Periferie. Pro memoria per i neo-parlamentari della Repubblica Italiana

lampada aladin micromicroCOMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SULLE CONDIZIONI DI SICUREZZA E SULLO STATO DI DEGRADO DELLE CITTA’ E DELLE LORO PERIFERIE
LE LINEE EVOLUTIVE: INDIRIZZI E PROPOSTE
Estratto dalla Relazione conclusiva approvata in Commissione nella seduta del 14 dicembre 2017
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Un grande progetto per il Paese
La Commissione, dopo aver svolto, seppure in tempi contenuti, numerose visite e audizioni, e acquisito una consistente documentazione, è pervenuta a una prima fase conclusiva che consente di raccogliere alcune importanti indicazioni da offrire all’attenzione del Parlamento, del Governo e dell’opinione pubblica.
Trattandosi di un lavoro d’inchiesta, svolto nell’ultimo anno della XVII Legislatura, la presente relazione costituisce anche un “passaggio di testimone” alle prossime Assemblee parlamentari, nell’auspicio di una continuazione e intensificazione dell’impegno fin qui profuso per le periferie. La Commissione ritiene altresì utile che gli elementi contenuti nella presente relazione possano costituire una base affinché il tema delle condizioni di vita nelle periferie delle grandi città italiane costituisca elemento di confronto nella vicina campagna elettorale e possa, seppure nelle forme e nelle sensibilità che differenziano le forze politiche, trovare adeguato spazio nei programmi di governo del Paese, che verranno presentati agli elettori.
La Commissione ha potuto constatare direttamente le condizioni di degrado territoriale e sociale in aree periferiche di molte città italiane e i disagi che subiscono i suoi abitanti, le situazioni di illegalità e abusivismo presenti, la pericolosità che si manifesta in taluni casi rispetto alla salubrità, la sicurezza dei cittadini e gli impatti di tali fenomeni sull’ambiente. Ha inoltre misurato la profondità dei processi di impoverimento, di aumento delle diseguaglianze sociali, di abbassamento delle condizioni di vita di larghi settori di ceto medio e popolare urbano, fenomeno che incide vistosamente sull’equilibrio generale delle periferie urbane e delle aree metropolitane nel loro complesso. Si è preso atto di come l’abbandono e il degrado di aree, spazi e immobili sia pubblici sia privati, costituisca un fenomeno crescente della condizione stessa delle città contemporanee, caratterizzate da interruzioni, lacerazioni e strappi della continuità insediativa e dalla rapida mutazione dell’allocazione di funzioni e attività. Questa nuova dimensione, che sgretola la struttura tradizionale delle città organizzate per separazioni nette di funzioni e residenza, determina una condizione di insicurezza reale e percepita che altera le relazioni sociali, accresce il senso di emergenza e conflittualità.
Non si può trascurare il fatto che molti dei problemi di decadenza dello spazio pubblico e di abbandono anche del patrimonio privato derivano dalla riduzione, negli ultimi anni, della capacità e possibilità di investimenti finanziari e di azioni di manutenzione a causa della recessione economica e della diminuita capacità di intervento delle amministrazioni. A queste criticità si aggiungono, in modo diffuso, anche se differenziato nelle specifiche declinazioni città per città, la mancanza di controllo sociale informale, lo scadimento del senso di identità e di appartenenza alla realtà territoriale, i conflitti culturali tra gruppi di popolazione di diversa nazionalità o etnia e la criminalità.
Il tessuto urbano periferico, risulta, in generale, caratterizzato da una condizione di disomogeneità, frutto di un’edificazione non pianificata a livello di area vasta e non di rado, tuttavia, da una non corretta attuazione degli indirizzi originari di pianificazione urbanistica, il che impone una severa riflessione sull’efficacia delle norme fondamentali che regolano a livello nazionale il governo del territorio e la non più rinviabile necessità di una loro organica riforma e modernizzazione. Bisogna inoltre considerare che nelle aree periferiche sono anche localizzate importanti strutture produttive, terziarie e logistiche, pur se restano prevalenti le sole funzioni residenziali, spesso di qualità medio-basse.
Nel dibattito svolto all’interno della Commissione ci si è interrogati, per tutti questi motivi, sulla valenza attuale del termine stesso di “periferia”. Se, in sostanza, appaia ancora efficace una
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lettura che concentra quasi esclusivamente nelle aree esterne o addirittura di bordo i fenomeni di marginalità, i fattori di degrado urbano, di arretratezza funzionale, di problematicità sociale, sembra oggi più rispondente alla realtà dei fatti prendere in considerazione l’emergere di una più vasta e più complessa “questione urbana” che supera e per certi versi complica la sola “questione delle periferie” e che fa comprendere come le periferie non siano solo ambiti lontani dal nucleo storico o addirittura opposti alle aree centrali, ma una condizione trasversale riscontrabile anche e diffusamente in aree urbane centrali e semi centrali, anche se non bisogna dimenticare che una parte significativa dei residenti del nostro Paese vive con disagio la realtà periferica in senso classico, come zona di residenza o di lavoro. Nelle sole 14 Città metropolitane, circa 15 milioni di cittadini (fra periferie dei capoluoghi metropolitani e degli hinterland) abita in aree periferiche tradizionalmente intese, ma se a queste si aggiungono i residenti in zone urbane a vario titolo in difficoltà, la popolazione interessata a interventi significativi in questo campo costituisce la maggior parte degli italiani.
Per tale ragione, e considerando il carattere evolutivo dei fenomeni in atto, appare necessario elaborare una visione più complessa, non univoca, del rapporto tra la dimensione della “periferia” e quella complessiva delle città o delle metropoli e assumere nuovi “indicatori di vulnerabilità” (anche attraverso gli strumenti di indagine delle istituzioni e degli istituti di ricerca), più adeguati a interpretare le situazioni reali, le specificità urbane e a identificare migliori risposte da parte delle istituzioni. L’attività svolta dalla Commissione rappresenta, in questo senso, un primo passo in termini di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni, di studio e di analisi del cambiamento dei sistemi urbani.
Per intervenire efficacemente sulle periferie e sulle città non ci si può limitare ad azioni frammentarie o episodiche, ma è necessario mettere in cantiere un grande progetto nazionale i cui risvolti non si limitano al miglioramento delle condizioni sociali e ambientali, ma possono costituire, come avviene negli altri Paesi europei, anche un meccanismo di sviluppo economico e occupazionale sostenibile. Il contesto generale di riferimento, sia per l’interpretazione dei fenomeni di trasformazione delle città e delle periferie, sia per l’individuazione delle migliori condotte per gli interventi, non può che ispirarsi ai principi dell’Agenda urbana europea sottoscritti anche dal nostro Paese con il patto di Amsterdam del 30 maggio 2016. In particolare, sono obiettivi generali per l’intervento nelle periferie: la tutela della qualità della vita, della salute e della sicurezza dei cittadini; l’inclusione sociale, il lavoro e la valorizzazione delle competenze; la promozione dell’economia circolare e il supporto alla transizione digitale; l’attenzione alle problematiche legate ai cambiamenti climatici, alle energie rinnovabili e alla qualità dell’aria; l’uso sostenibile del territorio e il mantenimento delle aree naturali; il sostegno all’accesso alla casa e all’abitare dignitoso e sicuro; lo sviluppo di reti per la mobilità sostenibile; l’innovazione della pubblica amministrazione per promuoverne l’efficienza al servizio dei cittadini.
Di seguito, in forma sintetica, si riportano alcune delle principali linee di intervento individuate dalla Commissione, rinviando al testo della relazione, che contiene ulteriori numerose e interessanti proposte operative.
