QUEL 25 LUGLIO 1943 a CAGLIARI

Dall’album dei ricordi di un ultraottuagenario
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QUEL 25 LUGLIO 1943 a CAGLIARI
di Paolo Fadda, su fb
Settantaquattro anni or sono, Anno Domini 1943, il 25 luglio non fu un giorno qualsiasi. Cadeva di domenica, ma a Cagliari nessuna campana delle sue 50 chiese avrebbe chiamato i fedeli al rito tradizionale della Santa Messa. Perché la città, per quel che sono i ricordi di allora, abbandonata da gran parte dei suoi abitanti, era divenuta una “nuova Pompei”, con due terzi delle sue abitazioni distrutte o fortemente danneggiate da quella pioggia di fuoco che era giunta dal cielo, lanciata da quelle “fortezze volanti” dell’Air Force americana. Quasi fosse un’eruzione lavica da un vulcano di capacità gigantesche. ed era divenuta, per i miei ricordi, una città di fantasmi, di morti, di sciacalli e …di merdone.
Per la verità, nessuno era in grado di dire che quel giorno – 25 luglio – sarebbe divenuto in seguito una data storica nella storia del nostro Paese. Perché avrebbe segnato la fine di quel regime politico che dal 28 ottobre del 1922 aveva sottratto al popolo italiano le libertà democratiche.
Le cronache ed i ricordi diranno che a Cagliari tutte le autorità civili e religiose s’erano sparpagliate e disperse in diversi paesi della provincia: era rimasto solo un piccolo presidio, composto da pochi funzionari coraggiosi, ospite nella “villa Pernis” sul viale degli ospizi (ora via Don Bosco). Così era divenuta sede di quei “frammenti” d’autorità ancora presenti nella città abbandonata. - segue -
Ed è in quest’ambiente che venne ascoltato il breve comunicato che le stazioni ad onde medie dell’EIAR iniziarono a diffondere dalle 19.45 di quella domenica (- Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni del cavalier Benito Mussolini ed ha nominato Capo del Governo il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio -).
Un annuncio che avrebbe determinato sorpresa e stupore fra quella decina di persone che risiedevano nella villa, ma che non avrebbe determinato, come altrove, sconcerto o gioia, timori o speranze. Le otto o nove decine di cagliaritani coraggiosi, rimasti in città, non avrebbero avuto modo di manifestare in alcun modo i loro sentimenti, di stupore o di gioia. Tra l’altro lo stesso federale del PNF, Guido Otelli, nominato da poche settimane, non era in città, ed anche del regio prefetto s’erano perdute le tracce.
Era, come disse qualcuno, una città di ombre e di fantasmi, dove tutto, comprese quella notizia così clamorosa, appariva surreale, frutto più dell’irrealtà onirica che della realtà fattuale. Cosa fare e cosa decidere dopo quell’annuncio e quel proclama – la guerra continua – parevano frutto di fantasia od anche di disinformazione. Per tutti, pareva il segnale concreto che s’era perso la guerra.
Chi provò a chiamare al telefono Roma, gli uffici del Viminale, dovette desistere perché le linee erano mute, interrotte. Proprio in questo limbo istituzionale sarebbe iniziata, il lunedì successivo, quella che un bello spirito avrebbe chiamato “la commedia dei telegrammi”.
Secondo un testimone d’allora – che anni dopo sarebbe divenuto mio collaboratore e che mi trasmise i suoi ricordi di quei giorni – il clima che si viveva era un qualcosa di inconscio, di incomprensibile, tra voci che si accavallavano fra conferme e smentite, con espressioni di sgomento e di incredulità. Qualcuno avvertì che fosse in arrivo il Principe Umberto insieme a Dino Grandi e chi, ancora, che l’intera famiglia regale si sarebbe acquartierata in una località del centro Sardegna. Nessuno sapeva però niente di più certo ed ufficiale di quel comunicato letto da un annunciatore della radio di Stato.
