LavoroCheFare? Dibattito: “lavoro di cittadinanza” o “reddito di cittadinanza”? Come uscire dall’attuale situazione e costruire un diverso modello di sviluppo?

img_4422
———————
lampadadialadmicromicro133Il dibattito sul Lavoro si estende e si approfondisce, non disgiunto da una significativa operosità, che sul piano delle soluzioni appare tuttora fortemente inadeguata. Occorrono politiche più decise che in tutta evidenza si porrebbero in contraddizione con il modello neo liberista attualmente egemone in tutto il pianeta. Anche se al riguardo nuovi modelli si affacciano e per fortuna si praticano: ci riferiamo alla nuova economia, in diverse e differenziate manifestazioni del suo proporsi, nelle prassi e nelle teorie. Una delle questioni che emergono prepotentemente nel dibattito è la contrapposizione tra il Lavoro e il Reddito. Crediamo (o ci illudiamo) che tale contrapposizione si sani nelle scelte politiche, nella misura in cui queste sappiano affrontare effettivamente il problema della disoccupazione, a partire da quella giovanile, ma non solo. L’articolo di Gianfranco Sabattini riprende e approfondisce tale tematica. Come è noto Gianfranco prende posizione con chiarezza e determinazione per il Reddito di Cittadinanza, che è cosa molto diversa da Reddito di Inclusione e misure simili. Noi come Aladinews in questo dibattito non ci schieriamo con una precisa posizione, preferendo fornire un terreno di confronto e anche di scontro quando utile. Ci auguriamo che tutto si discuta apertamente e con il necessario impegno e soprattutto che tutto si faccia con un approccio di misurabile efficacia delle misure che i Governi e, in generale, le Istituzioni assumono o devono o dovrebbero auspicabilmente assumere. Di tali questioni discuteremo anche oggi nell’incontro che si terrà a Cagliari presso la Comunità di San Rocco.
———————————–
unique-forms-of-continuity-in-space-umberto-boccioni
Come fronteggiare la crisi del “Modello Sociale Europeo”?

di Gianfranco Sabattini*

Per rendersi conto delle ragioni della crisi del modello di sicurezza sociale adottato in Europa (MSE), è sufficiente ripercorrere le pagine del volume LVI del 2012 (edito a cura di Paola Borgna) dei Quaderni di Sociologia, che raccoglie gli atti del convegno tenutosi a Torino nel 2012, per celebrare il sessantennio di attività dei “Quaderni” (1951-2011);.
Il volume si apre con la relazione introduttiva dello scomparso Luciano Gallino (“Il modello sociale europeo e l’unità della UE”), in cui l’autore colloca l’analisi delle crisi del MSE nell’ambito più vasto del progetto europeo, del quale la realizzazione del sistema di sicurezza sociale era stato uno degli obiettivi principali; non casualmente, Gallino introduce il suo intervento al convegno affermando che l’Unione potrà affrontare con successo le sfide che la Grande Recessione pone sul suo cammino, solo se tutti i cittadini dell’Europa riconosceranno che “l’Unione Europea è un progetto politico, economico, sociale, culturale che presenta elementi unici al mondo”. Uno di questi elementi, forse quello che – secondo Gallino – potrebbe avere la maggior forza unificante per i cittadini UE, è il MSE; grazie all’Unione è stato possibile realizzare il “Modello” in tutti i Paesi membri e, in tutto il mondo, solamente in essi. Malgrado tutto ciò, e nonostante che il MSE realizzato costituisca di per sé una buona ragione per riconoscerne l’unicità e “un elemento fondativo dell’unità europea”, da tempo notevoli forze politiche e sociali si oppongono alla sua conservazione.