1. Un riferimento centrale univoco
La Commissione ha rilevato come sia indispensabile rafforzare gli strumenti parlamentari e governativi per promuovere e gestire le politiche urbane. Pertanto auspica che nella XVIII legislatura il Parlamento possa rendere permanente l’esperienza utilmente sperimentata nell’ultimo anno, istituendo una Commissione bicamerale per le città e le periferie. Al tempo stesso, si è rilevata la necessità di individuare una responsabilità univoca a livello governativo, rispetto ai
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diversi compiti e ruoli istituzionali che, pur avendo come unico campo di applicazione la città, sono oggi frammentati in molteplici competenze. Questo anche in coerenza con la più ampia esigenza di coordinamento interistituzionale e di integrazione intersettoriale richiamato nell’Agenda urbana europea, attraverso la definizione di partnership interistituzionali che coinvolgano le città, gli Stati membri, le Istituzioni dell’Unione europea e ulteriori soggetti interessati (Ong, partner commerciali) al fine di promuovere e attuare politiche comuni di rigenerazione delle città e dei territori degli Stati membri, che supportino, tecnicamente ed economicamente, una convergenza verso le 12 “priorità tematiche” individuate. L’attuale ed eccessiva dispersione delle competenze operative e legislative nazionali sulla specifica materia del governo e delle trasformazioni territoriali costituisce, infatti, uno dei principali punti di criticità sotto il profilo dei necessari requisiti di funzionalità e di efficacia e quindi dei possibili benefici per le città e per il territorio.
Per questo risulta indispensabile un punto di riferimento dell’amministrazione centrale cui imputare la guida del processo di intervento e che, nel pieno rispetto dell’attuale quadro di riferimento costituzionale, abbia il compito di coordinare la politica per le città e di definire l’Agenda urbana nazionale. Lo specifico organismo da utilizzare fra i tanti possibili potrà individuarsi in un Dipartimento della Presidenza del Consiglio con ministro o sottosegretario delegato o in una Cabina di regia o in una Agenzia pubblica, ma è convinzione della Commissione che solo un punto centrale di coordinamento delle politiche, dotato di poteri, struttura amministrativa e risorse, possa efficacemente affrontare il tema delle periferie, della sicurezza urbana e della rigenerazione urbana.
La sussistenza di più competenze ministeriali di livello centrale, di competenze regionali e degli enti locali, suggerisce l’importanza di riattivare il Comitato interministeriale per le politiche urbane (Cipu) così come indicato nel Rapporto per la Conferenza Habitat III dell’Onu dell’ottobre 2016 la cui redazione è stata coordinata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in cui si indicava l’urgenza di “attuare la norma legislativa che ha istituito il Coordinamento interministeriale per le politiche urbane, rivedendone le modalità di funzionamento per renderlo una sede decisionale efficace e idonea all’elaborazione dell’Agenda urbana nazionale”.
2. Un programma pluriennale per l’intervento urbano
La Commissione ha rilevato la necessità di realizzare un programma di interventi molto consistente, di durata pluriennale (da sei a dieci anni), in grado di definire settori specifici e aree urbane prioritarie dove realizzare organici progetti di rigenerazione urbana. Si propone quindi di lavorare per un “Piano strategico per le città italiane” (anche sulla base di specifiche linee guida) rilevante non solo come impegno finanziario, ma soprattutto come significativa espressione di un impegno politico di Stato, regioni e autonomie locali per l’adeguamento delle nostre città a standard di vivibilità e sicurezza comparabili con quelli europei. Del resto, come dimostrano le statistiche più recenti, il livello di investimento strategico sulle maggiori città europee per la digitalizzazione, le infrastrutture, il sistema ambientale, la mobilità sostenibile, la cultura e la formazione, la rigenerazione urbana senza consumo di suolo, le politiche attive per il sociale e per l’abitare, sono enormemente cresciute, mentre in Italia è accaduto il contrario, essendo verticalmente diminuito in tutte le maggiori città il volume degli investimenti su opere e servizi a vantaggio della spesa corrente.
La definizione di un “Piano strategico per le città” rappresenterebbe un’evoluzione della logica fin qui attuata dei bandi per le periferie di cui si è potuto apprezzare la validità, ma anche i limiti tipici di ogni iniziativa che raccoglie una progettualità diffusa non sempre capace di realizzare la massa critica indispensabile a invertire tendenze regressive. Attraverso una programmazione
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pluriennale si renderebbe possibile l’integrazione fra interventi di natura infrastrutturale e servizi di tipo abitativo e sociale in una logica di sistema.
Sarebbe possibile individuare, attraverso parametri il più possibile oggettivi, le aree prioritarie dove si manifestano i maggiori disagi. Parlamento, Governo, regioni ed enti locali, avrebbero la possibilità di indicare questioni rilevanti nel definire le politiche d’intervento, combinando l’approccio ”people oriented” a quello “place based” secondo quanto stabilito dall’Agenda urbana europea. Infine, per un’efficace programmazione del rilancio delle periferie urbane sarà necessario attivare anche un ordinato processo di valutazione dei risultati al fine di poter orientare e migliorare la capacità operative delle amministrazioni pubbliche.
Una tale impostazione postula necessariamente un meccanismo di finanziamento continuativo che anche in passato ha costituito il volano di importanti programmi nazionali (basti pensare ai fondi Gescal per la casa). Un ruolo fondamentale possono giocare le risorse comunitarie nelle varie forme esistenti delle politiche regionali e di coesione e dei fondi riconducibili alla finanza europea strutturata (integrated territorial investments, social investment bonds).
Vista la portata dell’intervento necessario alla riqualificazione delle periferie che, a parere della Commissione, dovrà essere continuativo, organizzato e a elevato impatto sul territorio, è opportuno individuare tutte le necessarie normative in grado di attrarre nei programmi di rigenerazione urbana l’interesse degli investitori privati in un contesto di partnership guidato dagli enti locali e secondo i principi previsti dall’Agenda urbana europea.
Si propongono quindi per i futuri bandi di rilievo nazionale caratteri e contenuti indirizzati a:
- integrare opere pubbliche e servizi;
- prevedere una percentuale di risorse per piani, programmi e progetti elaborati dalle amministrazioni locali;
- promuovere azioni per la sostenibilità ambientale e l’innovazione sociale;
- rafforzare gli strumenti di monitoraggio sull’attuazione e sui tempi dei progetti;
- investire su nuove competenze all’interno della pubblica amministrazione per le politiche urbane; – valorizzare e sostenere la partecipazione delle comunità locali e dei cittadini alle trasformazioni urbane;
- garantire la dignità della persona, la sicurezza dei cittadini e delle loro famiglie, la qualità della vita e della salute.
3. Le politiche per la rigenerazione urbana
Le più recenti ricerche sull’evoluzione delle città europee dimostrano che è in atto una nuova stagione di espansione demografica. L’Onu calcola che in un orizzonte molto ravvicinato (2025) la popolazione mondiale residente nelle città aumenterà di 65 milioni di abitanti e che, entro il 2030, il 96% della popolazione delle città europee con oltre 300 mila abitanti crescerà demograficamente. Questo dato rafforza la convinzione che il tema delle “periferie” tenda a coincidere sempre più con una “questione urbana” complessiva e accresce la necessità di adottare azioni e strategie a medio e lungo termine, oltre a misure immediate, per pianificare strategicamente lo sviluppo urbano nella direzione della qualità, della crescita, della coesione sociale e della sostenibilità.
La città contemporanea appare oggi l’esito di un processo di “metropolizzazione” che, in modo spontaneo e caotico, ha mutato l’assetto del territorio, così come il senso delle problematiche legate alla città e all’urbanistica, evidenziando il ruolo patologico della rendita immobiliare, dalle
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aree più centrali alle estreme periferie territoriali, spesso accomunate da condizioni di marginalità, invalidando il concetto di limite, di centro e di periferia.
