La verità che salva e fa liberi

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“Quello che io chiedo al partito è uno sforzo di verità, perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, e io sarò comunque perdente” (Aldo Moro)
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sferaUN ATOMO DI VERITÀ
di Raniero La Valle

Oggi, 16 marzo, è il quarantesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione degli uomini della sua scorta. Per ricordarlo si è fatto largo ricorso sui giornali e in TV a interviste ai brigatisti che compirono il crimine, i quali hanno rievocato fatti e ideologie del tempo, con abbondanza di particolari e con un certo distacco più da storici che da criminali. Così nelle due puntate di Atlantide di Andrea Purgatori si sono potuti ascoltare Mario Moretti, Valerio Morucci, Raffaele Fiore e, in un filmato fatto prima che morisse, il carceriere di Moro, Prospero Gallinari.
Quello che ne risulta è il tragico infantilismo e l’incultura del modo in cui essi “pensarono” la rivoluzione. Sapevano dai cinesi, e lo dicono, che “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, ma allora ne fanno un gioco; un gioco con la vita degli altri di un cinismo e di un’ingenuità senza pari, un gioco assurdo giocato come se fosse serio: la rivoluzione come navicella che galleggia su un lago di sangue, la vita del giudice ucciso che è solo un granello irrilevante nel turbine, la folle idea che la rivoluzione non debba essere processata dallo Stato e ciò prima ancora che abbia vinto, nel momento stesso in cui cerca di abbatterlo, la presunzione che tutto si decida qui, che loro sono liberi da ogni controllo, che il mondo di cui l’Italia è parte non esiste, il delirio di pensare che nessuno li stesse usando, Moro che deve essere ucciso perché se no chi glielo dice ai compagni che non si è ottenuto niente?
È mancata però nel contempo la contestazione della loro verità. Ci sono scaffali interi di libri, a cominciare da quelli di Sergio Flamigni, e c’è soprattutto il libro del fratello di Aldo Moro, il giudice Carlo, “Storia di un delitto annunciato” in cui è dimostrato irrefutabilmente che tutta la ricostruzione fornita dalle Brigate Rosse del sequestro, della detenzione e dell’assassinio di Moro è falsa. Le cose non sono affatto andate come ce le hanno raccontate nei diversi processi, come ancora ci dicono e come il sistema stesso ha voluto credere e farci credere fin qui. Non era nella realtà che si fosse a un anno zero della rivoluzione in Italia e che un gruppo di militanti armati potesse scatenarla da solo contro tutti i sindacati e i partiti storici della sinistra; è chiaro che c’erano altri protagonisti e altri moventi che cospiravano per una neutralizzazione politica di Moro, dalla segreteria di Stato americana, ai custodi tedeschi dell’atlantismo, agli italiani “decisi a sparare” pur di impedire l’accesso dei comunisti al governo, a cui le BR sono apparse come fortunato strumento sostitutivo per compiere ciò che altrimenti in altri modi avrebbe dovuto essere compiuto; una sorta di “sussidiarietà” per la quale non tanto contava chi e come provvedesse, ma che si ottenesse il risultato e nulla ne intralciasse la realizzazione. Perciò il delitto Moro è stato intriso nella menzogna: falso è stato che le lettere di Moro fossero a lui “non attribuibili”, perché dettate dalle Brigate Rosse; che con le BR non si potesse trattare, perché ciò ne avrebbe rappresentato il riconoscimento; che, una volta uccisi gli uomini della scorta, il caso Moro, caso politico per eccellenza, non dovesse considerarsi che come il “caso umanitario” di un qualunque cittadino sequestrato, sicché le BR lo dovessero rilasciare “senza alcuna condizione”; e che solo così lo Stato si sarebbe salvato. E in mezzo a tante false ragioni, private e di Stato, non a caso l’unico che si appella alla verità – la verità che salva e fa liberi – è proprio Moro, che in una lettera scritta dal carcere all’on. Misasi, ma non recapitata, scrive: “Quello che io chiedo al partito è uno sforzo di verità, perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, e io sarò comunque perdente”. E la verità era – scriverà poi a Zaccagnini – che la DC era “sempre là” con il suo “vecchio modo di essere e di fare”, e che era illusorio cambiare la situazione “con nuove alleanze” se non cambiava essa per prima, se non capiva “ciò che agita nel profondo la nostra società”, se non aveva la volontà di perseguire un proprio “disegno di giustizia, di eguaglianza, di indipendenza, di autentico servizio all’uomo”. E se non faceva questo, tanto meno poteva e voleva salvare Moro.
Raniero La Valle
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È stato quello il punto di svolta nella storia della Repubblica; per ricordarlo il sito chiesadituttichiesadeipoveri rinvia a un testo già pubblicato nel medesimo sito il 26 maggio scorso, “Ragion di Stato e uccisione dell’innocente”.
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RAGION DI STATO E UCCISIONE DELL’INNOCENTE
26 MAGGIO 2017 /

