PROMESSE ELETTORALI: più soldi ai poveri ma chi paga?

vauro
Roberta Carlini su Rocca

Prima prometteva meno tasse per tutti. Poi ha annunciato un milione di posti di lavoro. Insieme ad altre promesse indirizzate a un elettorato anziano, moderato, preoccupato, come il miraggio delle dentiere gratis. Stavolta, il redivivo Berlusconi non ha ancora tirato fuori l’asso dalla manica per le elezioni politiche del 2018. Ma un indizio lo abbiamo, ed è interessante. A un certo punto nel finale convulso della legislatura, al termine della lunghissima fase preparatoria della campagna elettorale e prima che iniziasse la vera, brevissima, campagna per il 4 marzo, il leader ottantunenne del centrodestra ha accennato al «reddito di dignità» per coloro che sono sotto la soglia di povertà. È partita immediatamente la polemica, dal Movimento Cinque Stelle che lo accusa di plagio – i grillini da tempo hanno nel loro programma quello che chiamano il «reddito di cittadinanza» – al Pd che rivendica di aver già introdotto, con il governo Gentiloni, il Rei, reddito di inclusione sociale. Avremo una campagna elettorale tutta giocata su chi promette più soldi ai poveri?

toppe al malessere
Per cominciare, è opportuno segnalare uno spostamento semantico e di sostanza portato dal nuovo piano del discorso della politica economica. Prima si parlava di benessere – meno tasse, più lavoro – adesso di mettere toppe al malessere. A dieci anni dalla crisi – nel 2018 c’è un compleanno tondo, rispetto a quel 2008 nel quale gli effetti dello scoppio della bolla dei subprime si manifestarono drammaticamente anche da noi – non abbiamo ancora recuperato tutte le perdite, anzi il Pil resta sotto di sei punti. È vero che il livello di occupati è finalmente risalito, e in numeri assoluti siamo vicini alla soglia di dieci anni fa, ma è anche vero che questo recupero è fatto in gran parte di lavori brevi, a termine, intermittenti. Tant’è che le persone in qualche modo al lavoro sono di più, ma le ore di lavoro complessivamente effettuate nel Paese sono ancora molte di meno: per fare un confronto preciso, siamo «sotto» di 1,3 punti percentuali per numero di occupati ma di ben 5,8 punti se si guarda alle ore (i dati sono dell’Istat, e riferiti al primo semestre del 2008 e del 2017).
L’esplosione del part time, il più delle volte non scelto dai lavoratori ma subìto come unica possibilità per poter lavorare, e la diffusione di lavoretti che non coprono tutto l’anno ma solo alcune sue parti, spiegano perché le ore di lavoro non hanno seguito lo stesso andamento del numero degli occupati. A questo fenomeno va aggiunto il fatto che più persone cercano lavoro, dunque il tasso di disoccupazione è adesso quasi il doppio di quello di dieci anni fa. Infine, una elaborazione degli stessi dati Istat (fatta da chi scrive per Internazionale) mostra che le retribuzioni reali annue pro capite per occupato dipendente hanno subìto una perdita sensibile rispetto al 2007: nel 2016, eravamo sotto di 600 euro; in recupero, rispetto al livello minimo che fu raggiunto nel 2013, ma pur sempre sensibilmente sotto i livelli precedenti la crisi. Non solo la lunga crisi ha aumentato il numero dei poveri, in Italia ben più che in altri Paesi europei; ma – quel che è peggio – ha reso evidente che il lavoro non basta a contrastare la povertà. Non basta, perché è poco, non sufficiente per tutti coloro che lo cercano, e perché anche quando c’è può dare redditi insufficienti per una vita dignitosa.

la virata berlusconiana
I dati appena illustrati possono spiegare il perché di una svolta che, per l’uomo politico Berlusconi, è clamorosa. Ma come? Il miliardario del sorriso, delle squadre vincenti, della tv per tutti, dei lustrini e delle gag; il tycoon dell’ottimismo e della vita patinata; il cavaliere del nuovo miracolo economico, il dispensatore di illusioni che si mette a contatto con la vita dei poveri? I sondaggi, e il fiuto del comunicatore che non manca a quello che è ormai l’unico leader europeo e italiano sopravvissuto della foto di gruppo del ’94, devono aver suggerito la virata.
In cima alle preoccupazioni delle famiglie c’è la continuità del reddito, per se stessi o per i propri figli e nipoti. Intuito questo dato, il grande comunicatore è andato a pescare nella cassetta degli strumenti della destra e ha tirato fuori Milton Friedman, l’economista padre del monetarismo e grande oppositore dello stato sociale e della spesa pubblica, autore della proposta della «imposta negativa sul reddito». Secondo questa proposta, le tasse vanno ridotte per tutti ma, per coloro che sono così poveri da non dover neanche pagare le tasse, questo sgravio deve trasformarsi in un sussidio, un trasferimento monetario. Senza entrare nel merito dei costi e delle tecniche, dai microfoni di Radio 101 Berlusconi ha letto i termini fondamentali della sua proposta, ribattezzata «reddito di dignità»: dovrebbe portare le famiglie almeno alla soglia dei 1000 euro al mese, essere proporzionato al numero di figli e variare a seconda della zona del Paese in cui si vive.