Il carattere spontaneo della “metropolizzazione” richiama la necessità di una strategia unitaria e integrata di governo pubblico, finalizzata a un riequilibrio urbano e metropolitano, per restituire prospettive di equità, di inclusione sociale, di qualità urbanistico-ecologica e di efficienza al governo della città e dei territori contemporanei.
Una strategia di rigenerazione che, utilizzando strumenti diversificati in funzione della specificità dei contesti e dei relativi livelli di marginalità, prefiguri un nuovo assetto decentrato della struttura urbana: policentrica sostenibile e accessibile, finalizzata al raggiungimento di un’integrazione tra città abusiva e città pianificata e alla introduzione di una “mixité” di funzioni e residenza più conseguente alle attuali forme di funzionamento e fruizione dei contesti urbani.
La messa a punto di questa strategia assume come matrice primaria di riferimento la costruzione della città pubblica come spazio di cittadinanza, di comunità, di coesione, a garanzia di livelli più adeguati di qualità della vita, di mobilità pubblica, di residenza sociale. Tale scelta ribadisce un connotato proprio della rigenerazione urbana: non solo una strategia urbanistica, che si riferisce solo alla parte fisica della città, ma anche un progetto di inclusione sociale e di sviluppo economico.
Gli indirizzi adottati dall’Agenda urbana europea, come ricordato in precedenza, vanno in questa direzione, con la definizione dei 12 assi cui si è accennato.
Nelle maggiori città e capitali europee sono in atto da tempo imponenti programmi di rigenerazione urbana, finalizzati all’infrastrutturazione e alla digitalizzazione, alla difesa idrogeologica, alla mobilità sostenibile e alla riconversione energetica del patrimonio edilizio, nonché alla sua sostituzione. Non a caso, in Europa moltissimi sono anche i percorsi di formazione e alta formazione finalizzati a formare figure competenti per intervenire nei processi di rigenerazione urbana, quale principale strategia di intervento nelle città, mentre in Italia sono, al momento, del tutto assenti. Le politiche di rigenerazione urbana appaiono, infatti, in Italia, gravate da eccessivi pesi di natura procedurale, da conflitti di competenze e di attribuzioni tra diversi livelli di amministrazione e da diversi comparti dello Stato, da dispersioni che rendono gli interventi sulle città tendenzialmente episodici, non inseriti in una cornice normativa e di principi omogenea e di facile utilizzo e, soprattutto, nella gran parte dei casi, senza un impianto di visione strategica su tutto l’organismo urbano. Tale condizione rischia di pesare assai negativamente sullo sviluppo del Paese e delle città, motore della crescita e dello sviluppo economico e, spesso, porta a una dispersione delle risorse impegnate per opere e servizi o per programmi di rigenerazione urbana, a causa di lungaggini burocratiche, caos normativi, contraddittorietà dei riferimenti della legislazione urbanistica.
In coerenza con le linee di intervento dell’Agenda urbana europea e con il carattere comprensivo e di integrazione richiamato dalla Comunità europea (2007) “processo di rinnovo, vale a dire una forma di recupero o di valorizzazione (…) comunemente finalizzato a rivitalizzare aree problematiche – affrontando le questioni connesse al recupero degli ambienti naturali e antropici, alla conservazione del patrimonio, all’integrazione sociale, all’occupazione e alle attività economiche – nei contesti urbani, periurbani e rurali”, la rigenerazione urbana deve essere assunta come parte integrante di una politica ordinaria per la città e per le periferie, e quindi come un capitolo significativo dell’Agenda urbana nazionale.
Questo comporta però prendere atto che, in Italia, gli strumenti tradizionali per la costruzione della città pubblica – il piano regolatore generale secondo la legge n. 1150 del 1942, l’espropriazione per pubblica utilità, gli oneri di urbanizzazione – che pure hanno svolto un ruolo importante di promozione e di miglioramento delle città, sono oggi insufficienti, non più adeguati e
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in parte ostacolano la possibilità stessa di fornire risposte alle nuove esigenze e domande presenti nelle comunità urbane e metropolitane.
Tale inadeguatezza si sostanzia oggi, in primo luogo sotto il profilo della effettiva ed efficace garanzia di una equa redistribuzione della rendita a favore del pubblico. Appare pertanto evidente come la rigenerazione non sia attuabile senza una riforma comprensiva del corpus legislativo urbanistico nazionale, nella parte dei principi, come impone la Costituzione. Ecco perché, a parere della Commissione, che su questo argomento ha svolto un serrato confronto interno, appare essenziale affrontare il nodo da troppo tempo trascurato e sottovalutato di una organica riforma della legislazione urbanistica nazionale, di una nuova legge sul governo del territorio che, nel rispetto del dettato costituzionale che assegna tale campo alla materia concorrente, definisca alcuni principi essenziali e irrinunciabili, portando anche a sintesi le innovazioni legislative introdotte a livello regionale, che costituiscono un rilevante patrimonio disciplinare e operativo da cui partire.
Una riforma di principi che costituisca il riferimento – cui faccia riscontro una sede istituzionale di governo centrale che svolga un ruolo efficace di regia – per coniugare e mettere in coerenza tutte le politiche che attengono al governo del territorio: lo sviluppo del sistema insediativo e del sistema delle infrastrutture con la tutela e la valorizzazione del sistema ambientale e dei suoi valori ecologici, paesaggistici, culturali, sociali ed economici; le politiche locali dei ‘territori’ con quelle nazionali e sovranazionali. Garantendo quindi un riequilibrio tra le diverse realtà regionali e territoriali, anche sotto il profilo delle opportunità di sviluppo e di investimento, restituendo caratteri di omogeneità alla normativa urbanistica in tutto il Paese, in controtendenza rispetto all’attuale, confusa articolazione territoriale.
Una riforma legislativa per il governo del territorio, che chiuda l’epoca dell’espansione urbana e guidi in modo efficace quella della trasformazione e della rigenerazione, deve basarsi su alcuni cardini essenziali:
a) modellarsi sul nuovo assetto di governance, delle città e delle aree metropolitane, delle province, delle unioni di comuni, così come definito dalla legge 56/2014, in modo da integrare i poteri e le prerogative amministrative con l’intero sistema di pianificazione;
b) la copianificazione, quale principio informatore strutturale, nella direzione di un’effettiva semplificazione ed efficacia delle procedure di formazione e di approvazione dei piani;
c)
d) la definizione di una nuova forma del piano urbanistico, con l’articolazione nei due livelli del piano strutturale e del piano operativo. Il piano strutturale corrisponde a uno scenario, valido per un periodo medio di 10-15 anni, delle principali scelte strategiche e delle invarianti ambientali, paesaggistiche, infrastrutturali e storiche a grande scala, ma non attribuisce rendita e valore alle aree. Il piano operativo è uno strumento esecutivo di breve periodo (5 anni) legato al programma del sindaco, a carattere prescrittivo e conformativo e costituisce, pertanto, il momento di definizione del regime giuridico pubblico e privato degli immobili. Tale scelta invera il principio costituzionale del carattere “sociale” della proprietà e consente il superamento, con norme di principio nazionali, di previsioni o diritti edificatori pregressi e non attuati ma vigenti, ancorché obsoleti e superati dal reale sviluppo dei contesti urbani, limitando e rinviando la conformazione delle previsioni
la partecipazione, attraverso la definizione di procedure partecipative aperte e strutturate che
favoriscano, fin dalle fasi preliminari della elaborazione degli strumenti di piano e degli interventi di trasformazione urbana, la piena consapevolezza e il ruolo attivo e propositivo delle comunità locali insediate. Integrando e innovando, in questo modo, il modello partecipativo prevalentemente
emendativo, così come definito nella attuale legge 1150/42;
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edificatorie al piano operativo, facendo coincidere la decadenza dell’esercizio delle stesse con la decadenza quinquennale dello stesso piano operativo. In questo modo ristabilendo, peraltro, un principio di equità tra previsioni pubbliche, i cui vincoli ablativi hanno da sempre durata quinquennale, e previsioni private. A questo deve corrispondere anche una modifica del sistema di tassazione sulla proprietà, prendendo come riferimento il momento di conformazione dei diritti edificatori in sede di piano operativo e non invece in sede di piano strutturale. La nuova forma del piano urbanistico consentirebbe, inoltre, di limitare il consumo di suolo senza incorrere in “cortocircuiti” costituzionali e di alleggerire il peso del contenzioso amministrativo per i comuni. Tali scelte, che ormai ampiamente regolano le trasformazioni urbane in molte regioni italiane e nella gran parte del resto d’Europa, consentono una maggiore flessibilità degli indirizzi di pianificazione urbana rispetto alla rapida evoluzione dei mutamenti economici territoriali e un virtuoso compromesso tra gli interessi diffusi delle comunità locali e quelli del mercato immobiliare;
e) La declinazione di strumenti e procedure operative, con particolare riferimento all’utilizzo, per la costruzione della città pubblica, della perequazione e della compensazione, quali meccanismi di ordinaria attuazione del piano operativo, della fiscalità locale, come strumento di prelievo e di redistribuzione sociale della rendita fondiaria, del partenariato pubblico-privato.