Queste forze hanno presumibilmente smarrito le implicazioni politiche e sociali del “Modello”; l’acronimo MSE designa infatti un’”invenzione politica senza precedenti, forse la più importante del XX secolo. Essa significa che la società intera si assume la responsabilità di produrre sicurezza economica e sociale per ciascun singolo individuo, quale che sia la sua posizione sociale e i mezzi che possiede”. Il MSE, così inteso, ha migliorato la qualità della vita della maggioranza dei cittadini europei, come non è avvenuto in nessun altro Paese al mondo. Secondo Gallino, le forze politiche e culturali che hanno supportato la costruzione del MSE sono state i partiti socialdemocratici, le formazioni cristiano-sociali e, almeno in alcuni Paesi dell’Europa occidentali (fra i quali l’Italia), i partiti che si rifacevano alla cultura comunista.
Ovviamente, è poco corretto pensare che il MSE sia una costruzione unitaria; tutti i Paesi membri dell’Unione Europea lo hanno realizzato adattandolo alle condizioni politiche e culturali in essi prevalenti, per cui si è consolidata l’idea che in Europa si siano affermati modelli di sicurezza sociale diversi (quello socialdemocratico nordico-scandinavo; modello liberale anglosassone; quello socialconservatore continentale; quello mediterraneo). Resta tuttavia il fatto – afferma Gallino – che, al di là delle differenze, “nel loro insieme i Paesi europei, in specie i Paesi dell’Europa occidentale, hanno condiviso per decenni varie forme di stato sociale”, per cui, pur avendo il sistema si sicurezza sociale assunto “notevoli differenze tra i Paesi membri”, “la struttura ideale” che ne è stata alla base è risultata sostanzialmente unitaria.
Nonostante la comune esperienza vissuta nel dopoguerra, accade ora che, a partire dalla fine degli anni Settanta, e soprattutto successivamente al 2007/2008, dopo aver realizzato il “grande edificio civile del MSE, quasi tutti i governi dei Paesi membri dell’Unione Europea “abbiano iniziato un attacco che, se non è ancora di vera e propria demolizione del modello sociale europeo, comincia pericolosamente ad assomigliargli”. Se ci si chiede quali siano i motivi dell’attacco, in alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, essi sono di solito indicati, soprattutto dagli establishment, nell’elevato debito pubblico, originato da decenni di deficit del bilancio dello Stato, a causa dell’eccessivo ammontare della spesa sociale, cresciuta per finanziare il continuo allargamento del sistema di sicurezza sociale.
In realtà, l’incremento della spesa pubblica, soprattutto dopo lo scoppio della crisi iniziata nel 2007/2008, è stata causata dal “salvataggio”, ad opera dello Stato, degli istituti finanziari dell’Unione Europea; per cui restano del tutto ingiustificate, sia l’imputazione dei deficit pubblici all’eccessiva generosità dello stato sociale, sia la pretesa di ridurre le prestazioni sociali, in seguito al presunto peso insostenibile che esse farebbero “gravare sui bilanci pubblici”. Una interpretazione realistica del peggioramento dei deficit pubblici, perciò, deve necessariamente rinvenire la loro origine, non nell’eccessiva espansione, oltre ogni limite giustificabile, della spesa sociale, ma nel sostegno dello Stato al salvataggio del sistema finanziario, sebbene responsabile dell’origine della crisi che lo ha coinvolto.
Se però, come sostiene Gallino, ci si pone in “una prospettiva temporalmente e fattualmente più ampia”, il fenomeno dell’attacco al MSE “non si configura come una improvvisa decisione dei governi sollecitata dalla crisi”, ma “come il compimento di un progetto politico ed economico” che, maturato nel corso degli anni successivi ai Settanta, all’insegna dell’ideologia neoliberista, ha avuto per obiettivo la riconduzione nello spazio del mercato di “tutto quanto era stato sottratto ad esso dallo sviluppo dello stato sociale”, In questa prospettiva, perciò, la riduzione della spesa sociale non è evocata per il contenimento dei deficit dei bilanci pubblici, ma per legittimare il ritorno alla “mercificazione” di tutto quanto, con il MSE, era stato sottratto al mercato.
