Chiara Saraceno: “Senza incorrere nel mito che i cittadini sono migliori dei politici, che non è vero, io credo che ci sia ancora in questo Paese una ricchezza di persone che hanno voglia di fare, di mettersi in gioco: non solo rancorosi, ma costruttivi. È che anche loro sono sfiduciati perché non trovano interlocutori. La politica dovrebbe cominciare a interloquire un po’ di più, ad ascoltare. Invece non lo sta facendo per rincorrere i diversi rancori. È una competizione al ribasso. Ci si schiaffeggia in pubblico, basta avere qualche follower su Instagram per diventare padri della Patria o persone che possono parlare di tutto. Il sistema è autoreferenziale in modo disperante: una ripetizione continua senza dialogo con quel che avviene fuori. Allora altro che sfiducia”

chiara-saraceno«Che ci siano cinismo e rabbia è evidente: lo vediamo dal successo dei movimenti populisti, non c’era bisogno che ce lo dicesse il Censis. C’è una disaffezione diffusa, un atteggiamento di vendetta e di acrimonia più che di proposizione». La sociologa Chiara Saraceno, tra le voci più illustri e autorevoli della sociologia italiana ed europea, commenta con amarezza i dati del Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. E non ha esitazioni nell’indicare il colpevole: la politica. Quella che cavalca il rancore senza avere un orizzonte e quella che ha tradito l’ascolto e le aspettative della parte sana e propositiva della comunità.

Un’Italia bloccata e rancorosa. Da dove è nata?
Non è che negli ultimi anni i baricentri decisionali e di potere abbiano dato grandi iniezioni di fiducia.

È per questo che l’84% degli italiani non si fida dei partiti e il 78% del governo? Sono percentuali clamorose…
È una crisi della politica che si rovescia nel voto ai populisti, che è più “contro” che “pro”. Il permanente successo dei Cinque Stelle, nonostante per ora non abbiano dato una grandissima prova di sé, è più la manifestazione di un “contro”: «Tutto purché non questi che ci hanno traditi».
(segue)
In che cosa è consistito il tradimento?
Anche le cose buone che sono state fatte sono state fatte senza cura per l’aumento delle disuguaglianze. Il divario tra chi guadagna tanto e chi guadagna poco o niente si è ampliato con scarsissima attenzione: la risposta è stata distribuire qualche bonus qua e là. Adesso c’è il Rei, il reddito di inclusione, ma non c’è confronto tra l’aver tolto l’Imu e i 480 euro per una famiglia di cinque persone. E poi riconosciuti tardivamente, con fatica. Si pensi alla velocità con cui sono stati approvati gli 80 euro e a quanto ci è voluto per il Rei. C’è una mescolanza di rancori anche di gruppo, che si sommano e possono entrare in conflitto gli uni con gli altri.

Giovani contro anziani e viceversa?
Io non condivido la tesi che ci sia un conflitto generazionale. Magari ci fosse, mi verrebbe da dire, perché si comincerebbe a discutere in modo sensato di interessi contrastanti. Il problema è che molti giovani riescono ad andare avanti perché hanno i genitori o i nonni che li aiutano. Il conflitto è composto nella famiglia. Mi sono sempre stupita, dai tempi della riforma Dini, della difficoltà con cui le giovani generazioni accettavano il discorso che fosse a loro favore. Perché in realtà pensano alla pensione del loro papà e della loro mamma, che è quella che gli serve. I conflitti generazionali che pure esistono oggettivamente, perché la mia generazione assorbe moltissime risorse e perché c’è un grosso problema giovanile, sono largamente compensati dentro le famiglie. Un fenomeno che favorisce la riproduzione generazionale delle disuguaglianze.

Più paralizzati, più egoisti?
Non è del tutto vero che si bada soltanto al proprio benessere individuale e che viene meno la solidarietà. Non mi sembra. È una solidarietà che oggi si gioca tanto al di fuori della sfera pubblica formale: il volontariato, le iniziative civiche. Sono molto colpita da quante persone si danno da fare per organizzare dibattiti, formazione, iniziative di integrazione dei migranti. È che tutto questo fatica a diventare un’azione, a essere riconosciuto o a essere interpellato da chi poi deve prendere delle decisioni. In realtà è come se tutto venisse affidato alla solidarietà privata, non solo familiare. Si torna sempre là: alla mancanza della politica.

C’è anche un rancore delle donne?
Le donne sono strette tra la rassegnazione per cose che non cambiano mai e l’insofferenza. Che potrebbe persino essere costruttiva, potrebbe portare a cambiare le regole. Ma anche le disuguaglianze tra donne stanno aumentando: tra quelle che riescono a entrare nel mercato del lavoro e quelle che non ci riescono, tra le più istruite e le meno istruite, addirittura tra quelle senza figli e quelle con figli. La competizione è tale che rende difficile individuare obiettivi comuni. Non a caso, lo dico con una certa cautela, l’unico tema che unifica e che fa scendere in piazza non è l’assenza di servizi ma la lotta alla violenza, e neanche quello fino in fondo. Non è bello.

