IUS SOLI: paure rinvii ipocrisie

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di Fiorella Farinelli, su Rocca.
«La cittadinanza negata tra malafede e viltà». Parole dure ma appropriate nel commento (1) di Massimo Livi Bacci, uno dei nostri più importanti demografi, al rinvio a settembre della discussione parlamentare sulla cittadinanza dei ragazzi figli di immigrati. Un rinvio che equivale a un affossamento quasi certo, considerato che in autunno, tra legge di stabilità e incombere della scadenza delle elezioni siciliane e nazionali, il clima politico sarà più che mai esposto a tensioni e scorribande anche interne alla maggioranza. Improbabile, dunque, che il testo, pure approvato alla Camera quasi due anni fa e atteso da tempo, veda la luce nell’ultimo miglio di questa legislatura, mentre sul profilo politico della prossima è al momento impossibile persino formulare ipotesi dotate di una qualche ragionevole credibilità. Protagonisti dell’ignobile pasticcio, da un lato la scarsa tenuta della coalizione di governo (sono stati i parlamentari di Alfano, gli stessi che alla Camera avevano votato senza troppi problemi il provvedimento, a minacciare la crisi se si fosse chiesta la fiducia al Senato), dall’altro l’ipocrisia di quelli di Grillo che, astenutisi la prima volta, hanno dichiarato che lo avrebbero fatto anche la seconda (ma l’astensione, al Senato, equivale a un voto contro). Coerenza? Sì, ma solo alla paura di perdere consensi nell’elettorato di destra, un must per una forza politica pigliatutto.

falso collegamento
Ma la viltà vera, quella che ha contato e conterà di più, è fatta soprattutto di altro. Di una diffusa e colpevole subalternità, anche nei media, alla malafede di quanti hanno alimentato un falso collegamento tra un più facile accesso alla cittadinanza delle «seconde generazioni» (un milione e mezzo di ragazzi, più di 800mila nelle nostre scuole, quasi tutti figli di immigrati stabilizzati, il 55,3% nati in Italia) e l’emergenza sbarchi. Come se la modifica della legge sulla cittadinanza varata nel lontano 1991 (quando gli immigrati stranieri in Italia erano poco più di 400.000 e pochissimi i figli nati in Italia o arrivati da bambini) dovesse di per sé gonfiare ulteriormente, e disastrosamente, l’ondata dei disperati. Come se, con quella legge, bastasse partorire sul pontile di Lampedusa o all’aeroporto di Fiumicino per entrare in Italia dalla porta principale e automaticamente, madre, padre, fratelli, sorelle, e chissà quanti altri congiunti ed affini. Con tutto quel che ne segue, i fantasmi di un’identità nazionale inquinata e compromessa, la minaccia ai valori e alla cultura del paese, l’incubo di una coesione sociale in frantumi. L’armamentario, strumentale ma di successo, delle vecchie e delle nuove destre.

i contenuti della legge
Malafede, appunto, con in più gli equivoci suggeriti, e mai sufficientemente contrastati, da quella definizione di «ius soli» affibbiata impropriamente dall’esercito dei semplificatori – mondo politico, social, stampa – a una proposta di legge che dice invece tutt’altro. Nei giorni delle convulsioni politico-parlamentari, infatti, sono state poche e inascoltate le voci in difesa di un testo già attentamente smussato e affinato dai mille compromessi della Camera. E poche, e poco efficaci, le analisi di merito, travolte dal chiacchiericcio incompetente ed enfatico dei talk show. Non si è stati capaci – non si è voluto? – dimostrare puntigliosamente che la legge concede la cittadinanza solo ai figli degli immigrati nati in Italia con almeno un genitore in possesso di permesso di soggiorno a tempo indeterminato, con residenza legale da almeno 5 anni, abitazione appropriata, reddito sufficiente, test di lingua italiana superato, nessun problema con la giustizia. Ius soli, dunque, se proprio non si può rinunciare a una semplificazione improvvidamente introdotta dall’ex ministro Kyenge, ma indubbiamente assai selettivo o, come si dice in gergo parlamentare, «temperato». E poi, per chi sia arrivato in Italia prima dei 12 anni, il diritto alla cittadinanza (che dev’essere comunque richiesta dai genitori) a condizione di aver frequentato, e concluso positivamente se si tratta di scuola primaria, un ciclo scolastico di 5 anni.
Che c’entrano con tutto ciò gli sbarchi? Si tratta, con tutta evidenza, di bambini e ragazzi già «italianizzati» dalla scuola, dei compagni di classe e di vita dei nostri figli, di cui molti neanche conoscono il paese d’origine dei genitori, e con molti – purtroppo per loro e per le risorse culturali del nostro paese – che dimenticano la loro lingua materna o che non sanno leggerla e scriverla.
Un provvedimento molto cauto, dunque, che ha voluto escludere ogni automatismo, che guarda alla realtà dell’immigrazione stabilizzata (oltre 5 milioni di immigrati in regola, 160mila cittadinanze concesse, secondo la restrittiva legge del 1991, solo lo scorso anno) e di «seconde generazioni» destinate a essere parte crescente, e integrante, della nostra troppo scarsa popolazione giovanile. Che, soprattutto, è ispirato all’idea che eliminare le discriminazioni è un passo necessario per rinsaldare il legame della popolazione immigrata e dei suoi giovani con il nostro paese, per prevenire rancori e risentimenti pericolosi, per evitare che a meno diritti corrispondano anche meno doveri e responsabilità. Per evitare di costruire una società gerarchizzata, divisa tra quelli che hanno tutti i diritti – almeno sulla carta – e una sottoclasse di minus habentes. Si tratta di ragazzi che studiano da noi e che sono però esclusi dagli impieghi pubblici, che hanno bisogno di chiedere permessi speciali ogni volta che occorre avere il passaporto italiano, che lavorano o che tentano gli studi superiori. Non sarebbero maturi i tempi per muoversi in questa direzione, come sostengono gli alfaniani? È meglio pensarci su ancora un po’, come banalizzano i grillini? È più opportuno lasciar perdere per il momento, come pensano senza dirlo anche molti Dem? Quando può cominciare, secondo loro, il tempo delle politiche di integrazione a tutto tondo? E che cosa può provocare, nella testa e nel cuore di questi ragazzi, il tenerli ancora a lungo nel limbo della non cittadinanza?