di Raniero La Valle

La violenza sacrificale è tra i mezzi ingiusti più usati dal potere per conservarsi ed accrescersi. Il caso Moro e le nuove esecuzioni a distanza: una nuova ragion di Stato a livello globale. Rovesciare tale ideologia oggi non è un’utopia, è una condizione di sopravvivenza

Raniero La Valle

In un seminario sulla “Ragion di Stato” alla Scuola Superiore di Catania il 17 maggio 2017 il prof. Maurizio Viroli, docente all’Università di Princeton, ha spiegato come il concetto di “ragion di Stato” sia stato introdotto da Guicciardini nel “Dialogo del reggimento di Firenze” nel 1521 per giustificare come nella battaglia tra Genova e Pisa i genovesi avessero fatto ricorso alla crudeltà e ucciso i prigionieri di guerra per debellare la forza politica dei pisani, come difatti avvenne. Secondo il linguaggio politico del tempo questo non sarebbe stato ammissibile, ma in base all’invenzione della nuova regola suprema degli interessi dello Stato, ciò diventava lecito. Tuttavia quel trattato sul governo di Firenze del Guicciardini non fu allora pubblicato, e toccò a Giovanni Botero, nel 1589, teorizzare la categoria della ragion di Stato, definendola così: “La ragion di Stato è notizia (conoscenza) di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare uno Stato”. Si parla di “mezzi”, senza specificazioni; non necessariamente deve trattarsi di mezzi legittimi o giusti, anzi spesso non lo sono, mentre lo Stato, in quel sistema di pensiero, era inteso come “dominio fermo sopra i popoli”, e poteva anche essere una tirannide.
Il concetto di “ragion di Stato” che di certo esisteva anche prima che fosse teorizzato nel Cinquecento (“salus Rei-publicae suprema lex”!) ha attraversato i secoli ed è giunto fino a noi, ed oggi è correntemente utilizzato per motivare tutte le imprese, anche le più perverse, della politica e degli Stati: solo il costituzionalismo, sul piano giuridico, e la misericordia, sul piano umano, ne possono costituire la critica e l’alternativa.
Secondo Maurizio Viroli oggi va rovesciata la logica della ragion di Stato, per tornare all’idea classica di politica intesa come ricerca del bene comune. Intervenendo alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del seminario di Catania, ho detto che questa del prof. Viroli non è una utopia, è una condizione di sopravvivenza. E, al di là della discussione teorica, ho citato alcuni casi in cui la ragion di Stato ha giocato e gioca un ruolo determinante nella politica contemporanea; e mi sono riferito al caso Moro di quarant’anni fa, e al caso delle uccisioni mirate mediante i droni che vengono praticate oggi.