Si tratta di definire e omogeneizzare questi strumenti e meccanismi – già largamente in uso nelle esperienze di pianificazione nazionale ed europea, nella legislazione urbanistica nazionale (nei comparti) e regionale – necessari per la rigenerazione urbana, per ottenere aree e volumetrie pubbliche, da utilizzare per la realizzazione di servizi, di edilizia residenziale pubblica, per allocare volumi e superfici provenienti da interventi di sostituzione edilizia o di demolizione all’interno della città più densa e carente di aree e di spazi pubblici, mettendo in campo azioni integrate di riconversione energetica, tutela dell’ambiente e del paesaggio, difesa idraulica e dai rischi idrogeologici, spingendo le imprese immobiliari a intervenire sulla città esistente.
Tra gli strumenti e procedure operative si indicano: il contributo straordinario, per il prelievo e la ridistribuzione della rendita fondiaria urbana, che l’amministrazione comunale può utilizzare per il finanziamento di opere e servizi pubblici in ambiti urbani degradati, peraltro introdotto nel 2014, nel testo unico per l’edilizia con un emendamento alla legge n. 164 del 2014 (cosiddetta Sblocca Italia); gli incentivi per il rinnovo edilizio per cui gli interventi di rinnovo del patrimonio edilizio degradato possono beneficiare di incentivi urbanistici trasferibili negli ambiti di compensazione; la cessione compensativa delle aree per il verde, i servizi pubblici, e l’edilizia residenziale pubblica, in alternativa all’esproprio, che consente di ottenere aree in cessione gratuita da parte dei proprietari delle aree, in cambio della possibilità di esercitare i diritti edificatori scaturiti dall’indice di acquisizione compensativa.
L’utilizzo regolato, nell’ambito di indirizzi nazionali di questi strumenti, consentirebbe di mettere su solide basi una vera politica di rigenerazione urbana, di contenimento dell’espansione delle città, di effettivo recupero delle periferie, ed eviterebbe il rischio – oggi molto presente – di un loro uso indiscriminato, sbilanciato a favore della rendita. Il tutto in un quadro di massima stabilito da binari e da range di legge adeguabili in sede regionale.
f) L’adozione di una concezione aggiornata di standard urbanistico (le dotazioni e i servizi pubblici per le comunità). La definizione quantitativa della dotazione minima degli standard, così come stabilita dal DM 1444/68, pur rimanendo un riferimento ineludibile, richiede un’attualizzazione e una maggiore articolazione, specificamente rivolta alle tipologie di servizi e delle attrezzature (assistenza per gli anziani, accoglienza di cittadini immigrati). A queste istanze di aggiornamento risponde anche l’inserimento nel piano locale di nuovi parametri finalizzati al raggiungimento della qualità urbanistico ecologica degli interventi, in termini di permeabilità dei suoli, di potenziamento
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della biomassa, che costituiscano veri e propri standard ecologico-ambientali, per una concreta attuazione del principio di sostenibilità;
g) Una stabilità e una continuità delle risorse necessarie per interventi di rigenerazione urbana. Occorre determinare una nuova capacità di spesa pubblica, finanziata con modalità ordinarie e con un gettito costante, introducendo norme semplici e chiare e mirate a una ridistribuzione sociale della rendita, sviluppando e attualizzando le misure, ormai inadeguate, introdotte con la legge n. 10 del 1977. La riforma deve toccare anche aspetti di riforma della fiscalità generale – almeno quelli collegati a una ridefinizione del regime giuridico degli immobili – fornendo un quadro di indirizzi di riferimento per gli enti regionali, che parametri la riscossione degli oneri in funzione delle diverse modalità di trasformazione urbana, e di una maggiore redistribuzione della rendita, garantendo così le necessarie risorse pubbliche per la rigenerazione delle città, in primis delle aree più degradate e marginali.
4. Il ritorno alle politiche abitative
La principale destinazione d’uso delle aree periferiche è residenziale e, come è stato evidenziato nel corpo della relazione, la monofunzionalità abitativa costituisce uno dei limiti delle aree urbane dove si manifesta disagio sociale. Pertanto, nella strategia di rigenerazione delle periferie, particolare attenzione va posta al tema dell’abitare, i cui intrecci sono molteplici e, nel recente periodo, hanno provocato anche situazioni conflittuali. Si prospetta da un lato, una situazione di precarietà e di fabbisogni abitativi non soddisfatti, e dall’altro reazioni illegali come occupazioni abusive di immobili, privati e pubblici.
Nonostante in alcune città italiane si registri una flessione demografica e che lo stock immobiliare sia ampio rispetto alla domanda, si registra un fabbisogno abitativo pubblico in aumento, per effetto dell’impoverimento di una larga fascia di popolazione. In molti casi la Commissione ha registrato che, oltre alla carenza di alloggi disponibili, incidono le incapacità gestionali e le difficoltà finanziarie degli enti che si occupano della casa. Per questo motivo la Commissione ha preso atto che, in molti casi, a fronte di una domanda abitativa in aumento, sia presente una buona parte di patrimonio disponibile, privo delle necessarie condizioni di agibilità.
Da nord a sud, nel Paese continua poi a manifestarsi (e resta ancora incompiuto) il lavoro di ritorno alla legalità sul tema dell’abusivismo edilizio. Al fine di contribuire alla risoluzione delle complesse questioni legate all’abusivismo edilizio, sarebbe opportuno:
1) istituire una banca dati unica al fine di informatizzare tutte le procedure che garantisca la comunicazione tra tutti i livelli istituzionali e renda più snelli e celeri le attività della magistratura e delle amministrazioni locali;
2) approvare la legge sul consumo di suolo, con i suoi principi ispiratori che consentono di distinguere il suolo compromesso da utilizzare per la rigenerazione e la riqualificazione dal suolo di pregio, facilitando la demolizione e la ricostruzione avverso l’espansione;
3) sbloccare il turnover per il personale addetto al controllo del territorio;
4) istituire un unico fondo per eseguire le demolizioni presso il MIT per sostenere i costi di demolizione e le spese tecniche accessorie anche per i comuni commissariati, in dissesto o pre- dissesto;
5) promuovere presso la Conferenza Stato-Regioni un tavolo tecnico di coordinamento sull’abusivismo e per la condivisione delle buone pratiche, al fine di uniformare le procedure;
6) acquisire al patrimonio comunale gli immobili abusivi da demolire (secondo specifiche ordinanze) e adottare un metodo ben strutturato per gestire le eventuali emergenze abitative e sociali dei nuclei familiari che dimostrino di non avere altro immobile in cui abitare, come: stabilire, in
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attesa della demolizione, un canone di locazione per gli immobili che non ricadono in aree a rischio e sottoposte a vincolo; concedere in affitto gli immobili della pubblica amministrazione inutilizzati e quelli invenduti dei privati; avviare partenariati pubblico-privati per far eseguire le demolizioni e recuperare aree degradate.