il Rei governativo
Nello stesso momento nel quale uno degli uomini più ricchi d’Italia annunciava alla radio questi propositi, migliaia di persone si mettevano in fila ai patronati e ai Caf per chiedere l’accesso al Rei, il nuovo reddito di inclusione sociale. Nel primo mese l’Inps ha già ricevuto oltre 75.000 domande, per un assegno mensile che non supererà i 485 euro (per famiglie con più di cinque componenti) e al quale potrà accedere solo una minoranza delle famiglie povere, visto che, tra i requisiti, è richiesta la presenza di un minore, o un disoccupato con più di 55 anni, o un disabile o una donna in gravidanza, e un Isee inferiore ai 6.000 euro l’anno. Si calcola che ne beneficeranno 400.000 famiglie, mentre quelle sotto la soglia della povertà assoluta sono 1 milione e 619mila. Una limitazione spiegata dal governo sulla base dell’esiguità delle risorse disponibili. Infatti, secondo le stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio per raggiungere tutti coloro che sono al di sotto della soglia di povertà servirebbero dai 5 ai 7 miliardi l’anno.

ma chi pagherà?
Dunque, la misura ribattezzata da Berlusconi come «reddito di dignità» sarebbe, di fatto, un potenziamento del nuovo assegno introdotto dal governo uscente; e sarebbe doveroso, per chi la propone, indicare anche agli elettori come la finanzierà, visto che a quanto pare non c’è una differenza in linea di principio, sull’opportunità della misura, tra centrodestra e centrosinistra. Come si pagherà il reddito di dignità per i poveri? Aumentando le tasse ai ricchi? Oppure con nuovo debito pubblico? O ancora, con nuove tasse sugli stessi poveri? Oppure, come proponeva Milton Friedman e come è vero obiettivo di quella corrente di pensiero economico, abbattendo tutte le altre spese sociali, dalla salute alla casa alla previdenza, e dunque lasciando il reddito minimo come unico strumento di sicurezza sociale?

una questione politica
Non è questione contabile, ma politica. Dopo anni di promesse mancate e miracoli rinviati, gli elettori italiani dovrebbero ormai essere maturi e porre sempre la domanda: chi paga? Lo stesso vale se la stessa proposta viene dal partito dell’opposizione intransigente e extra-sistema, i Cinque Stelle. Il loro «reddito di cittadinanza» non è molto diverso, nella configurazione, dal Rei e neanche da quello accennato da Berlusconi. Anche se nella titolazione si rifà a tutt’altra scuola di pensiero, ossia alle proposte che dagli utopisti dell’800 hanno attraversato i secoli per giungere a noi e trovare nuova linfa negli ambienti avanzatissimi della rivoluzione tecnologica: dare un reddito basico e incondizionato a tutti, per il semplice fatto di esistere e far parte della nostra comunità di cittadini. Ne abbiamo parlato in un precedente numero di Rocca (n. 12/2017), si tratta di un’idea nobile che adesso torna in forme nuove e viene sperimentata in diverse parti del mondo. Ma non la nostra: la proposta dei Cinque Stelle limita comunque il reddito ai più bisognosi e lo condiziona alla volontà e disponibilità a lavorare. Dunque, è molto simile a un Rei riveduto e allargato. Anche in questo caso, la domanda principale da porsi, per capire la portata redistributiva della politica e la sua efficacia, è: chi paga?
La buona notizia è che, in tutti e tre i casi, c’è una misura specifica e la politica che si interroga su di essa. Le cattive notizie stanno nei dettagli essenziali: il finanziamento, che resterà vago, c’è da scommetterci, per tutta la campagna elettorale. Ma resta un’occasione mancata, in tutto il gran parlare che si fa oggi della questione del reddito: invece di viverla e discuterla come un aggiornamento del welfare state, alla luce delle nuove povertà ma anche delle nuove ricchezze che l’economia attuale genera, delle nuove forme di disoccupazione tecnologica e del dividendo sociale che la stessa tecnologia può generare, la stiamo affrontando in termini residuali e marginali, come un assegno per i poveri. Senza andare alla radice dei meccanismi che generano sempre maggiori povertà ed esclusioni.

Roberta Carlini
————————–
rocca-02-2018

One Response to PROMESSE ELETTORALI: più soldi ai poveri ma chi paga?

  1. […] Roberta Carlini su Rocca Gli editoriali di Aladinews. […]

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>