Aldo Moro sacrificato alla ragion di Stato

Per quanto riguarda il caso Moro, fu quello il momento nel quale la questione della ragion di Stato si pose in modo drammatico in Italia davanti a tutto il Paese. E si pose in modo tale da rimettere in gioco la stessa identità della Repubblica, della DC che la governava e da determinare e condizionare quello che ne sarebbe stato il futuro. Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978, per cinquantacinque giorni fu oggetto di un conflitto ideologico sulla risposta politica da dare al suo rapimento, e divenne infine vittima sacrificale delle Brigate Rosse e della ragion di Stato, in nome della quale fu consegnato indifeso alla sua sorte.
Nello svilupparsi del dramma, furono messe in gioco alcune questioni cruciali.
1) La prima questione fu quella dell’identità della vittima, cioè dell’identità di Moro. Può sembrare strano, perché tutti sapevano chi era Moro, eppure in quei giorni proprio l’identità di Moro fu negata. Infatti perché trionfasse la ragion di Stato era necessario dire che Moro non era Moro.
In che cosa consisteva in quel caso la ragion di Stato, almeno quella confessata dai suoi assertori? Essa consisteva nel fatto che lo Stato non dovesse derogare dalle sue leggi scritte, che non dovesse fare eccezioni per Moro di cui si diceva che fosse un cittadino come gli altri, e che perciò non si dovesse trattare con i brigatisti, essendo interesse supremo dello Stato non riconoscere i brigatisti come interlocutori politici e invece trattarli come delinquenti comuni. Era la cosiddetta linea della fermezza, adottata dal governo Andreotti e dai partiti, che tenne banco per tutti i cinquantacinque giorni, debolmente messa in questione poi dal solo partito socialista.
Era chiarissimo, agli stessi protagonisti di allora, quale fosse il prezzo di questa linea intransigente. Lo dimostra una lettera di Francesco Cossiga, che era il ministro degli interni del tempo, pubblicata vent’anni dopo l’omicidio.
Ne fu occasione una solenne commemorazione di Aldo Moro tenutasi il 9 maggio 1998 nell’aula di Montecitorio, alla presenza del presidente della Repubblica, Scalfaro. Cossiga non ci andò, e ne spiegò le ragioni in una tragica lettera pubblicata il 12 maggio successivo sul quotidiano la Repubblica. Essa proclamava una verità che mai era stata ammessa con tanta franchezza dai responsabili del tempo: e cioè che la linea della fermezza avrebbe inevitabilmente portato all’uccisione di Aldo Moro; che lui stesso, Cossiga, aveva fatto quella scelta ben comprendendo che le BR non avrebbero potuto rispondere a quella “resistenza dello Stato” che giungendo “al tragico epilogo dell’esecuzione della sentenza”; che egli era consapevole – “drammaticamente” sapeva – che la sua scelta “anche in quanto ministro dell’Interno, responsabile delle forze dell’ordine, polizia e carabinieri sanguinosamente colpite al momento del rapimento”, aveva “concorso sul piano dei fatti alla morte di Aldo Moro” (lasciando al giudizio di Dio – aggiungeva Cossiga – “se fu responsabilità solo di fatto, oppure politica o financo morale”); che ciò fu il frutto di una “fatalità inesorabile” consistente nel “dover scegliere brutalmente tra lo Stato inteso come il portatore degli interessi generali e fondamentali della comunità e la vita di un uomo innocente”; e che perciò, “per aver concorso a determinare una situazione che ha portato all’uccisione di Aldo Moro”, egli aveva “ritenuto coerente non partecipare, specie di fronte al reiterato dolore della Famiglia, a così solenne celebrazione”.
Questa verità diceva due cose: prima di tutto che per salvare Moro non esisteva che una soluzione politica, e che non c’erano alternative umanitarie, tanto sbandierate quanto utili solo a fare scena, e in secondo luogo che fu fatta consapevolmente una scelta tra un interesse collettivo, come Cossiga chiamava la ragion di Stato, e la vita di un uomo innocente.
Noi sappiamo da duemila anni in che cosa consiste questo scambio tra un supposto interesse collettivo e la vita di un innocente, lo sappiamo da quando Caifa ha detto a proposito di Gesù: “E’ meglio che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca la nazione intera”. Si tratta di una vittima e di un sacrificio.
Ora perché questo sacrificio offerto alla ragion di Stato potesse compiersi era necessario o che la vittima lo accettasse, oppure che ne venisse spenta la voce. Ma Moro non ci sta, non accetta la logica spietata della ragion di Stato e non accetta il sacrificio. E nelle sue lettere dal carcere al segretario della DC Zaccagnini e a molti altri protagonisti respinge il dogma della ragion di Stato e lo fa non perché lui ne sarebbe stato la vittima, ma perché questa era stata sempre la sua dottrina politica, la sua ermeneutica giuridica e tale era anche la prassi di altri Paesi come la Germania, che in analoghe circostanze avevano avuto un’attitudine più flessibile e umana.

