Dibattito. E’ il federalismo la carta vincente per la Sardegna. E non solo

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Separatismo: tra ragioni economiche e “invenzioni”
15 Novembre 2017

Gianfranco Sabattini*

In questo periodo l’indipendentismo ha ripreso vigore e slancio; ciò non deve meravigliare perché l’ultima “parola d’ordine” del neoliberismo e della globalizzazione, della quale esso è l’ispiratore, afferma che “il piccolo è bello”; questa volta, però, lo slogan, tanto in voga nei decenni passati, non è riferito alla dimensione d’impresa, ma alle dimensioni degli Stati. Al riguardo, di recente è giunto in libreria il libro del politologo indiano Parag Khanna, dal titolo che più eloquente non potrebbe essere: “La rinascita delle città-Stato. Come governare il mondo al tempo della devolution”.
Nel suo libro, Khanna non si limita ad auspicare una trasformazione “ab imis” della forma di governo democratico, ma estende l’auspicio anche alle dimensioni prevalenti degli Stati. Secondo lui, la ricerca della “forma ideale dello Stato più adatta ai tempi non è un astratto esercizio filosofico, ma una necessità ricorrente”, imposta dal fatto che le dimensioni degli Stati e i regimi democratici non sarebbero più strumenti idonei a consentire ai governi nazionali di risolvere i problemi del mondo attuale, essendo caratterizzati più dall’incapacità di governare l’emergenza che di reagire al manifestarsi degli effetti negativi del ciclo economico.
Considerando più attentamente il fenomeno dell’indipendentismo, inclusa la sua manifestazione più recente, culminata con la dichiarazione unilaterale d’indipendenza della Catalogna dello Stato nazionale spagnolo, si coglie come gli indipendentisti siano soliti giustificare le loro pretese sulla base di ragioni storiche, con cui vengono rese latenti quelle effettive, ovvero le ragioni economiche. Facendo appello alle ragioni storiche, gli indipendentisti di solito “coagulano” il consenso intorno al loro movimento avvalendosi di un decentramento istituzionale che, pur senza configurarsi come una effettiva realtà federale, non è molto distante da essa. Nell’esperienza di alcuni Paesi europei, dove il fenomeno dell’indipendentismo è presente, le comunità autonome dispongono, infatti, di ampie facoltà di autogoverno, a volte rinforzate da condizioni di “specialità”, delle quali si avvalgono dal punto di vista economico-finanziario, ma anche da quello culturale; in tal modo, l’autogoverno consente agli indipendentisti di sostenere di voler “fare i conti” distaccandosi dallo Stato per i torti subiti sul piano strettamente storico.
Cosicché, alcune regioni, come ora la Catalogna o, in prospettiva, la Sardegna, ricorrono alle facoltà autonomistiche, non già in favore del resto dei loro Paesi di appartenenza, o per migliorare il funzionamento del loro Stato nazionale, ma per staccarsi dall’unità nazionale.
Commentando la situazione catalana dopo la dichiarazione d’indipendenza, in “L’indipendentismo è un’invenzione” (Limes 10/2017), il noto filosofo democratico Fernando Savater, in un’intervista concessa a Fabrizio Maronta, afferma che la responsabilità del conservarsi delle propensioni separatiste ricade certamente sugli Stati nazionali, i quali hanno sempre trascurato ciò che sul piano politologico viene da tempo evidenziato, cioè che “l’indipendentismo è figlio del nazionalismo”. Di fronte a queste propensioni, però, anziché pensare di ricercare una più adeguata forma di organizzazione istituzionale su basi federali, secondo Savater, si è fatta dell’”ironia, parodiando l’indipendentismo trattandolo come mero folklore”, senza considerarlo come problema destinato a creare crisi istituzionali, se lasciato irrisolto, come è accaduto nel caso della Spagna o potrebbe accadere nel caso dell’Italia.
In mancanza di risposta istituzionale all’espandersi delle “pulsioni nazionalistiche”, il manifestarsi di situazioni di crisi come quella della Catalogna potrebbe configurare una responsabilità degli Stati nazionali, i quali, trascurando di soddisfare le istanze nazionalistiche per ragioni strettamente ideologiche, mancano di valutarne il tratto umano, che induce le singole comunità regionali di uno Stato a identificarsi, in modo convinto e irrinunciabile, in un determinato ed esclusivo “sistema valoriale.