Pur non rilevandosi una generalizzata situazione critica, è indispensabile che il Parlamento e il Governo tornino dunque ad affrontare il tema della casa, che pure in passato ha rappresentato un terreno rilevante delle politiche pubbliche. È opportuno ricordare che una parte importante della ricostruzione del Paese agli albori della Repubblica fu proprio un grande programma destinato all’edilizia popolare e all’incremento dell’occupazione operaia e che, successivamente, e fino alla fine degli anni Novanta, hanno operato meccanismi istituzionali, centri di propulsione nazionale e un reticolo territoriale per la realizzazione di programmi dell’edilizia residenziale pubblica e sociale.
Si deve registrare un dato: dalla fine degli anni Novanta, con la definitiva abolizione dei cosiddetti fondi Gescal per l’edilizia pubblica, le azioni di rinnovo e di riqualificazione del patrimonio abitativo pubblico, nonché di creazione di nuovo patrimonio, si sono drasticamente ridotte e, soprattutto, hanno seguito nuovi percorsi che, pur producendo importanti innovazioni, hanno perduto il carattere della sistematicità e della continuità.
La Commissione ritiene urgente una riflessione e un’iniziativa del Parlamento e del Governo nazionale per ridefinire un programma, sia per l’edilizia residenziale pubblica, sia per l’edilizia residenziale sociale, prevedendo nuovi e regolari finanziamenti e una sistematizzazione delle modalità innovative introdotte e attuate per episodi attraverso il coinvolgimenti di Cassa depositi e prestiti e, in generale, del settore finanziario. La Commissione ritiene inoltre opportuno che il Parlamento e il Governo possano avviare un dibattito circa gli strumenti, finanziari e di accesso, in grado di consentire l’immissione nel mercato degli Npl (non performing loans) residenziali, oggi in carico al sistema bancario italiano che, con modalità e strumenti flessibili, potrebbero contribuire, in modo complementare rispetto agli strumenti tradizionali, a dare risposta al fabbisogno abitativo emergente.
Sui risultati della lunga stagione che ha caratterizzato le politiche e le azioni per l’Erp in Italia, cambiando il volto delle città e delle loro periferie, la Commissione ha svolto un dibattito interno. Gli esiti della conclusione di quella stagione sono raccontati, nei loro attuali problemi in molte parti della relazione relative ai sopralluoghi compiuti. In particolare, si è dibattuto, anche e soprattutto in funzione delle scelte future migliori di carattere urbanistico, sociale e architettonico, sul bilancio di una stagione che ha visto sorgere grandi complessi popolari pubblici in quasi tutte le realtà metropolitane, che hanno impegnato risorse e intelligenze, e che oggi rappresentano, in molti e rilevanti casi, luoghi di profondo disagio, veri e propri punti di concentrazione di quasi tutte le difficoltà e dei problemi rilevati nel corso del lungo viaggio di indagine e di ricerca compiuto dalla Commissione. Tra i casi più noti: lo Zen a Palermo, Scampia a Napoli, Corviale a Roma, le Dighe a Genova.
Nel corso del confronto si sono manifestate due opzioni diverse di analisi e di azione possibile.
Da un lato è stata espressa la necessità di interventi radicali di demolizione (alcuni sono in corso, come nel caso di Napoli) e di successiva ricostruzione, per comparti, dei comprensori, con densità basse, criteri urbanistici e tipologie edilizie più “a misura d’uomo” di quelle attuali, oggi incontestabilmente compromesse dal degrado, dal gigantismo e dalla serialità costruttiva dei complessi.
Dall’altro, pur non contestando la situazione di assoluto degrado e di emergenza presente in queste realtà e che riproduce una catena negativa comunicativa, che ostacola i tentativi di rinascita
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delle comunità locali insediate nei quartieri, si ritiene che sia possibile intervenire per risanare i complessi esistenti con vigorosi interventi di recupero edilizio, energetico e funzionale, con la densificazione dei servizi pubblici e privati, con una lotta serrata alle occupazioni abusive degli alloggi e alla criminalità, con un sostegno alle numerose e importanti esperienze associative che si producono all’interno dei quartieri e che mirano a risanare ed elevare il tessuto sociale con attività sociali, culturali, sportive e formative, ma soprattutto con azioni mirate a creare occasioni di lavoro e di sviluppo economico e strutture per la formazione universitaria nei contesti urbani in cui si inseriscono queste realtà. Particolarmente interessante appare, da questo punto di vista, l’esperienza del quartiere romano di Corviale, dove esiste una visibile presenza di queste realtà vive che svolgono, in forma sussidiaria, una pregevole ed efficace azione di contrasto del degrado e all’emarginazione.
La Commissione non ha sciolto l’alternativa suddetta.
Né avrebbe potuto farlo con un improbabile voto di maggioranze e minoranze, ma la consegna, nella sua interezza e urgenza, al futuro Parlamento, suggerendo la valutazione più concreta dei casi specifici che possono consentire di meglio comprendere dove è più adatto l’intervento radicale e dove quello di risanamento. Resta intatta, in ogni caso, la necessità, anche all’interno dei futuri programmi e bandi per le periferie, di mettere al centro azioni e interventi specificamente indirizzati ai quartieri di edilizia residenziale pubblica sorti numerosi nel corso del Novecento, prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che oggi richiedono una estesa azione di rigenerazione o radicale sostituzione.
Il boom immobiliare che ha operato alla fine degli anni Novanta, fondato prevalentemente sull’edilizia residenziale privata, e la naturale propensione delle famiglie italiane alla proprietà della casa, hanno ridotto progressivamente la portata dell’intervento pubblico, riconducendo l’abitare alla sola funzione residenziale e la casa a bene rifugio, sia in termini di utilizzo sia in termini di impiego dei risparmi. Le periferie, sotto questo profilo, sono oggi anche il risultato di un tale processo che, se ha patrimonializzato le famiglie italiane, non necessariamente ha allineato i livelli di offerta territoriale agli standard europei.
Per questo va oggi ridisegnata una politica dell’abitare, sostenibile e coesiva, anche allo scopo di generare nuove forme di investimento sociale, un’imprenditorialità innovativa e più equità sociale, necessario motore della riqualificazione e messa in sicurezza delle periferie urbane.
Le politiche per l’abitare costituiscono quindi un aspetto fondamentale per la rinascita delle città e intervengono sotto diversi profili.
Si tratta innanzitutto di far fronte a una domanda crescente non soddisfatta dal mercato, attraverso strumenti e risorse che possano integrare l’operatività di diversi soggetti, anche in considerazione delle limitate possibilità di accrescere la sola spesa pubblica in questo settore. La segmentazione della domanda, da un punto di vista sociale, implica un necessario adeguamento degli interventi sulla base dei fabbisogni. È necessario integrare differenti modalità di intervento, a partire dalla tradizionale realizzazione di alloggi di edilizia popolare, alle diverse forme di social housing, fino a meccanismi più sofisticati di impiego dei risparmi, finalizzati a programmi di edilizia abitativa. In questo senso, andranno esplorate anche modalità innovative di finanziamento, come la raccolta di risparmio in fondi immobiliari, orientati esclusivamente a operazioni di rinnovo urbano e residenziale. A tal proposito, è utile ricordare l’esperienza francese, che consente ai lavoratori dipendenti di detrarre una quota significativa delle imposte se investite in interventi di housing sociale.