Nonostante le critiche neoliberiste al MSE siano iniziate già nell’ultima parte del secolo scorso, solo alla fine del primo decennio di quello in corso, con l’inizio della Grande Recessione, il progetto di attacco alla protezione sociale realizzata col MSE è stato posto in atto, con l’avvio delle politiche di austerità, o di contenimento della spesa pubblica, finalizzati alla protezione sociale. In tal modo, minando la basi del MSE, i governi dell’Unione Europea hanno mostrato – afferma Gallino – non solo di “aver abbracciato politiche economiche e sociali regressive”, che avranno cospicue ricadute negative sulle condizioni di vita delle popolazioni nel medio-lungo periodo, ma anche di aver acquisito una “seria miopia politica” nella soluzione dei problemi sociali di breve periodo. Ciò che deve sorprendere, a parere di Gallino, è il fatto che l’attuazione delle politiche socialmente regressive attuate dai governi europei non abbia trovato una motivata e responsabile opposizione.
Sinora, in concomitanza dell’attacco contro il MSE, non sono mancati studi su una sua possibile riforma, sia da parte dei neoliberisti, che da parte di coloro che si oppongono alle loro tesi; i rimedi che tali studi propongono riguardano, di solito, una “modifica dei rapporti di occupazione e di lavoro”, una “ricostruzione del settore pubblico” e una “democratizzazione delle società europee”. Al riguardo, sia le proposte del fronte neoliberista che quelle del fronte opposto appaiono, però, secondo Gallino, “del tutto fuori orbita”.
Ciò perché, se i fautori dell’ordine neoliberista perseguono il risanamento dello stato sociale al prezzo di sacrificare le conquiste democratiche, i loro oppositori non si accorgono di concorrere anch’essi a sopprimere le conquiste democratiche, quando pensano di poter adeguare al mondo che cambia, per motivi economici, demografici e tecnologici, “strutture e prestazioni del modello sociale europeo, separandolo dal contesto politico, ideologico, economico, finanziario che ha costituito lo schema interpretativo dell’intera questione. Mostrando, con ciò, di conformarsi in realtà al medesimo schema neoliberale”.
Di fronte di questa constatazione, a parere di Gallino, a coloro che pensano sia necessario difendere le conquiste espresse dal MSE, non resterebbe altro da fare che ripetere in ogni circostanza come la protezione sociale sia per lo Stato uno degli scopi più alti della politica; ciò, a sostegno e difesa di un sistema politico in cui tutti suoi componenti possano intervenire in modo partecipato per decidere su ciò “da cui dipende non soltanto la materialità della loro esistenza, bensì lo stesso significato ultimo di essa”.
Non basta, però, limitarsi a sostenere – come suggeriva Gallino – che al momento si debba solo contare su un intervento dello Stato a difesa del sistema di sicurezza sociale; a tal fine, occorre anche fare affidamento sull’accettazione dell’idea che sia possibile contrastare l’attacco al modello sociale realizzato, attraverso una sostanziale riforma del sistema welfaristico esistente, sia a livello europeo, se possibile, o in alternativa, a livello nazionale. Occorrerebbe che, soprattutto da sinistra, si cessasse l’opposizione, come sinora è accaduto, alla riforma del welfare fondata sull’introduzione del reddito di cittadinanza, valutando questa forma di reddito, non tanto o non solo come misura contro la povertà e l’indigenza, ma come strumento idoneo a creare nuove opportunità lavorative, che grazie ad esso, i percettori possono intraprendere autonomamente.