Poi (questo è il ricordo del testimone) nella tarda mattinata del lunedì 26 sarebbe giunto all’ufficio postale di Cagliari (in un locale di fortuna, ubicato dalle parti di San Paolo) un telegramma “di Stato”, diretto riservatamente alla persona di “S.E. il Regio Prefetto di Cagliari”: sorse quindi il dilemma – come e a chi consegnarlo – dato che s’ignorava dove si fossero rifugiati gli uffici prefettizi. La soluzione la si sarebbe trovata grazie ad un questurino (tal Sanna Efisio) che s’offrì di portarlo a villa Pernis, dove – affermava – si trovavano alcuni funzionari di prefettura. Fu così che s’apprese, non senza meraviglia, che tutti i poteri civili della provincia erano stati affidati, dal nuovo governo, all’autorità militare dislocata però a Bortigali, a due ore d’auto dalla città.
Ad aprire quel telegramma, ed a leggere quel dispositivo, si racconta che fosse stato un tale Angioletto, amico del padrone di casa Cuccuccio Pernis, spacciatosi per vice prefetto, lui che altro non era che un piccolo commerciante di Villanova. Fu quindi lui a disporre l’invio d’una staffetta motociclista a rintracciare il prefetto Antonio Festa, perché fosse informato delle disposizioni impartite dal nuovo Capo del Governo, Pietro Badoglio.
Quella “commedia” dei telegrammi avrebbe avuto un seguito anche il successivo martedì, allorquando da Roma giunse a Cagliari, nella tarda serata e indirizzato sempre al prefetto, un altro messaggio urgente. Anche stavolta, attraverso un’ufficialità violata “per stato di necessità” (e per la buona volontà di quei volontari che continuavano a presidiare villa Pernis), s’apprese che il governo Badoglio aveva sciolto il partito fascista, la Camera dei fasci e la milizia delle camicie nere. E che il Federale del PNF, seconda autorità della provincia, non era ora più nessuno, e doveva tornarsene a casa.
Forse il mercoledì o il giovedì successivo, giungerà da Bortigali un capitano del Regio Esercito, inviato dal generale Basso che, da alto commissario civile dell’isola, impartiva le prime disposizioni, sollevando dall’incarico il prefetto Festa e sostituendolo con un alto ufficiale del suo Stato Maggiore e nominando commissario prefettizio a Cagliari l’avvocato Michele Sirchia, al tempo direttore dell’Unione degli industriali.
D’altra parte, sembrava ormai certo che gli eserciti alleati, comandatI dal generale Eisenhower, si stessero preparando per uno nuovo sbarco sulle coste di Teulada. La Sardegna sembrava essere ritenuta strategica per l’offensiva angloamericana contro gli eserciti dell’asse Roma-Berlino ormai in piena disfatta.
Peraltro, di quel che era successo veramente a Roma, ufficialmente se ne sarebbe saputo pochissimo, se non nulla. Da alcuni mesi non usciva più neppure L’Unione Sarda e le notizie erano solo quelle trasmesse dall’EIAR, peraltro assai scarse e molto disturbate.
Qualcuno avrebbe parlato d’un colpo di stato militare promosso dallo stesso Sovrano, qualche altro, ritenuto informatissimo, avrebbe parlato d’una decisione autonoma dello stesso duce, scoraggiato dopo un incontro avuto con Hitler a Feltre e da tempo in relazione con i servizi dell’intelligence inglese per trovare la via d’un onorevole armistizio; solo alcuni (ascoltatori abituali di Radio Londra) avevano appreso, dalla voce di Umberto Calosso, come la destituzione di Mussolini fosse stata presa personalmente dal Re Vittorio Emanuele III e favorita da un voto del Gran Consiglio del Fascismo, cioè dallo stesso gruppo dirigente di quel partito, su iniziativa dell’avvocato Dino Grandi, presidente della Camera.
Fu così che la città ferita a morte, ed abbandonata da quasi tutti i suoi abitanti, avrebbe vissuto in quel 25 luglio del 1943 la fine di vent’anni di fascismo: con un semplice telegramma, consegnato e letto indebitamente da chi non aveva voluto abbandonarla ma sostituitosi, con buona volontà, ad un prefetto che, a detta dei maligni, era stato fra i primi a darsela a gambe, impaurito, lasciando la città senza guida alcuna, abbandonata a se stessa.

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