopagata, spesso impiegata a tempo parziale e disorganizzata. Il così detto “precariato” ha sostituito il tradizionale “proletariato”. Come affrontare la questione dei lavoratori impoveriti, precari ed emarginati, che ora costituiscono il blocco maggioritario e probabilmente più rappresentativo della forza lavoro in molte città capitaliste diventa un problema politico cruciale (in parte sovrapposto al problema delle periferie). Esiste oggi una maggioranza sociale spuria unificata dalla proletarizzazione e dalla precarietà: i lavoratori dei trasporti e della logistica, badanti e insegnanti, idraulici ed elettricisti, lavoratori ospedalieri, impiegati di banca, impiegati pubblici, ambulanti, nuovi lavoratori servili nell’economia dei servizi e del capitalismo delle reti, gli sfrattati e i senza casa, i migranti, i lavoratori autonomi di terza generazione uberizzati e messi al lavoro da qualche algoritmo.

Si deve superare a sinistra una specie di feticismo rispetto alla forma organizzativa: il centralismo democratico nei partiti comunisti e socialdemocratici. Il partito sociale va costruito dal basso in un ottica federativa. Vengono citate le esperienze delle “città ribelli”, come Barcelona en comu’, Madrid, Atene, Napoli, e si propone di tessere reti di comunità, di città-comunità. Ma occorre anche riflettere sulla dialettica tra orizzontale e verticale.

Le forme organizzative orizzontali possono funzionare per alcuni problemi di una certa portata ma presto esauriscono le proprie possibilità. Secondo David Harvey dipende dalla connessione dei sistemi. Ad esempio, l’università non è un sistema strettamente connesso. Nei sistemi strettamente connessi bisogna prendere decisioni rapide: il controllo del traffico aereo; il guasto in una centrale nucleare, l’attività in campo militare degli zapatisti,…

Pertanto non basta sostenere che le organizzazioni devono essere orizzontali. Si potrebbe utilizzare la distinzione di Saint-Simon secondo cui i livelli superiori dovrebbero riguardare la gestione delle cose e non delle persone. Una linea di demarcazione difficile rispetto alle politiche reali, ma che può tornare utile.

Altro problema: ci sono municipi ricchi e municipi quasi privi di risorse. Come si organizza la solidarietà? Solo con accordi orizzontali? Insomma, serve uno Stato. E serve anche una sorta di governo globale: basti pensare al problema del cambiamento climatico. Oppure al fenomeno epocale delle migrazioni.
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IL PUNTO DI LABSUS
labsus
Che cosa è il diritto delle città
Fabio Giglioni – 23 maggio 2017 su LabSus

Ricorre sempre più frequentemente l’uso dell’espressione “diritto delle città”. Si tratta di una locuzione davvero difficile da afferrare in prima battuta, perché verrebbe quasi spontaneo associare questo tema al diritto degli enti locali o al diritto urbanistico, ma in entrambi i casi sfuggirebbero i motivi di questa nuova espressione. E, in effetti, la sua coniazione prescinde da questi riferimenti.

Città come creature di comunità
Riprendendo la dicotomia utilizzata da uno studioso americano molti anni fa (G.E. Frug, The city as a legal concept, in Harvard Law Review, 1980, 93, 6, 1059 ss.) ridurre le città agli enti locali o al diritto urbanistico significa ricondurre le città a “creature degli stati”, entità cioè che svolgono funzioni in quanto conferite, delegate o attribuite dallo stato mediante atti puntuali di carattere normativo. In questo senso le città verrebbero assunte come organismi – certo complessi – chiamati ad assolvere funzioni pubbliche che collimano con gli interessi dello stato.
Quando si parla, però, di diritto delle città si intende altro e, secondo la bipartizione di Frug, le città dovrebbero essere considerate come libere associazioni di soggetti che si consociano nell’uso comune di un territorio conurbato che presenta una complessità di interessi. Le città, insomma, come “creature di comunità”. In questo senso le città sono viste sempre all’interno di ordinamenti più ampi che le comprendono, ma capaci anche di esprimere potenzialità che la prima accezione manifesta solo in modo parziale. In questo senso le città eserciterebbero un’autonomia che è innanzitutto normativa, la cui fonte è direttamente data dalla politicità degli interessi rappresentati sul territorio (Giannini).
Possiamo così dire che per diritto delle città si deve intendere quel complesso di regole che governano spazi urbanizzati la cui origine trova fonte nella rappresentanza della comunità che le istituzioni cittadine interpretano e nel diretto coinvolgimento delle organizzazioni o delle individualità della società civile.

