16 marzo 1978 – 16 marzo 2018

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Oggi su ilFattoquotidiano.
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aldomoro2018b_largeAldo Moro
16.3.1978. La fine di Aldo Moro. Il 16 marzo 1978 Aldo Moro, leader della DC, fu rapito e avviato alla morte. Le centrali del sistema capitalistico, utilizzando le Brigate rosse, interruppero così il processo di avvicinamento tra mondo comunista e mondo cattolico, di cui Moro era uno dei tessitori (vedi su eddyburg l’articolo di Miguel Gotor: Il sequestro della Repubblica)
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Aldo Moro, il sequestro della Repubblica
di MIGUEL GOTOR

il Fatto quotidiano, 8 marzo 2018. La storia dell’evento che cambiò radicalmente la storia dell’Italia e la trasformò un una pedina dell’impero Usa, mediante il rapimento, la tortura morale e l’assassinio di uno statista democratico. con postilla

Aldo Moro, il sequestro della Repubblica
di MIGUEL GOTOR

Il 16 marzo 1978, il giorno in cui il Parlamento doveva votare la fiducia al nuovo governo guidato da Giulio Andreotti che, per la prima volta dal 1947, avrebbe avuto il sostegno esterno del Pci, le Brigate rosse rapirono in via Fani Aldo Moro, allora presidente del Consiglio nazionale della Dc, e trucidarono i cinque uomini della sua scorta (Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi).

Quel giorno entrarono in azione almeno una decina di brigatisti che sarebbero stati arrestati tutti – l’ultima, Rita Algranati, nel 2004 – tranne Alessio Casimirri, tuttora latitante in Nicaragua. Alcune testimonianze oculari attestarono la partecipazione all’agguato anche di due individui su una moto Honda mai identificati, una presenza però sempre negata dai brigatisti. In quella tiepida mattina romana che già anticipava una primavera rosso sangue, mentre, il presidente del consiglio incaricato Andreotti, raggiunto dalla notizia del rapimento di Moro, era aggredito da conati di vomito, iniziavano i 55 giorni più bui della storia della Repubblica.

Se i brigatisti avessero voluto uccidere Moro e basta, lo avrebbero fatto già il 16 marzo, insieme con la scorta. In realtà l’obiettivo della loro “propaganda armata” era più raffinato: eliminare l’ostaggio dopo avere destabilizzato il quadro politico e istituzionale mediante il suo rapimento, funzionale a distruggerne l’immagine sul piano civile e morale affinché il suo progetto di allargamento della base democratica dello Stato non avesse eredi. Il governo, con il sostegno del Pci, respinse con fermezza qualsiasi trattativa pubblica sin dalla giornata del 16 marzo secondo un doppio principio: il rifiuto di accettare un eventuale scambio di prigionieri, cedendo così al ricatto imposto dai brigatisti dopo avere ucciso cinque servitori dello Stato; la rinuncia a compiere qualsiasi atto che potesse implicare un riconoscimento giuridico delle Br in qualità di forza combattente poiché ciò avrebbe significato legittimare la violenza armata come metodo ordinario di lotta politica e propiziare nuovi sequestri. Come i brigatisti avevano preventivato, le lettere che il prigioniero cominciò a spedire ai suoi famigliari, al papa Paolo VI e ai principali uomini politici italiani e autorità dello Stato aprirono un lacerante dibattito tra le ragioni della fermezza e quelle della trattativa, che fece da corollario alla non meno insidiosa discussione se quelle missive fossero autentiche o estorte con la violenza.

A intorbidire le acque concorse la presenza in entrambi i fronti di quanti disprezzavano Moro e la sua politica di accordo con i comunisti al punto da guardare con cinica indifferenza alla sua scomparsa. Moro, infatti, era destinato quasi sicuramente a diventare capo dello Stato nell’autunno 1978, a coronamento dell’accordo raggiunto tra la Dc e il Pci, un’intesa foriera di ulteriori sviluppi che lo avrebbero visto nel ruolo di supremo garante istituzionale. Senonché, anche tra i seguaci della trattativa pubblica, in particolare tra gli esponenti del movimento extra-parlamentare, si celavano quanti, soffiando sul fuoco della necessità di un negoziato palese che portasse allo scambio dei prigionieri e a un riconoscimento delle Br, offrivano una comoda sponda all’iniziativa brigatista, alimentando un prevedibile irrigidimento tra le parti che avrebbe portato alla soppressione dell’ostaggio.