Vi è poi un aspetto molto rilevante, che riguarda la qualità del patrimonio edilizio. Bisogna infatti considerare che il 39,9% degli edifici italiani ha una vetustà superiore ai 50 anni e che ben il 56,7% degli edifici non è soggetto ad alcuna normativa energetica, e pertanto produce alti consumi, con elevanti oneri per gli utilizzatori e negativi impatti sull’ambiente. È rilevante, ai fini del
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miglioramento della qualità abitativa delle periferie, una specifica attenzione al rinnovo del patrimonio edilizio, anche attraverso programmi integrati che possano comprendere interventi di demolizione e ricostruzione di complessi esistenti, privi di sicurezza sismica, energivori, inadeguati da un punto di vista delle performance residenziali, scarsamente dotati dal punto di vista dell’efficienza ambientale, con insufficiente presenza di spazi pubblici e servizi di quartiere e anche con elevati livelli di degrado fisico, che rendono sgradevole la stessa vita comunitaria.
In relazione a quanto sopra, si evidenziano alcune problematiche che affrontano nodi da molto tempo irrisolti. Portarli o avviarli a soluzione comporterebbe benefici rilevanti nel rendere più efficaci le politiche abitative.
a) Una nuova legge quadro, d’intesa con le regioni, che fornisca riferimenti certi e validi sull’intero territorio nazionale alle Aziende Casa, al fine di uniformarne la configurazione giuridica – allo stato attuale diversificata in forme societarie, in enti pubblici economici ovvero in enti pubblici non economici – e che definisca criteri omogenei su alcuni decisivi parametri, quali il canone minimo, il reddito massimo di permanenza e le modalità di accompagnamento al superamento della soglia di reddito, confermando la parte regolamentare alle singole regioni e al contempo implementando di maggiori responsabilità le città metropolitane;
b) un ruolo diverso per le Aziende Casa, che consenta, da una parte, di recuperare efficienza, dal punto di vista amministrativo e finanziario, al fine di renderle protagoniste, insieme a imprese e cooperative di costruzione, degli interventi anche nel campo dell’edilizia residenziale sociale e, dall’altra, di sollevarle da incombenze proprie dell’assistenza sociale che vanno invece confermate alle competenze delle istituzioni elettive;
c) contrastare il fenomeno delle occupazioni illegali degli alloggi pubblici e privati, anche attraverso il ripristino degli alloggi inidonei, l’immediata riassegnazione di quelli liberi, la messa a punto di sistemi informativi relativi all’utenza, e il monitoraggio sullo stato della situazione degli alloggi;
d) definire nuove procedure tra enti locali, tribunale e forze dell’ordine, affinché gli immobili pubblici o privati oggetto di occupazione abusiva, possano tornare in disponibilità del proprietario in tempi compatibili a garantire l’effettività del diritto di proprietà;
e) definire una nuova fattispecie di reato nei casi in cui dietro le occupazioni e le gestioni abusive di più immobili, ci siano organizzazioni di carattere criminale, come è emerso in molte situazioni che la Commissione ha avuto modo di approfondire;
f) riattivare canali stabili e continui di finanziamento dell’edilizia residenziale pubblica, a garanzia di interventi manutentivi ordinari e straordinari del patrimonio;
g) incrementare lo stock residenziale nei comuni dove è più acuto il disagio abitativo, incentivando la riqualificazione degli alloggi pubblici all’interno dei programmi di rigenerazione urbana;
h) favorire la costituzione di un demanio di aree e immobili di proprietà pubblica comunale per l’edilizia residenziale sociale e pubblica, utilizzando le opportunità già presenti nella legislazione vigente, ricorrendo al patrimonio demaniale inutilizzato (militare o statale) e agli alloggi illegali non condonabili. In questo quadro, appare necessaria l’adozione di nuove norme generali finalizzate all’acquisizione gratuita di aree o di immobili attraverso strumenti operativi perequativi e compensativi (come definiti nella sezione sulla rigenerazione urbana della relazione) complementari al tradizionale esproprio non più efficace;
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i) una normativa statale per l’edilizia residenziale sociale che si esprima, in merito alle modalità di selezione e ai requisiti dell’utenza, e che definisca criteri per relazionare il valore dei canoni in rapporto ai benefici concessi all’operatore.
5. Le politiche per la sicurezza
Per un’efficace gestione della sicurezza nelle periferie va evidenziata la strategicità di uno strumento di governance a livello locale, che dovrebbe trovare la sua specifica competenza territoriale nell’ambito comunale, in modo da valorizzare l’indispensabile rapporto di prossimità con i cittadini e, nel contempo, il collegamento delle aree degradate con l’intero tessuto urbano.
Tale struttura è rappresentata dal Comitato metropolitano – previsto dalla legge 18 aprile 2017, n. 48 – che, anche sulla base di un adeguamento della composizione e delle funzioni, potrebbe definire specifici patti di sicurezza, che prevedano l’azione congiunta degli attori operanti a vario titolo nelle aree degradate, sia per mettere in atto specifiche azioni che per promuovere interventi delle varie istituzioni pubbliche e soggetti rappresentativi del territorio.
Una delle maggiori criticità delle aree urbane è rappresentata da un deficit di presenza istituzionale che, invece, è necessaria per rispondere alle richieste dei cittadini, nonché per elevare i livelli di sicurezza percepita. Si può a tal fine ipotizzare, nell’ambito di ogni area, la realizzazione di una specifica struttura polifunzionale costituita da nuclei appartenenti alle diverse istituzioni operanti sul territorio (si vedano i possibili riferimenti nella legge 48/2017, recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”) che assicuri il primo intervento e la successiva attivazione dell’amministrazione competente, oltre alle fondamentali attività di ascolto e di monitoraggio dei fenomeni di interesse.
Particolarmente significativa è l’attivazione dei patti di sicurezza che consistono in accordi di collaborazione e di solidarietà stipulati tra Stato ed enti locali – sulla base di un accordo quadro sottoscritto il 20 marzo 2017 tra il Ministero dell’interno e Anci – per realizzare azioni congiunte di più livelli di governo e promuovere, anche in via sussidiaria, interventi per rendere effettivo il diritto alla sicurezza. Al fine di una condivisione del patrimonio informativo, la Commissione ritiene che potrebbero apportarsi modifiche alla legge n. 121/1981, al fine di mettere l’intero patrimonio informativo – reso anonimo e cioè privo di riferimenti nominativi – a disposizione di tutti i soggetti che si occupano di politiche urbane per lo studio dei fenomeni e l’elaborazione di strategie di intervento.
L’attuazione del principio della sussidiarietà, attraverso la valorizzazione del Terzo settore e dell’associazionismo e del volontariato in genere costituisce, inoltre, una leva strategica per una serie di interventi sociali in grado di produrre esternalità di rilievo in grado di aumentare significativamente i livelli di sicurezza. In questo senso, la Commissione ha acquisito con interesse gli elementi relativi alle organizzazioni e alle associazioni di cittadini che esprimono interesse per il proprio territorio, come il “Controllo del vicinato”, laddove queste attività avvengono all’interno di protocolli con gli enti locali e la prefettura.