Con ciò, i singoli Stati nazionali trascurano il fatto che – afferma Savater – si può essere “nazionalisti politicamente e culturalmente”, senza che si neghi necessariamente “un’unità superiore”, nel senso che i nazionalisti-indipendentisti potrebbero “vivere dialetticamente con essa, confrontandosi con lo Stato centrale” e con gli altri nazionalisti-indipendentisti, quando fossero messi nella condizione di potersi avvalere di una libertà appropriata conferitagli dall’esistenza di un ordinamento democratico.
Questo, a parere di Savater, è un punto dirimente, che fa cadere la responsabilità delle crisi istituzionali sugli indipendentisti, allorché essi, sulla base di decisioni unilaterali e nel mancato rispetto delle procedure democraticamente condivise e costituzionalmente sancite, causano un crisi che investe, non solo l’unità nazionale, ma anche quella del “contesto democratico e della pacifica convivenza su cui questa si fonda”.
Posto il diverso grado di responsabilità del “centro” e delle “periferie”, riguardo al manifestarsi delle crisi istituzionali che investono o possono investire l’unità degli Stati nazionali, e assodato che le ragioni storiche sono solo un pretesto, viene spontaneo chiedersi quali siano allora le ragioni economiche che stanno a monte delle “spinte indipendentiste”. In “Regionalismi e austerità: la posta tedesca nella crisi catalana” (Limes, 19/2017), Heribert Dieter, ricercatore presso il “German Institute for International Political and Security Affairs” di Berlino, sostiene che le ragioni economiche più immediate sono almeno due, strettamente legate tra loro.
La prima ragione consisterebbe nel fatto che la globalizzazione, riducendo i “costi di transazione ha aumentato la redditività delle piccole economie nazionali”; mentre nel XIX secolo, l’esistenza di molti Stati comportava normalmente un ostacolo alla crescita economica, nel XXI secolo questo vincolo, cessando di sussistere, consentirebbe a numerose piccole economie nazionali di affrancarsi dai costi burocratici dovuti all’esistenza delle numerose barriere doganali, potendo così raggiungere alti tassi di crescita economica e di benessere. Oggi, secondo Dieter, sarebbero le grandi economie nazionali a dover affrontare i “gravi problemi di sviluppo”, in quanto il loro mercato interno rappresenterebbe “più uno svantaggio che un vantaggio”, per via del fatto che molti loro settori tradizionali si trovano in gravi condizioni di stagnazione, il cui rilancio richiede costose politiche economiche per reinserirli positivamente nel mercato, allo scopo di contrastare principalmente il fenomeno della disoccupazione persistente.
La seconda ragione che giustificherebbe il fenomeno dell’indipendentismo, strettamente connessa almeno in parte alla prima, sarebbe riconducibile al fatto che le grandi economie nazionali richiedono il finanziamento di politiche sociali, con una distribuzione del carico fiscale che le regioni più ricche rispetto alla media nazionale non sarebbero più propense a tollerare, in quanto non più disponibili a sopportare gli esiti di “trasferimenti fiscali dettati da principi di perequazione e solidarietà nei confronti delle regioni più deboli”.
Se così stanno le cose, la propensione all’indipendentismo appare come un riflesso dell’incerto e spesso differenziato rapporto esistente tra le regioni e lo Stato centrale, come nel caso della Spagna e dell’Italia. L’incertezza del rapporto potrebbe essere superata attraverso una organizzazione istituzionale in senso federato degli Stati che maggiormente risentono del fenomeno indipendentista; solo su queste basi possono essere stabilite “norme estremamente dettagliate e valide per tutti”, per definire con precisione gli ambiti di competenza delle singoli comunità regionali federate.
Dal punto di vista di alcuni Stati unitari europei, tra i quali l’Italia, la eventuale separazione della Catalogna dalla Spagna rappresenterebbe un rischio, in quanto altre regioni potrebbero seguirne l’esempio e mettere così in crisi non solo i singoli Paesi che “soffrono” del fenomeno dell’indipendentismo, ma anche la prospettiva di una prossima ripresa del processo d’integrazione politica dell’Europa. A livello europeo, però, questo pericolo sembra preoccupare, più per la possibile perdita della stabilità economica, che non per i processi democratici necessari per migliorare l’organizzazione istituzionale dei singoli Stati membri dell’Unione Europea.