L’esecutivo e l’antiterrorismo, supportato da un esperto statunitense, Steve Pieczenick, inviato sullo scenario di crisi dal Dipartimento di Stato, adottarono una strategia a tre livelli: sul piano politico, quello pubblico e propagandistico, sostennero la linea della fermezza; riservatamente attivarono un canale di comunicazione con il mondo brigatista (così come consigliato da Pieczenick) che si servì dell’intermediazione dell’ex leader di Potere operaio Franco Piperno e dei suoi rapporti con ambienti giornalistici de L’Espresso e con alti dirigenti socialisti. Costoro provarono a imbastire un negoziato intorno a un atto unilaterale di clemenza dello Stato nei riguardi di un detenuto malato e costruirono una catena di contatti che raggiunse certamente la prigione giacché Moro ne accennò in una delle sue lettere. Sul piano segreto, dopo avere consultato il 3 aprile i segretari dei partiti di maggioranza e quindi anche Berlinguer che diede il suo assenso, il presidente del Consiglio Andreotti si disse disponibile a pagare un riscatto per ottenere la liberazione di Moro. Oggi sappiamo con certezza che la raccolta di questa somma coinvolse la famiglia pontificia e Paolo VI in persona, legato a Moro sin dai tempi della Fuci. Proprio durante il sequestro, Casimirri, presente con sua moglie in via Fani e appartenente a un’influente famiglia di cittadini del Vaticano, venne fermato dalle forze dell’ordine, ma rilasciato.

Col passare dei giorni l’operazione Moro rivelò una duplice dimensione simile a un gomitolo che invece di sciogliersi si ingarbugliava sempre di più: procedette come un normale sequestro di persona, tuttavia, in ragione della qualità dell’ostaggio, ebbe anche un rilievo spionistico-informativo, funzionale a raccogliere notizie segrete o riservate riguardanti la sicurezza nazionale e atlantica dello Stato. Ciò avvenne attraverso l’espediente mediatico del “processo al regime democristiano”. Gli originali di questo interrogatorio (il “memoriale”) sono a tutt’oggi scomparsi, mentre si sono recuperate, ufficialmente soltanto nel 1990 dentro l’intercapedine di un covo brigatista a Milano già perquisito nell’ottobre 1978 dalle forze dell’ordine e da allora rimasto sotto sequestro giudiziario, delle fotocopie dei manoscritti, incomplete, ma di sicuro autografe di Moro.

Il tardivo ritrovamento di queste carte, avvenne soltanto dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, ma l’interrogatorio risultò tagliato delle parti riguardanti, fra le altre cose, la fuga di Herbert Kappler, il golpe Borghese e il conflitto arabo-israeliano, incluso l’accordo di intelligence dell’ottobre 1973, cui l’ostaggio aveva accennato più volte in modo criptico in alcune lettere inviate a selezionati e informati destinatari. Si trattava di una serie di vicende intorno alle quali nel 1978 erano in corso delicate inchieste giudiziarie che coinvolgevano i vertici militari e dei servizi segreti italiani e stranieri (ad esempio il processo Borghese e quello relativo ad “Argo 16”). Di conseguenza le parti espunte riguardavano dei fatti ancora aperti sul piano giudiziario (di cui la conoscenza delle rivelazioni di Moro nel 1978 avrebbe potuto condizionare l’esito) oppure episodi relativi ai rapporti internazionali dell’Italia con Paesi amici, ad esempio con la Germania ovest, Israele, la dirigenza palestinese, tutelati da un vincolo di segretezza che si svolgeva lungo il tagliente filo della ragione di Stato.

Quella ragione di Stato cui Moro aveva fatto esplicito riferimento nella sua prima lettera a Francesco Cossiga il 29 marzo, laddove aveva spiegato che “nelle circostanze sopra descritte entra in gioco, al di là di ogni considerazione umanitaria che pure non si può ignorare, la ragione di Stato. Soprattutto questa ragione di Stato nel mio caso significa […] che io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato, sottoposto a un processo popolare che può essere opportunamente graduato […] con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa”.