È però fondamentale offrire adeguate risposte alla richiesta di un più serrato controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine. I vincoli di bilancio non consentono significativi aumenti di organico delle forze di polizia mentre, per le strutture, il Ministero dell’interno procede alla razionalizzazione della loro dislocazione in ottemperanza all’articolo 3 del decreto legislativo n. 177/2016. Quest’ultimo testo, tuttavia, potrebbe essere integrato con la previsione di alcuni standard minimi di sicurezza (come ad esempio il numero di presìdi e di operatori forze polizia per numero
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di abitanti), limitatamente alle aree urbane degradate. Inoltre, potrebbe essere rafforzata la specifica formazione degli operatori di polizia impegnati nelle aree degradate.
Oltre al coordinamento delle forze di polizia nazionali, è fondamentale la collaborazione tra le forze di polizia e le polizie locali – che controllano il territorio – e le forze armate che presidiano il territorio. Tale maggiore integrazione dovrebbe trovare un organico strumento normativo che introduca una specifica disciplina in termini di coordinamento, procedure operative, attribuzioni e poteri. L’attività delle polizie locali risulta fondamentale per supportare le politiche tese a rimuovere le cause del degrado e a migliorare la qualità della vita.
Per questo è necessario un potenziamento anche degli strumenti utilizzabili, come ad esempio le interrogazioni al Sistema di indagine riservato alle forze di polizia. In particolare si dovrebbe garantire, in maniera omogenea nell’intero territorio nazionale, il coordinamento tra sicurezza pubblica e polizia locale (come previsto dall’articolo 118, terzo comma, della Costituzione), definendo finalmente in maniera diretta e unitaria ruolo, qualifica specifica e dipendenza istituzionale degli operatori di polizia locale, superando una volta per tutte la possibile dicotomia tra funzioni di polizia locali e funzioni di polizia amministrativa locale.
Sul piano normativo, inoltre, si dovrebbero affrontare altri temi di rilevanza per le amministrazioni locali e per le polizie locali quali: le funzioni ausiliarie di polizia amministrativa locale rese da altri dipendenti pubblici; la cooperazione tra polizia locale e forze di polizia dello Stato; la disciplina dell’armamento e delle uniformi; l’accesso alle banche dati, comprese quelle del Ministero dell’interno; la definizione delle politiche nazionali della sicurezza, delle politiche locali per la sicurezza e delle politiche integrate; l’individuazione degli accordi tra Stato, regioni e autonomie locali come strumento specifico della cooperazione interistituzionale.
Durante l’attività della Commissione è emerso che il tema della sicurezza urbana e della sua percezione è uno dei più sentiti dai cittadini. In quasi tutte le città è stata riscontrata una distonia tra i dati ufficiali delle prefetture, che evidenziano un sensibile calo dei reati registrati, e una sempre crescente preoccupazione dei cittadini in relazione ai reati contro il patrimonio pubblico e privato e contro l’incolumità personale. Sotto questo punto di vista, la Commissione ritiene opportuno che il Parlamento possa avviare una riflessione rispetto alla necessità di un riordino del codice penale e di procedura penale con cui i reati urbani vengono trattati, giungendo alla formulazione di una serie di proposte.
Tra queste assumono particolare pregnanza tutte quelle intese ad affermare il concetto di legalità, come le misure dirette ad assicurare effettività e adeguatezza delle sanzioni o la possibilità di ricorso a misure alternative, nell’ambito di quelle socialmente utili, misure rapide per l’espulsione dei cittadini stranieri clandestini, strumenti di gestione più efficaci in relazione alle problematiche legate alle strutture che possano creare allarme sociale e modalità più efficaci di collaborazione dei cittadini, a partire dall’esperienza positiva che si sta realizzando intorno alle previsioni del cosiddetto decreto Minniti. Fermo restando la necessità di adeguare la legislazione al mutato contesto relativo sia all’insediamento di organizzazioni criminali nelle periferie che all’allarme sociale provocato dai crimini di strada e presso le residenze, è indispensabile attuare una adeguata attività di controllo del territorio basato sulla coesione sociale e sulla prevenzione dei crimini. Sempre al fine della prevenzione è opportuno prestare la massima attenzione sotto il profilo della legalità e dell’umanità rispetto alla localizzazione in periferia di strutture che possano creare forte allarme sociale (campi rom, Cie, ecc.).
La Commissione, a questo riguardo, ha affrontato con particolare attenzione l’analisi e la verifica dell’impatto sociale nelle grandi città, in relazione alla presenza sia dei campi Rom, sia di coloro che la Commissione ha definito “invisibili”, ovvero i clandestini. Laddove, in particolare,
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alcuni clandestini assumono questa condizione a fronte del mancato riconoscimento dello status di rifugiato, una volta conclusa la permanenza nel Cie.
La Commissione ritiene che, con riferimento a entrambi i fenomeni – che in alcune periferie assumono carattere di urgenza e pericolosità allarmante – sia necessario porre alla base di ogni politica di sostegno e integrazione il ripristino della legalità. A questo proposito, la Commissione ha trasmesso tutti gli elementi acquisiti alle forze dell’ordine, alla magistratura e agli enti locali, affinché si possa agire con determinazione sulla questione del traffico/smaltimento rifiuti che avviene nelle pertinenze dei campi Rom, congiuntamente alla dispersione scolastica in obbligo formativo che, in alcuni casi, raggiunge punte pari all’80%.
Un altro aspetto che la Commissione ha rilevato connesso alla presenza degli “invisibili”, che da rapporti autorevoli è stimata in un numero pari a circa il 10% dei 6 milioni di regolarmente residenti, è che questa presenza assume rilievi particolarmente problematici, nei contesti urbani, laddove molto spesso queste persone diventano oggetto di sfruttamento o vengono utilizzate come manovalanza dalle organizzazioni criminali italiane e straniere.
La Commissione auspica che il Parlamento possa avviare un dibattito e individuare una direzione per affrontare queste questioni, che contribuiscono a determinare e a inasprire i conflitti sociali, anche in considerazione del fatto che intere aree delle città italiane vengono, in questo modo, sottratte alla presenza e al controllo dello Stato.
6. Le politiche attive per il sociale
Nel quadro di un rinnovato piano per le periferie, un’attenzione particolare va data all’infrastrutturazione sociale per aumentare le opportunità per i soggetti più deboli, non solo attraverso investimenti in opere ma, soprattutto, con la realizzazione di servizi, sperimentazione di azioni immateriali, sostegno a progetti di inclusione sociale, di produzione culturale, di nuovo welfare. Una strada è quella di costituire Agenzie sociali di quartiere, dove possano essere impiegati giovani agenti di sviluppo, miste dal punto di vista della gestione, che operino un’interfaccia accogliente ed efficace, nella logica dello sportello unico, per superare la frammentazione del trattamento amministrativo dei bisogni.
Di immediata necessità è l’ampliamento dei servizi di welfare a sostegno delle misure contro la povertà, in particolare in seguito all’entrata in vigore del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 recante “Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà”, che prevedono l’introduzione del cosiddetto reddito di inclusione attiva. Occorre dunque un potenziamento dei servizi sociali e la creazione di nuove figure professionali per la presa in carico di persone e famiglie in difficoltà.
Sono, inoltre, da sostenere e rafforzare tutte le iniziative di co-housing per disabili e soggetti deboli, studenti, famiglie; lo sviluppo dei servizi domiciliari e la tutela locale “di quartiere” delle persone anziane attraverso servizi di monitoraggio e prevenzione.
Particolare rilievo ha il rafforzamento della scuola nelle periferie, non ancora pienamente inclusiva a causa degli elevati tassi di dispersione e abbandoni e che, invece, deve essere messa nelle condizioni di contrastare il disagio e l’esclusione, ricostruendo comunità e offrendo nuove opportunità di crescita. Occorre proseguire l’esperienza di scuola al centro, prolungando l’orario di apertura, offrendo un arricchimento dell’offerta formativa agli studenti e soprattutto un punto di riferimento per il territorio.