Se la Catalogna riuscisse a staccarsi dalla Spagna – afferma Dieter – “anche in altri Paesi europei si farebbe più concreto il rischio di una disgregazione nazionale”. Lo Stato francese sarebbe quello meno esposto a questo pericolo (fatta eccezione per il problema corso); i più a rischio di possibili scissioni sarebbero sicuramente la Germania e l’Italia. Anche in Germania sono le regioni economicamente più ricche ad avere interesse a separarsi dallo Stato nazionale; a differenza della Catalogna, nel caso della Germania, se l’indipendentismo dovesse diffondersi e approfondirsi, si assisterebbe alla creazione di una nuova unità statuale, che segnerebbe un ritorno – sottolinea Dieter – alla condizione di indipendenza di regioni ora federate, come la Baviera prima del 1871.
A differenza di quanto può accadere in Germania, in Italia, stranamente, quasi a smentire che siano le condizioni economiche a causare la separazione delle comunità regionali dallo Stato nazionale, l’obiettivo dell’indipendenza trova numerosi sostenitori in Sardegna, una delle regioni meno dotate economicamente rispetto alla media nazionale; a parere di Franciscu Sedda, segretario nazionale del Partito dei Sardi, in “La Sardegna può diventare indipendente anche grazie alla Catalogna” (intervista concessa ad Alessandro Aresu, in Limes 10/2017) mostra di non avere dubbi e incertezze sul perché il suo partito persegue l’indipendenza dell’Isola dal resto dell’Italia.
Le sue argomentazioni, però, non hanno fondamento credibile, in quanto prive del supporto di un progetto politico, economico e sociale che possa plausibilmente giustificare le aspirazioni del suo partito; Sedda considera solo importante il fatto che il Partito dei Sardi, il governo e il parlamento della Regione Sardegna abbiano dato, sin da subito, ”una solidarietà praticamente unanime alle istituzioni catalane”; a sua parere, si è trattato di una “caso unico in Europa”, che, però, non vale a giustificare l’azione del suo movimento.
L’unica argomentazione avanzata da Sedda, a supporto dell’indipendenza della Sardegna, è che il pensarsi “attraverso gli altri è sempre fruttuoso”, in considerazione del fatto che l’indipendentismo catalano esercita sicuramente un grande fascino su quello sardo, “per la dimensione popolare e nonviolenta, per il modello di società al tempo stesso accogliente della diversità e capace di dare dignità alla propria storia, cultura lingua; per il progressismo diffuso e la capacità di generare prosperità attraverso la piccola e media impresa”. Sedda dimentica che la prosperità della Catalogna è garantita, non solo dalla presenza operosa ed efficiente di un sistema di piccole e medie imprese, ma anche da attività produttive di ben altra dimensione e capacità di creare nuove ricchezza; piccole, medie e grandi imprese, che in Sardegna non abbondano, per cui le condizioni di vita della comunità regionale sarda dipendono ancora in modo consistente dalla solidarietà nazionale.
Di tutto questo Sedda sembra non preoccuparsi, avvalendosi solo della certezza che “grazie agli stimoli che arrivano dalla Catalogna si può aprire una breccia che condurrà un giorno al nostro referendum” e consolandosi del fatto che il Partito dei Sardi, pur essendo nato nel 2013, aggregando esperienze personali e politiche diverse, ha eletto cinque rappresentanti in seno al Consiglio regionale, diventando la terza forza dietro il Partito Democratico e Forza Italia. Peccato che Sedda dimentichi le condizioni rese favorevoli al suo partito dalla particolare legge elettorale in base alla quale si sono svolte le ultime consultazioni politiche regionali; condizioni, che molto probabilmente sono destinate presto a cambiare.
Ad ogni buon conto, per Sedda, il Partito dei Sardi, in considerazione della sua “forza” attuale, “vuole costruire uno Stato sardo indipendente in Europa. Una Repubblica di Sardegna politicamente libera, economicamente prospera, socialmente giusta”. Dunque, una Sardegna indipendente senza se e senza ma; tuttavia, a differenza di altri partiti regionali, quello dei sardi, “non esclude la gradualità e la possibilità di allearsi anche con chi non è (ancora) indipendentista”.