dietro l’ennesimo rinvio
Dietro l’ennesimo rinvio, in verità, non ci sono solo i vincoli di circostanze politiche contingenti. C’è l’intollerabile ritardo, nel nostro paese, di idee e pratiche lungimiranti di integrazione. Le stesse – e qui il legame con gli sbarchi c’è, eccome – che impediscono che gli sbarcati vengano subito immessi in lavori socialmente utili, in percorsi di formazione linguistica e professionale efficaci, in una vita attiva e dialogante. Non basta tirarli fuori dall’acqua, e dai pericoli di morte, una volta salvati bisogna evitare la disperazione e il rancore, i sentimenti negativi che li espongono a tutti i rischi dell’emarginazione e della povertà. E noi, non bisognerebbe sottovalutarlo, con loro. Ma non ci siamo, non ci siamo ancora. L’immigrazione – non solo gli sbarchi – viene ancora vista da molti come un’emergenza da demonizzare, non come un dato di fatto – globale, storico – da fronteggiare con misure appropriate. O, ed è ancora peggio, come uno strumento di lotta politica, per conquistare consenso e potere. Non è una bella immagine della nostra classe politica, quella che viene fuori dalla vicenda del rinvio. La viltà sta anche nell’incapacità di trattare i problemi che ci sono con gli strumenti della democrazia, la cultura, la discussione aperta e franca, gli argomenti, il «corpo a corpo intellettuale», come si diceva una volta.

la sconfitta di «Italia sono anch’io»
Ci sono poi anche altri aspetti che bisognerebbe considerare. A uscire sconfitta da questa vicenda, oggi, non è solo la parte dei Dem che aveva più puntato su questa proposta di legge anche in termini identitari, quelli cioè di una forza politica consapevole dei problemi e capace di trovare soluzioni di compromesso in grado di far evolvere positivamente le politiche sociali e culturali sull’immigrazione. Ad essere sconfitta è stata anche quella vasta parte del mondo cattolico impegnata in prima fila nelle azioni di accoglienza e di integrazione dei migranti, la miriade di associazioni, organizzazioni, parrocchie che hanno sostenuto la campagna «Italia sono anch’io» delle seconde generazioni con cui quattro anni fa è stato dato impulso, anche con una raccolta imponente di firme, alla proposta di legge oggi rinviata. Una realtà diffusa che però non ha avuto ascolto presso le forze politiche, come se quelle voci fossero diventate, nell’Italia di oggi, voci insignificanti e irrilevanti. Come se quell’agire sociale, culturale, politico che tramite il volontariato contagia e forma parti significative della società civile venisse considerata una risorsa del paese solo per tappare i buchi delle politiche istituzionali, non per sedere ai tavoli delle decisioni istituzionali e della grande politica. Un tema che è stato toccato in qualche intervento sulla stampa di esponenti di prima fila del mondo cattolico, a partire da Andrea Riccardi, della Comunità di Sant’Egidio (2). Un tema vero, che dovrebbe finalmente interrogarci tutti.
Fiorella Farinelli

Note
(1) www.neodemos.info, 2 agosto 2017.
(2) Il rinvio dello ius soli è una sconfitta per i cattolici, Corriere della Sera 20 luglio 2017.

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