L’obiettivo è altresì quello di ampliare i servizi educativi per l’infanzia (0-3), garantendone la presenza attraverso un’equa distribuzione territoriale, specie nelle periferie, e superando le sperequazioni esistenti nel territorio nazionale.
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La presenza di rom e sinti abitanti nei campi e in situazioni di precarietà (per metà italiani, non più “nomadi”, per metà minori) è potenziale fonte di conflitto sociale nelle periferie.
La Commissione ha affrontato il tema dell’illegalità e degli alti tassi di fenomeni criminali sia negli insediamenti regolari, sia nelle baraccopoli, causa di degrado, come la produzione di rifiuti negli insediamenti abusivi, i roghi dei residui di materiali ferrosi, o le forme di “abusivismo commerciale”. Di fronte a reali problemi sociali (condizioni di vita inaccettabili, scarsa scolarizzazione, illegalità), le Istituzioni devono sia garantire sicurezza ai cittadini (anche attraverso i nuovi Comitati metropolitani), sia agire concretamente a favore dell’inclusione, dell’inserimento sociale e della scolarizzazione.
Si tratta di attuare la strategia nazionale di inclusione di Rom, Sinti e Camminanti (2012- 2020) approvata dal Consiglio dei ministri nel febbraio 2012 in attuazione della Comunicazione n.173 del 2011 della Commissione europea. Rom e Sinti hanno chiesto da tempo il riconoscimento come minoranza storico-linguistica, anche al fine di contrastare il diffuso antigitanismo. Tale strategia comporta, a ben vedere, una azione coordinata tra inclusione sociale per il miglioramento delle condizioni di vita di queste popolazioni e adozione di misure rigorose di tutela della sicurezza pubblica e dei cittadini, laddove si manifestino pratiche illegali, criminali o lesive della pubblica convivenza come nel caso dei roghi tossici, del traffico illegale di rifiuti, di pratiche di microcriminalità diffusa, di abbandono dei minori o loro istradamento a condotte illegali o all’abbandono scolastico. La Commissione considera pertanto decisiva per restituire fiducia alle Istituzioni in relazione al tema delle periferie, l’attenzione verso queste problematiche, nonché la capacità di contemperare il massimo impegno sia per l’inclusione dei nuclei familiari che restano nel campo della legalità, sia per il contrasto netto e determinato per gli elementi portatori di condotte illegali o addirittura criminali.
Particolare attenzione meritano, infine, tutte quelle esperienze civiche che si muovono nel campo della sussidiarietà sociale urbana.
La Commissione ha potuto riscontrare come, accanto ai fenomeni di degrado e di difficoltà si sviluppi, nelle periferie e nelle zone critiche a vario titolo delle città, una reazione positiva fatta di associazionismo diffuso e di volontariato che opera nel campo dei servizi sociali, della cultura, della cura e manutenzione dei beni comuni, dello spazio pubblico, dell’ambiente e dell’agricoltura e come, anche, si debba registrare il fiorire di una diffusa creatività giovanile che si indirizza verso la musica, l’arte ed esperienze creative di tipo più moderno come il cinema, la fotografia, il web.
Particolarmente significativa appare l’esperienza dell’universo Retake, un movimento di ispirazione americana, che sta diffondendosi in tutte le maggiori città italiane e che organizza migliaia di volontari intorno ad obbiettivi di recupero degli spazi pubblici.
Si impone, da parte delle amministrazioni a ogni livello, la necessità di stabilire un rapporto di vera alleanza con queste realtà, ascoltando e cercando di dare risposte alle mille esigenze pratiche che esse propongono (e su cui ci sono riferimenti nel testo della relazione) e che vanno dalla necessità di convenzionare gli interventi volontari, assicurare i rischi di infortunio, garantire un uso calmierato (ma rigorosamente controllato in termini di legalità e trasparenza degli usi) di parti di patrimonio pubblico per far fiorire le tante esperienze civiche che si generano nelle città e creare spazi polifunzionali e creativi per i giovani.
Moltiplicare nei quartieri i luoghi di aggregazione, di formazione, di diffusione del senso e dell’educazione civici, della cura dei beni comuni e delle buone pratiche di convivenza rappresenta un fattore decisivo per spostare in positivo gli equilibri tra indifferenza, rassegnazione al degrado e partecipazione attiva, solidarietà, inclusione. Queste energie non solo non possono essere disperse, ma è dovere delle Istituzioni favorirle e consolidarle.
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7. Il valore dell’economia urbana
La Commissione, nel corso dell’indagine, ha verificato, tra gli elementi di criticità di molte aree periferiche e centrali delle città italiane, la progressiva chiusura dei negozi di vicinato, laddove la scomparsa di attività di economia legale ha, in molti casi, lasciato spazio ad attività economiche illegali e, spesso, illecite.
Nel Nord del Paese, centri massaggi, minimarket, negozi etnici, phone center, money transfer, hanno sostituito progressivamente le attività tradizionali in un processo che ha via via degradato molti quartieri, rendendoli insicuri nella percezione dei residenti. Al Sud permangono, invece, situazioni in cui i grandi agglomerati urbani, soprattutto quelli legati alla residenza popolare, sono privi di servizi essenziali e di una vera e propria economia urbana legata ad attività commerciali e artigianali. L’assenza di economia vitale, capace di rendere un quartiere abitato, insieme alla carenza di opportunità di lavoro, costituisce un fattore rilevante di degrado urbano.
Da questo punto di vista, la Commissione ritiene che si debba aprire un dibattito sulla individuazione dei modi e delle forme che possano sostenere la ripresa dell’economia urbana. Questo, sia in termini di forme di ripristino della legalità, al fine di consentire l’avvio di attività di impresa con serenità, in quartieri che oggi sono problematici, sia sotto il profilo di forme di sostegno e incentivo per le attività economiche commerciali e artigianali che scelgono di reinsediarsi in quartieri problematici.
8. Iniziative di comunicazione
È ben evidente che ogni sforzo che il Parlamento, il Governo e le istituzioni territoriali possono realmente realizzare per migliorare le condizioni dei cittadini che vivono la realtà periferica debba essere accompagnato da uno sforzo anche di rafforzamento delle identità urbane e metropolitane.
La rigenerazione delle periferie non può essere processo diverso dal rafforzamento delle comunità periferiche. L’indispensabile impegno a rinnovare la struttura, a investire risorse, ad accrescere la sicurezza, non ha la possibilità di incidere significativamente senza che venga accompagnata da una adeguata attività di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini. Naturalmente esistono e sono attivi gruppi, strutture associative, organizzazioni volontarie che già oggi rendono la periferia un terreno vivace dal punto di vista dell’impegno sociale. È però opportuno, anche in questo ambito, prevedere specifiche azioni di sostegno per rafforzare l’identità comunitaria dei cittadini che vivono in periferia.
La presenza, ad esempio, di una specifica direzione generale del Ministero dei beni e le attività culturali e del turismo che si occupa specificamente delle periferie, ha fatto in modo che fossero promossi specifici programmi e progetto di rigenerazione che, attraverso la cultura, sviluppano processi di inclusione e coesione in linea con quanto accade nel resto d’Europa. Una nuova imprenditoria dal basso che produce nuovi beni e servizi utilizzando la leva della cultura: pubblico e privato. Terzo settore e cittadinanza attiva in rete. Specifici programmi di visita e approfondimento dei luoghi di rilievo culturale localizzati in periferia potranno essere sollecitati in una fattiva collaborazione con le strutture scolastiche, al fine di sensibilizzare i cittadini a partire dalle nuove generazioni.
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