Se così, c’è solo da augurare a Sedda di riuscire ad intessere rapporti con chi è ancora portatore dello spirito del tradizionale azionismo sardo di origine risorgimentale, per accedere all’idea di contribuire, con il suo partito, a dare forza politica a quanti in Sardegna e nell’intero Paese auspicano, per prevenire crisi istituzionali e “fughe in avanti”, per ragioni egoistiche, delle regioni economicamente più dotate, una riorganizzazione istituzionale dell’Italia su basi federaliste. In questo caso, l’indipendentismo sardo non avrebbe motivo di trarre ispirazione da quello catalano, ma di porsi semmai come esempio nei confronti della Catalogna del come, all’interno degli Stati nazionali, possono essere democraticamente corretti i rapporti insoddisfacenti esistenti tra lo Stato centrale e le comunità regionali periferiche.
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*Anche su Democraziaoggi
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Principi guida per una nuova legge elettorale regionale
Il Comitato di Iniziativa Costituzionale e Statutaria di Cagliari ritiene indispensabile che, in vista della prossime elezioni del 2019, il Consiglio regionale voti una nuova legge elettorale di tipo proporzionale che modifichi sostanzialmente l’impianto della legge elettorale regionale oggi vigente.
Ogni piccola modifica quale la possibilità della doppia preferenza di genere di cui si parla insistentemente in questo ultimo periodo, senza una modifica sostanziale del suo impianto, non cambia la natura truffaldina della legge attuale, pensata ai danni di qualche partito e non a vantaggio di tutto il corpo elettorale.
Chiediamo una legge elettorale che riparta dalla Costituzione, nel pieno rispetto dell’articolo 1 che assegna al popolo la sovranità e dell’articolo 48 che considera elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età e allo stesso tempo precisa che il voto è personale ed eguale, libero e segreto.
In questi semplici riferimenti si possono trovare tutti gli elementi necessari per scrivere una buona legge elettorale, una legge che sia in grado di garantire la “sovranità del popolo”, che è tanto più reale quanto più si ha una larga partecipazione popolare al voto.
Questi sono i capisaldi che consentono agli elettori di fare le loro scelte e, a nostro avviso, permetteranno anche un riavvicinamento alle urne di gran parte di quella metà dell’elettorato sardo che nella precedente consultazione del 2014 non ha votato.
Vogliamo una legge che garantisca “uguaglianza” nel voto, sia che si voti per la maggioranza che per un partito o movimento di opposizione, senza gli stravolgimenti generati dal sistema maggioritario nel corso del tempo perché qualunque premio di maggioranza, che di fatto attribuisce una maggior peso relativo ad un voto dato a chi governa piuttosto che a chi sta all’opposizione, è sempre elemento di “distorsione” del principio di uguaglianza del voto sancita dalla Costituzione.
Una legge che garantisca la “rappresentanza” perché ad una supposta governabilità che non può mai essere garantita da una legge elettorale, si preferisce la rappresentanza, questa sì possibile attraverso una buona legge, anche di partiti e movimenti minori perché la democrazia è fatta di pluralità di opinioni che devono trovare sintesi nel parlamento come nei consigli regionali, ovvero negli organi elettivi di governo.
Su questo specifico punto, pur essendo convinti dell’esigenza di una proporzionalità senza soglie di ingresso, si potrebbe comunque considerare una soglia molto bassa in modo da consentire anche a quelle forze e movimenti politici che non intendono far parte di coalizioni di avere una propria rappresentanza proporzionale ai voti conseguiti, per evitare definitivamente il grave vulnus di democrazia presente nella vigente legge elettorale che ha negato la rappresentanza a ben 130.000 elettori sardi.
Una legge che garantisca la parità di rappresentanza di uomini e donne, perché la società è composta di uomini e donne, e non vi può essere discriminazione di genere nell’accesso agli organi elettivi, sarà l’elettorato a scegliere chi eleggere senza discriminazioni in partenza.
A questo riguardo giova ricordare che anche nell’ambito delle materie concorrenti disciplinate dalla modifica dell’art 117 della Costituzione viene riportato che “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”.
A noi pare che sul punto non siano gli ancoraggi costituzionali e normativi a non essere presenti o non sufficientemente chiari, quanto una proterva, acclarata e reiterata mancanza di volontà politica da parte delle consorterie dei partiti.
Per la nostra isola è particolarmente significativa anche la rappresentanza territoriale che va garantita, ma non sacrificata a piccole e spesso meschine oligarchie o capi bastone locali.
Al riguardo si ritiene che debbano essere individuati dei collegi elettorali che siano sufficientemente grandi da rappresentare ampie zone del territorio regionale e allo stesso tempo simili quanto a numero di elettori, superando i limiti territoriali imposti dai confini amministrativi delle vecchie provincie.