Una giornata decisiva del sequestro Moro fu il 18 aprile 1978, quando, a pochi minuti l’uno dall’altro, avvennero due episodi altamente destabilizzanti. Una fuga d’acqua, volutamente provocata da una mano ancora ignota, fece scoprire il covo di via Gradoli, abitato da Mario Moretti, ossia da colui che stava interrogando l’ostaggio. Il nome di Gradoli, un paese in provincia di Viterbo, era emerso già il 2 aprile in una seduta spiritica organizzata da un gruppo di professori bolognesi, fra cui Romano Prodi, Alberto Clò e Mario Baldassarri. Le indagini avrebbero dimostrato che la polizia già il 18 marzo aveva interrogato gli occupanti dell’abitazione adiacente il covo di via Gradoli. L’appartamento in quei giorni era abitato da un’informatrice della polizia e dal suo sedicente fidanzato che, solo negli anni Novanta, dopo lo scandalo dei fondi neri del Sisde, si sarebbe scoperto essere stato nel 1978 domiciliato in uno studio commercialista collegato a società immobiliari di copertura dei servizi situate nello stesso stabile e in via Gradoli.

L’espediente investigativo della seduta spiritica, a volte utilizzato dagli psicodetective angloamericani per nascondere le origini delle informazioni, sarebbe servito a coprire una fonte che, a rischio della sua stessa vita, stava segretamente collaborando con le autorità e che voleva, per ragioni politiche più che umanitarie, determinare il fallimento dell’operazione Moro, ma non l’arresto di Moretti e degli altri brigatisti, i quali restavano dei “compagni che sbagliano”.

Sempre il 18 aprile un comunicato apocrifo, realizzato da un abile falsario legato alla banda della Magliana e in rapporti con i servizi segreti italiani, di nome Antonio Chichiarelli, annunciava che il cadavere di Moro giaceva nei fondali del lago della Duchessa, in Abruzzo. Oggi, sulla scorta delle dichiarazioni rilasciate dal magistrato Claudio Vitalone, vicino ad Andreotti, nel processo per l’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli che vide entrambi imputati e poi assolti, sappiamo che le forze dell’antiterrorismo confezionarono il falso comunicato per ottenere una prova dell’esistenza in vita di Moro, necessaria al proseguimento della trattativa. Le Brigate rosse, per smentire il comunicato, vennero costrette a divulgare il 20 aprile una foto dell’ostaggio con una copia de La Repubblica del 19 aprile e indicarono in “Andreotti e i suoi complici” i veri autori del depistaggio, cogliendo dunque nel segno.

Il falso comunicato servì assai probabilmente anche ad accreditare presso il Vaticano la figura di Chichiarelli, l’autore, come intermediario segreto, affinché il riscatto raccolto dal papa non finisse nelle mani dei brigatisti a finanziare la lotta armata, bensì in quelle di un personaggio controllato dagli apparati dello Stato anche se legato alla criminalità comune. Il piano del governo e dell’antiterrorismo fallì perché il Vaticano dovette subodorare l’inganno e non consegnò il denaro. L’accaduto, però, indusse Paolo VI a rivolgere il 22 aprile un accorato appello “agli uomini delle Brigate rosse” affinché rilasciassero Moro “senza condizioni”. Evidentemente perché quelle fino ad allora pattuite si erano rivelate mendaci e fosse possibile così riallacciare i fili di una trattativa non con degli impostori, ma con quanti effettivamente detenevano il prigioniero.

Ogni sforzo del papa, capo di uno Stato estero impegnato in un duro quanto nascosto scontro con il governo italiano che mal tollerava quell’ingerenza umanitaria i cui effetti destabilizzanti avrebbero avuto sanguinose ricadute sulle forze dell’ordine e sui cittadini italiani, fu inutile, come rivelano le ultime struggenti lettere di Moro alla moglie Noretta: “Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo […]”; “Ora improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l’ordine di esecuzione”.

Incomprensibilmente. E già. Gli ultimi giorni di Moro rimangono oscuri non soltanto per le incongruità nelle versioni fornite dai sequestratori, ma anche perché l’ostaggio in diverse lettere e in una lunga parte del memoriale si mostrò certo di essere a un passo dalla liberazione tanto da spingersi a ringraziare i brigatisti per il loro atto di magnanimità (“io desidero dare atto che alla generosità delle Brigate Rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà”).