In Italia, strano a dirsi, la possibile riforma fondata sull’introduzione del reddito di cittadinanza è contrastata, oltre che sulla base di interpretazioni totalmente estranee al concetto, anche attraverso l’appello all’“ipse dixit” che alcune Autorità morali, senza disporre di argomentazioni appropriate, formulano con giudizi di opportunità spesso infondati sul piano della razionalità mondana.
luciano_gallino

In Italia, ne sono esempio le proposte contenute in un articolo di Laura Pennacchi, economista ed esponente del Partito Democratico (PD); in “Lavoro e nuovo modello di sviluppo”, apparso su un numero di Rocca, la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi [ripreso da Aladinews]. L’autrice, pur riconoscendo i cambiamenti causati, sul piano produttivo e su quello dell’organizzazione sociale, dalle intense trasformazione tecnologiche del capitalismo moderno, è del parere che non sia ancora chiara la differenza esistente tra le implicazioni negative, “sul piano del lavoro”, dovute alle trasformazioni tecnologiche del capitalismo moderno e quelle positive dovute alla possibilità, attraverso innovazioni del sistema di sicurezza sociale, di generare sinificativi effetti compensativi della “distruzione” di posti di lavoro..
Per l’economista del PD sarebbe invece fondamentale porsi domande sul ruolo del lavoro e sui fini di un nuovo modello si sviluppo. Al riguardo, la Pennacchi afferma che sarebbe necessaria una nuova riflessione sulla stessa concezione del lavoro, che ricuperi l’idea che esso è fattore vitale dell’identità del soggetto e di attribuzione di significato all’esperienza esistenziale. Ciò varrebbe a giustificare le ragioni per cui sia da preferire la proposta di creare, ad esempio, “lavoro di cittadinanza”, anziché quella relativa all’introduzione di un reddito di cittadinanza; questo, a parere della Pennacchi, si configurerebbe “come compensazione e risarcimento di un lavoro che non c’è, per costruire un ‘welfare per la non piena occupazione’, accettando e sanzionando le tendenze spontanee del capitalismo che naturalmente va verso l’opposto della piena occupazione”, cioè verso la disoccupazione di massa.
I rischi del reddito di cittadinanza sarebbero seri, perché, secondo la Pennacchi, con la sua istituzione, i veri problemi odierni, come quello della creazione di un sistema economico per la generazione di una “piena e buona occupazione”, rimarrebbero oscurati e, “in ogni caso, rispetto ad essi, si sarebbe spinti ad assumere un atteggiamento rinunciatario”; nel senso che, attraverso forme possibili di compensazione, lo status quo risulterebbe confermato e sanzionato, in quanto la politica sarebbe indotta a deresponsabilizzare la propria azione, trovando più facile concedere un trasferimento monetario, piuttosto che impegnarsi per la ricostruzione di un tessuto sociale vasto, articolato, strutturato. Se ciò accadesse, la deresponsabilizzazione della politica, secondo la Pennacchi, equivarrebbe ad una sua sostanziale eutanasia.
Se il capitalismo conduce inesorabilmente verso la disoccupazione di massa, come può la Pennacchi, arzigogolando su speciose distinzioni tra “lavoro di cittadinanza” e “reddito di cittadinanza”, illudersi di trovare la via per contrastare gli esiti negativi che il capitalismo moderno sta causando sul piano del lavoro? Non sarebbe meglio, allorché si discute dei rimedi al fenomeno della distruzione continua di posti di lavoro, ricordarsi del monito del filosofo Occam, secondo il quale gli “enti non si devono moltiplicare oltre ogni limite necessario”?
Se, a fronte del venir meno delle opportunità occupazionali, il problema è quello di erogare un reddito ai disoccupati, perché preoccuparsi di creare forme di lavoro che sappiano garantire “significato all’esperienza esistenziale”, anziché garantire la materialità della vita dei disoccupati? La politica dovrebbe rivolgere la propria attenzione su questo problema centrale, la cui soluzione “passa” necessariamente attraverso l’individuazione delle modalità con cui assicurare un reddito a tutti e la determinazione delle forme organizzative del vivere insieme, perché ognuno possa fruire nel migliore dei modi possibili e secondo le proprie scelte di vita il reddito del quale dispone.
—————————————————-
* anche su Democraziaoggi.