Il Censis rileva che a più della metà degli utenti Internet è capitato di dare credito a notizie false circolate in rete. Quest’Italia rancorosa è anche credulona?
In parte sì, perché qualsiasi notizia che conferma la mia rabbia diventa automaticamente credibile. Se io continuo ad agire soltanto sul rancore, è difficile che abbia la testa lucida per prendere le distanze, per valutare di volta in volta, per giudicare l’operato di un politico senza preconcetti. Invece no: se le mie reazioni sono mosse dal fatto che ho un nemico, è difficile che poi sia in grado di prendere le distanze dalle informazioni che ricevo e di valutarle criticamente. Poi Internet è anche autoconfermativa, proponendo le notizie “su misura” per ciascuno di noi. Se non si cercano attivamente informazioni che non corrispondono al proprio profilo non si troverà mai disconferma delle proprie credenze.

Come se ne esce?
Senza incorrere nel mito che i cittadini sono migliori dei politici, che non è vero, io credo che ci sia ancora in questo Paese una ricchezza di persone che hanno voglia di fare, di mettersi in gioco: non solo rancorosi, ma costruttivi. È che anche loro sono sfiduciati perché non trovano interlocutori. La politica dovrebbe cominciare a interloquire un po’ di più, ad ascoltare. Invece non lo sta facendo per rincorrere i diversi rancori. È una competizione al ribasso. Ci si schiaffeggia in pubblico, basta avere qualche follower su Instagram per diventare padri della Patria o persone che possono parlare di tutto. Il sistema è autoreferenziale in modo disperante: una ripetizione continua senza dialogo con quel che avviene fuori. Allora altro che sfiducia.

1 DICEMBRE 2017
Fonte Il Sole 24 ore.
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1 DICEMBRE 2017
Censis: economia in ripresa, trainano industria ed export ma cresce l’Italia del rancore
di Andrea Carli su Il Sole 24ore
La ripresa c’è, come confermano tutti gli indicatori economici. Fanno eccezione gli investimenti pubblici: -32,5% in termini reali nel 2016 rispetto all’ultimo anno prima della crisi. Il quadro emerge dal 51esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, presentato questa mattina a Roma nella sede del Cnel. È l’industria uno dei motori propulsivi: l’aumento del 2,3% della produzione industriale italiana nel primo semestre del 2017 è il migliore tra i principali Paesi europei (Germania e Spagna +2,1%, Regno Unito +1,9%, Francia +1,3%). E cresce al +4,1% nel terzo trimestre dell’anno.

La crescita dei fattori trainanti
Il valore aggiunto per addetto nel manifatturiero è aumentato del 22,1% in sette anni, superando la produttività dei servizi. Traina anche la capacità di esportare delle aziende del made in Italy: il saldo commerciale nel 2016 è pari a 99,6 miliardi di euro, quasi il doppio del saldo complessivo dell’export di beni (51,5 miliardi). La quota dell’Italia sull’export manifatturiero del mondo è oggi del 3,4%, con assoluti primati in alcuni comparti: 23,5% nei materiali da costruzione in terracotta, 13,2% nel cuoio lavorato, 12,2% nei prodotti da forno, 8,1% nelle calzature, 6,8% nei mobili, 6,4% nei macchinari. Risale anche la spesa degli italiani. Infine, la Penisola si conferma la meta privilegiata dei turisti: nel primo semestre del 2017 gli arrivi sono cresciuti del 4,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e le presenze del 5,3%: in soli sei mesi l’Italia ha avuto 2,7 milioni di visitatori in più, con oltre 10 milioni di pernottamenti aggiuntivi.

Cresce l’Italia del rancore
Fin qui gli elementi positivi. Ma tra le righe del capitolo “La società italiana al 2017” del 51esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, presentato questa mattina a Roma nella sede del Cnel, ci si imbatte anche in scenari non positivi: il rimpicciolimento demografico del Paese, la povertà del capitale umano, e la polarizzazione dell’occupazione che penalizza operai, artigiani e impiegati – una parte di quello che una volta era il ceto medio – hanno fatto crescere quella che il Censis non esita a battezzare: “L’Italia del rancore”. Sì. Proprio così: “del rancore”.

Il blocco della mobilità sociale
Partiamo proprio da qui. Dal disagio all’interno della società italiana. Nella ripresa, sottolinea il report, persistono «trascinamenti inerziali da maneggiare con cura. Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore». L’87,3% degli italiani appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, come l’83,5% del ceto medio e anche il 71,4% del ceto benestante. Pensano che al contrario sia facile scivolare in basso nella scala sociale il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, il 62,1% dei più abbienti. Insomma, il timore del declassamento è il nuovo fantasma sociale. Ed è una componente costitutiva della psicologia dei millennials: l’87,3% di loro pensa che sia molto difficile l’ascesa sociale e il 69,3% che al contrario sia molto facile il capitombolo in basso.