Diritto creativo delle città
In questo modo le città non vengono evidenziate tanto come soggetti chiamati ad applicare la legge, quanto come soggetti capaci di creare diritto innovativo insieme alle realtà sociali che le animano. È un diritto che dipende poco dalle leggi e che invece è alimentato dall’incontro delle esperienze sociali autoprodotte con gli interessi generali che le istituzioni cittadine sono chiamate a preservare. A svolgere questa funzione di incontro è il principio di sussidiarietà orizzontale, come affermato dall’art. 118, c. 4, cost., che obbliga infatti le autorità pubbliche a favorire le autonome iniziative di cittadini, singoli e associati, rivolte a curare le attività di interesse generale. Il diritto delle città, così, risponde anche a un disegno costituzionale ben preciso che vuole disegnare gli ordinamenti giuridici non come esperienze chiuse o impermeabili a quelle sociali, ma aperte ad esse e capaci di delineare le condizioni che ne consentano l’emancipazione da meri fatti a elementi del diritto.
Dentro questa cornice vanno collocate quelle esperienze sociali che, pur originando al di fuori di un quadro di legalità, assumono rilievo perché agenti su spazi e beni che sono andati in disuso o si trovano in stato di abbandono al fine di riattivarne l’uso per finalità sociali: ne sono un esempio gli interventi per il decoro urbano, la gestione di spazi verdi lasciati in degrado, la rigenerazione di spazi ed edifici che hanno perso la loro destinazione originaria e altro ancora.

Tre modelli di diritto creativo
Rispetto a tutto questo si delineano tre modelli di reazione delle città.
Il primo è fondato sulla tolleranza, in cui cioè le istituzioni non si prefiggono l’obiettivo specifico di “recuperare” al diritto esperienze che originano al di fuori ma allo stesso tempo ne ammettono l’esistenza e ci convivono. Naturalmente nel momento in cui questo implicito riconoscimento si stabilisce è difficile che tale condizione di tolleranza resti a lungo tale: è probabile che prima o poi questa esperienza venga riassunta nell’ambito di una condizione di sostenibilità piena giuridica e a questo esito sono interessati tanto le istituzioni quanto le realtà sociali. Il caso recente di Roma con la sentenza della Corte di conti, commentata su questa Rivista, ne è un caso esemplare.
Il secondo modello è quello che si è affermato in modo particolare a Napoli, in cui le istituzioni cittadine hanno assunto delibere puntuali attraverso cui qualificare specifici beni, come beni a uso civico urbano. Con questa definizione originale è stata ammessa la possibilità a specifiche organizzazioni collettive di gestire certi beni per assicurarne una fruizione collettiva il cui contenuto e le cui modalità sono autodeterminate secondo metodi decisionali democratici. In questo senso l’intervento del comune è essenziale sia per qualificare in modo originale certi beni, sia per svolgere quella funzione di garanzia nei confronti della cittadinanza nel suo insieme sull’uso appropriato a fini pubblici dei beni oggetto delle delibere.
Il terzo modello, infine, è quello che ha avuto origine nel comune di Bologna nel 2014 e che fa uso dei patti di collaborazione stipulati dai comuni con i cittadini in esecuzione di appositi regolamenti comunali volti a disciplinare – per l’appunto – la collaborazione tra autorità locali e cittadini. Al centro di questi patti sono sempre beni e spazi urbani verso cui vi è l’impegno alla rigenerazione a fini generali, ma in questo caso lo strumento di raccordo con le istituzioni è realizzato con un accordo negoziale. La flessibilità dello strumento negoziale consente alle parti di produrre quel diritto creativo già citato, idoneo ad assolvere specifiche funzioni e non standardizzato.
In tutti questi casi siamo in presenza di reazioni delle istituzioni pubbliche che, di fronte al manifestarsi delle “zone franche” del diritto (A. Nieto, Critica della ragion giuridica, Milano, Giuffré, 2012, 223-224), non reagiscono applicando il comando legislativo, ma producendo nuovo diritto che coesiste con quello strettamente positivo. Si tratta di tre modelli molto diversi tra loro, che esprimono un grado di formalità che non cancella del tutto l’informalità ma con diversa però capacità anche di resistere alle esigenze di legalità che potrebbero essere sempre manifestate. Il primo modello è senz’altro il più precario, il secondo è puntiforme nel senso che richiede sempre una delibera del comune per la qualificazione specifica di certi beni, mentre il terzo ha l’ambizione di delineare una soluzione più strutturale. Sono modelli diversi, non necessariamente alternativi tra loro.

Le città come ecosistema
Tutti, però, permettono di individuare interessanti analogie a raffronto con i modelli biologici prevalenti. Si dà così origine a una sorta di organizzazione complessa di poteri e interessi che riflette più da vicino il mondo vegetale rispetto a quello animale: mentre, infatti, il secondo è fondato sulla centralità di alcuni organi vitali che permettono di assegnare una sorta di priorità gerarchica ai suoi componenti, il primo è fondato su moduli coesistenti e autoorganizzati in cui si trova una pluralità di centri autonomi e reciprocamente condizionati allo stesso tempo. In altre parole, il diritto delle città appare configurare un modello ecosistemico di centri auto-organizzati coesistenti ma tenuti insieme da una regia che ne permette di sfruttare al massimo i vantaggi per le collettività.
Dietro, tuttavia, queste potenzialità esistono anche alcune insidie che è bene tener presenti al fine di contenere alcuni rischi. Il rischio maggiore di questi sistemi è ovviamente produrre nuove esclusioni che possono essere date dalla disponibilità dei patrimoni, dalla cultura e dalla differente distribuzione delle conoscenze. Anche per questo il diritto delle città deve trovare forme di convivenza con il diritto più tradizionale, affinché le potenzialità di entrambi vengano messe a frutto pienamente.

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