Rispetto alla versione ufficiale accertata in numerose inchieste giudiziarie (l’ultima è tuttora in corso mentre una nuova Commissione di inchiesta parlamentare ha indagato in questa legislatura) e in seguito ribadita in alcuni libri di memorie scritti dai brigatisti, la trepidazione dimostrata in quelle ore dagli ambienti della famiglia pontificia, da autorevoli ed esperti esponenti politici e dallo stesso prigioniero apparirebbe sul piano logico del tutto ingiustificata, ma evidentemente rinvia a un’altra dimensione della storia rimasta occulta.

Il fallimento del negoziato segreto ha contribuito ad alimentare un’area di opacità e di reciproco ricatto che ha condizionato i soggetti coinvolti nella vicenda: le linee della fermezza e della trattativa e quella della reticenza si sono paradossalmente rafforzate per sempre grazie alla scomparsa di Moro. Resta il fatto che il prigioniero è morto e che gli originali dei suoi scritti sono spariti: un epilogo sghembo e forse beffardo di una storia tragica nella sua asciutta ferocia, che ben presto, grazie alla penna di Leonardo Sciascia, si sarebbe trasformata nel cosiddetto Affaire Moro.

Il 9 maggio 1978 i sequestratori abbandonarono il cadavere di Moro nel cuore del centro storico di Roma, ai bordi del ghetto ebraico, a poche centinaia di metri dalla sede nazionale del Pci. Vale a dire in una delle zone più controllate al mondo dai servizi segreti al tempo della guerra fredda. L’operazione Moro vide la convergenza di interessi, a livello internazionale, tra il blocco orientale e quello occidentale e, a livello nazionale, tra un fronte reazionario (legato all’oltranzismo atlantico, alla destra anticomunista e ad ambienti massonici prossimi alla P2) e i gruppi rivoluzionari del “partito armato” intorno a una comune matrice sovversiva. Il principale obiettivo era continuare a destabilizzare l’Italia per stabilizzarla in senso centrista e moderato nell’ambito degli equilibri consolidati della guerra fredda stabiliti a Jalta che non potevano tollerare mutazioni di sorta. A causa della convergenza di queste forze, che pure agirono in modo autonomo l’una dall’altra, l’operazione Moro può essere considerata il punto più drammatico raggiunto dalla strategia della tensione in Italia.

Una settimana dopo la fine di Moro si votò per le elezioni amministrative in alcune città: la Dc aumentò i suoi voti, mentre il Pci, per la prima volta dal 1953 arretrò. Soltanto allora l’operazione Moro poté dirsi conclusa: l’Italia sarebbe sopravvissuta, senza però essere più la stessa. All’indomani della scomparsa dell’uomo politico, i suoi congiunti rilasciarono uno scarno comunicato: “La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità dello Stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica, o cerimonia o discorso, nessun lutto nazionale, né funerale di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”. Uno schiaffo a forma di epitaffio a suggello di una tragedia italiana che, quarant’anni dopo, non ha smesso di interrogare la coscienza politica e civile del nostro Paese.

postilla di eddyburg

Dopo anni di inchieste e ricerche ormai è chiaro che la regia del rapimento e assassinio di Aldo Moro sono stati orditi dalle forze, soprattutto negli Usa, che volevano interrompere il dialogo intessuto da tempo tra il mondo cattolico e il mondo comunista. A raggiungere questo accordo era finalizzata la proposta strategica di Enrico Berlinguer del “compromesso storico”, avanzata dal leader comunista quando l’assassinio di Salvator Allende, leader del Cile, fece comprendere che strade democratiche per superare il capitalismo a guida yankee erano impraticabili. Nella stessa linea di Berlinguer si collocava il tentativo tattico di Aldo Moro, tessitore di un accordo tra Dc e Pci perciò venne condannato e ucciso (e.s.)