L’immigrazione malvista da 6 italiani su dieci
L’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, con valori più alti quando si scende nella scala sociale: il 72% tra le casalinghe, il 71% tra i disoccupati, il 63% tra gli operai.

Sul lavoro penalizzati operai, artigiani e impiegati
È un malessere che nasce anche dalla mancanza di un impiego. Nel periodo 2011-2016, rileva il Censis, operai e artigiani diminuiscono dell’11%, gli impiegati del 3,9%. Le professioni intellettuali invece crescono dell’11,4% e, all’opposto, aumentano gli addetti alle vendite e ai servizi personali (+10,2%) e il personale non qualificato (+11,9%). Nell’ultimo anno l’incremento di occupazione più rilevante riguarda gli addetti allo spostamento e alla consegna delle merci (+11,4%) nella delivery economy.

Scende la quota di giovani professionisti sul totale
Nella ricomposizione della piramide professionale aumentano dunque le distanze tra l’area non qualificata e il vertice. E se tra il 2006 e il 2016 il numero complessivo dei liberi professionisti è aumentato del 26,2%, quelli con meno di 40 anni sono diminuiti del 4,4% (circa 20.000 in meno). La quota di giovani professionisti sul totale è scesa al 31,3%: 10 punti in meno in dieci anni.

Scarsa attrattività dell’istruzione terziaria
Alla base dei problemi del mondo del lavoro c’è (anche) un nodo competenze. Solo il 26,2% della popolazione italiana di 30-34 anni è in possesso di un titolo di studio di livello terziario: l’Italia è penultima in Europa, prima solo della Romania (25,6%) e a distanza da Regno Unito (48,2%), Francia (43,6%), Spagna (40,1%) e Germania (33,2%).

In Italia età pensionabile piu’ alta d’Europa (dopo la Grecia)
Secondo il Rapporto Censis l’Italia è anche il Paese con l’età di accesso alla pensione piu’ alta d’Europa, preceduto solo dalla Grecia: per gli uomini 66 anni e 7 mesi nel settore pubblico, nel privato e per il lavoro autonomo; per le donne 66 anni e 7 mesi nel settore pubblico, 65 anni e 7 mesi nel privato e 66 anni e 1 mese per le lavoratrici autonome. In media negli altri Paesi europei si va in pensione a 64 anni e 4 mesi per gli uomini e a 63 anni e 4 mesi per le donne. E il gap è destinato ad aumentare nel prossimo futuro. In media, l’età alla quale gli italiani pensano che andranno in pensione è 69 anni, ma l’età alla quale vorrebbero andarci è 62 anni. Nel periodo 2007-2017 diminuisce dal 47,8% al 40,8% la quota di cittadini convinti che il loro reddito in vecchiaia sarà adeguato, passa dal 23,4% al 31,2% la percentuale di chi è convinto che percepirà un reddito appena sufficiente a sopravvivere, sale dal 18% al 21,7% la quota che ritiene che avrà un reddito insufficiente.

Troppo pochi i laureati (e il mercato non li assorbe)
La scarsa attrattività dell’istruzione terziaria in Italia, osserva il Censis, scaturisce dal mismatch tra domanda e offerta di lavoro per le qualifiche più elevate e da un’offerta basata in Italia quasi esclusivamente sui percorsi accademici e poco professionalizzanti. Da un lato la quota di laureati è troppo bassa: appena il 14,7% della popolazione di 15-74 anni è in possesso della laurea. Dall’altro il mercato del lavoro non riesce ad assorbirne a sufficienza. Nel 2016 solo il 12,5% delle assunzioni previste dalle imprese riguardava laureati. Nell’ultimo anno il tasso di disoccupazione dei laureati 25-34enni è stato pari al 15,3%, non distante da quello relativo all’intera coorte d’età (17,7%). Stipendi bassi (in media la retribuzione mensile netta dei laureati magistrali biennali a cinque anni dalla laurea è di 1.344 euro in Italia, all’estero di 2.202 euro), ampia quota di occupati sovraistruiti rispetto al lavoro che svolgono (il 37,6%), esiguo differenziale retributivo rispetto a chi si ferma al diploma (+14%).

Il Paese attrae giovani migranti poco scolarizzati
L’Italia attrae soprattutto giovani migranti scarsamente scolarizzati. Il 90% degli stranieri non comunitari che nel nostro paese lavorano alle dipendenze fa l’operaio (il 41% tra gli italiani), l’8,9% l’impiegato (il 48% tra gli italiani).

Otto su dieci non hanno fiducia nei partiti
Il malessere si manifesta anche nella politica. L’onda di sfiducia che ha investito la politica e le istituzioni non perdona nessuno: l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia in Italia, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici. Non sorprende che i gruppi sociali più destrutturati dalla crisi, dalla rivoluzione tecnologica e dai processi della globalizzazione siano anche i più sensibili alle sirene del populismo e del sovranismo. L’astioso impoverimento del linguaggio rivela non solo il rigetto del ceto dirigente, ma anche la richiesta di attenzione da parte di soggetti che si sentono esclusi dalla dialettica socio-politica.
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