La scelta di collegi uniformi o almeno tendenti all’uniformità dal punto di vista del numero degli elettori potrà evitare la formazione di un Consiglio regionale totalmente egemonizzato dai due poli demografici di Cagliari e Sassari. Allo stesso tempo, una scelta oculata dei collegi e un corretto meccanismo di attribuzione proporzionale dei seggi che, per esempio, comprenda la possibilità di ripartizione dei resti, potrà evitare la distorsione verificata anche nelle recenti elezioni in Sicilia, dove un movimento politico che ha avuto centomila voti ha avuto il riconoscimento di un solo seggio in Consiglio, a fronte di 11 seggi attribuiti ad un partito che ha avuto appena 250.000 voti.
Anche questo è un caso di grave violazione della democrazia e del principio di uguaglianza del voto, infatti non vi è alcuna proporzionalità tra numero di seggi attribuiti e voti conseguiti.
Questi principi sono validi per ogni espressione del voto sia di tipo nazionale che regionale e locale.
Un altro riferimento per noi imprescindibile è il nostro Statuto che con la legge costituzionale n. 2 del 31/01/2001, all’art. 15 riporta “ …In armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e con l’osservanza di quanto disposto dal presente Titolo, la legge regionale, approvata dal Consiglio regionale con la maggioranza assoluta dei suoi componenti, determina la forma di governo della Regione e, specificatamente, le modalità di elezione, sulla base dei principi di rappresentatività e di stabilità, del Consiglio regionale, del Presidente della Regione e dei componenti della Giunta regionale, i rapporti tra gli organi della Regione, la presentazione e l’approvazione della mozione motivata di sfiducia nei confronti del Presidente della Regione, …, nonché l’esercizio del diritto di iniziativa legislativa del popolo sardo e la disciplina del referendum regionale abrogativo, propositivo e consultivo. Al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi, la medesima legge promuove condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali”.
Ancora una volta se ci riferiamo alla costituzione del popolo sardo troviamo i principi ispiratori di una buona legge: rappresentatività e stabilità, esercizio del diritto di iniziativa legislativa del popolo sardo e referendum propositivo, abrogativo e consultivo, condizioni di parità di accesso per uomini e donne.
Per quanto attiene alla rappresentatività è evidente che il sistema proporzionale è l’unico che la può garantire anche per i partiti e movimenti minori, mentre per la stabilità, se è vero che non può essere garantita da nessuna legge, è altrettanto evidente che l’ipotesi di una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente eletto può positivamente concorrervi quale elemento di equilibrio sistemico.
La possibilità del referendum propositivo è un altro grande diritto da far valere, specialmente in un periodo caratterizzato da partiti impegnati esclusivamente nella gestione del potere mirata alla propria sopravvivenza e conservazione di privilegi personali.
E’ ispirandosi a questi principi che può essere scritta una Legge elettorale statutaria per la Regione Sardegna che potrà permettere al popolo sardo di tornare massicciamente alle urne e scegliere consapevolmente i propri rappresentanti.

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One Response to Dibattito. E’ il federalismo la carta vincente per la Sardegna. E non solo

  1. admin scrive:

    LA CREDIBILITA’ DEI PARTITI POLITICI SARDI PASSA PER L’IMPEGNO A CAMBIARE IN SENSO DEMOCRATICO LA LEGGE ELETTORALE. In un passaggio del suo intervento Sabattini fa notare come “…Sedda dimentichi le condizioni rese favorevoli al suo partito dalla particolare legge elettorale in base alla quale si sono svolte le ultime consultazioni politiche regionali; condizioni, che molto probabilmente sono destinate presto a cambiare”. Mentre auspichiamo che tale cambiamento si avveri in corrispondenza delle battaglie di tutti i sinceri democratici, dei quali il CoStat vuole essere concreto strumento di pensiero e di azione, non possiamo non denunciare la mancanza di credibilità dei partiti che non si battono per il radicale cambiamento in senso democratico della vigente legge elettorale sarda, la quale ha impedito che il Consiglio regionale sia effettiva espressione del popolo sardo in tutte le sue componenti; una vigente pessima legge elettorale che scoraggia la partecipazione al voto dei cittadini e, in generale, all’impegno politico. Con una classe politica espressione di minoranze, volutamente selezionata verso la mediocrità con meccanismi autoreferenziali non si va da nessuna parte e neppure il vessillo dell’indipendenza può coprire politiche e comportamenti di cui ci si dovrebbe solo vergognare.

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