Articolo tratto da “il Fatto Quotidiano” qui raggiungibile: Moro, il sequestro della Repubblica

One Response to 16 marzo 1978 – 16 marzo 2018

  1. […] Oggi, 16 marzo, è il quarantesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione degli uomini della sua scorta. Per ricordarlo si è fatto largo ricorso sui giornali e in TV a interviste ai brigatisti che compirono il crimine, i quali hanno rievocato fatti e ideologie del tempo, con abbondanza di particolari e con un certo distacco più da storici che da criminali. Così nelle due puntate di Atlantide di Andrea Purgatori si sono potuti ascoltare Mario Moretti, Valerio Morucci, Raffaele Fiore e, in un filmato fatto prima che morisse, il carceriere di Moro, Prospero Gallinari. Quello che ne risulta è il tragico infantilismo e l’incultura del modo in cui essi “pensarono” la rivoluzione. Sapevano dai cinesi, e lo dicono, che “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, ma allora ne fanno un gioco; un gioco con la vita degli altri di un cinismo e di un’ingenuità senza pari, un gioco assurdo giocato come se fosse serio: la rivoluzione come navicella che galleggia su un lago di sangue, la vita del giudice ucciso che è solo un granello irrilevante nel turbine, la folle idea che la rivoluzione non debba essere processata dallo Stato e ciò prima ancora che abbia vinto, nel momento stesso in cui cerca di abbatterlo, la presunzione che tutto si decida qui, che loro sono liberi da ogni controllo, che il mondo di cui l’Italia è parte non esiste, il delirio di pensare che nessuno li stesse usando, Moro che deve essere ucciso perché se no chi glielo dice ai compagni che non si è ottenuto niente? È mancata però nel contempo la contestazione della loro verità. Ci sono scaffali interi di libri, a cominciare da quelli di Sergio Flamigni, e c’è soprattutto il libro del fratello di Aldo Moro, il giudice Carlo, “Storia di un delitto annunciato” in cui è dimostrato irrefutabilmente che tutta la ricostruzione fornita dalle Brigate Rosse del sequestro, della detenzione e dell’assassinio di Moro è falsa. Le cose non sono affatto andate come ce le hanno raccontate nei diversi processi, come ancora ci dicono e come il sistema stesso ha voluto credere e farci credere fin qui. Non era nella realtà che si fosse a un anno zero della rivoluzione in Italia e che un gruppo di militanti armati potesse scatenarla da solo contro tutti i sindacati e i partiti storici della sinistra; è chiaro che c’erano altri protagonisti e altri moventi che cospiravano per una neutralizzazione politica di Moro, dalla segreteria di Stato americana, ai custodi tedeschi dell’atlantismo, agli italiani “decisi a sparare” pur di impedire l’accesso dei comunisti al governo, a cui le BR sono apparse come fortunato strumento sostitutivo per compiere ciò che altrimenti in altri modi avrebbe dovuto essere compiuto; una sorta di “sussidiarietà” per la quale non tanto contava chi e come provvedesse, ma che si ottenesse il risultato e nulla ne intralciasse la realizzazione. Perciò il delitto Moro è stato intriso nella menzogna: falso è stato che le lettere di Moro fossero a lui “non attribuibili”, perché dettate dalle Brigate Rosse; che con le BR non si potesse trattare, perché ciò ne avrebbe rappresentato il riconoscimento; che, una volta uccisi gli uomini della scorta, il caso Moro, caso politico per eccellenza, non dovesse considerarsi che come il “caso umanitario” di un qualunque cittadino sequestrato, sicché le BR lo dovessero rilasciare “senza alcuna condizione”; e che solo così lo Stato si sarebbe salvato. E in mezzo a tante false ragioni, private e di Stato, non a caso l’unico che si appella alla verità – la verità che salva e fa liberi – è proprio Moro, che in una lettera scritta dal carcere all’on. Misasi, ma non recapitata, scrive: “Quello che io chiedo al partito è uno sforzo di verità, perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, e io sarò comunque perdente”. E la verità era – scriverà poi a Zaccagnini – che la DC era “sempre là” con il suo “vecchio modo di essere e di fare”, e che era illusorio cambiare la situazione “con nuove alleanze” se non cambiava essa per prima, se non capiva “ciò che agita nel profondo la nostra società”, se non aveva la volontà di perseguire un proprio “disegno di giustizia, di eguaglianza, di indipendenza, di autentico servizio all’uomo”. E se non faceva questo, tanto meno poteva e voleva salvare Moro. Raniero La Valle ———————————- Approfondimenti su Aladinews […]

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