Negata l’identità della vittima

Il sistema politico italiano, di cui la DC era il centro, non poteva reggere un dissenso con Moro prigioniero e perciò scelse la strada della negazione, dicendo che Moro nelle mani dei brigatisti non era più Moro, e che le sue lettere, scritte di suo pugno, non erano ascrivibili a lui.
Perciò a Moro fu tolta la parola, dal suo stesso partito, e con la parola l’agibilità politica. Il principale protagonista della politica italiana fu espropriato della sua credibilità e disconosciuto dalla DC e dai maggiori mezzi d’opinione.
Già alla prima lettera dal carcere, prima di ogni possibile verifica, veniva operato questo sdoppiamento; da quel momento cessava il problema politico del presidente della DC in mano alle BR, cioè del rovesciamento che per tale via si stava imponendo alla politica italiana ai fini di un secco ritorno all’anticomunismo, e nasceva il problema psicoanalitico di un falso Moro che era sotto sequestro, che era un uomo come gli altri, che rientrava nella norma comune, e a cui il massimo di risposta da dare era una risposta di tipo umanitario, senza l’assunzione di alcuna responsabilità politica che non fosse quella del rifiuto di ogni trattativa e della ricerca sbadata del covo in cui era tenuto nascosto. In questo sdoppiamento ed esproprio della personalità di Moro, la DC attuava in modo rovesciato la parola evangelica che dice: non temete quelli che possono prendere il vostro corpo, ma non possono possedere la vostra anima. La DC lasciava il corpo ai carcerieri, e ne sequestrava l’anima, decideva lei che cosa fosse, come dovesse essere, come dovesse parlare il vero Moro, cioè la sua anima. E siccome questa finzione non poteva durare troppo a lungo man mano che si succedevano le lettere di Moro e il disconoscimento della sua identità appariva non più a lungo credibile finché venisse fatto da un corpo politico che come tale non sa nulla dell’anima, ecco che alla fine, su consiglio di un esperto americano, consigliere di Cossiga, Pieczenik, vennero fatti scendere in campo gli amici di Moro, quelli che venivano dalla sua stessa esperienza della FUCI e dei Laureati cattolici, che scriveranno il 26 aprile che “Aldo Moro non è presente nelle lettere scritte a Zaccagnini”. Ciò a cui Moro replicò scrivendo il 27 aprile: “Devo dire che mi ha profondamente rattristato (non avrei creduto possibile) il fatto che alcuni amici da Mons. Zama, all’avv. Veronese, a G.B. Scaglia ed altri, senza né conoscere né immaginare la mia sofferenza, non disgiunta da lucidità e libertà di spirito, abbiano dubitato dell’autenticità di quello che andavo sostenendo, come se io scrivessi su dettatura delle Brigate Rosse”.

La verità e il potere

2) Questo infatti non era vero. E la verità è la seconda grande questione messa in gioco nel sequestro.
Moro pose esplicitamente la questione della verità in una lettera all’on. Misasi, e attraverso di lui all’intero partito. “Quello che io chiedo al partito – scrive Moro a Misasi – è uno sforzo di riflessione in spirito di verità, perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altro un atomo di verità, e io sarò comunque perdente. Lo so che le elezioni pesano in relazione alla limpidità e obiettività dei giudizi che il politico è chiamato a formulare. Ma la verità è la verità”.
Qui Moro pone un problema cruciale, che è il rapporto tra il potere e la verità. Il potere e la verità sono eterogenei l’uno all’altra, la verità critica il potere, e il potere molto spesso è incompatibile con la verità.
Le lettere di Moro erano veramente sue. Quando era ormai troppo tardi questa verità venne riconosciuta, e ora si annunzia che esse verranno pubblicate nell’Edizione Nazionale delle opere di Aldo Moro istituita per decreto del Ministero dei beni culturali. Si tratta di una riparazione, di una restituzione: lo Stato che aveva tolto a Moro la sua identità e la sua parola, ora gliele restituisce, perché almeno ne resti integra la memoria.

Il sacrificio prezzo della ragion di Stato

3) L’operazione per la quale in nome degli interessi generali della collettività si tradisce e si occulta la verità, è l’operazione tipica della ragion di Stato. Ragione contro verità. Essa per affermarsi ha bisogno della violenza; ma questa violenza non può essere confessata, e viene pertanto mascherata e sublimata nelle forme del sacrificio; la violenza sacrificale è per l’appunto tra i mezzi giudicati più “atti a fondare, conservare e ampliare uno Stato”. Il sacrificio è dunque la terza grande questione messa in gioco nel delitto Moro.
Il sacrificio consiste nel concentrare la violenza su una vittima, che può essere una persona, ma anche una collettività, una classe sociale, un popolo, perché tutti gli altri ne abbiano un bene.
Il potere funziona così. Le guerre sono così, sono tutte giustificate come sacrificio. Il sistema economico vigente, specie dopo la vittoria del neoliberismo, funziona così: perché pochi si arricchiscano occorre che molti si impoveriscano; i profughi lasciati affogare nel Mediterraneo davanti alle frontiere chiuse dell’Europa, sono l’offerta sacrificale ai bilanci in pareggio, alla privatizzazione dell’economia, ai benefici già goduti dagli abitanti dell’Unione.
La tragedia è che il sacrificio non funziona, non realizza ciò che promette. Non funzionò il sacrificio di Moro, nel quale la razionalità politica di un potere che cercava in tal modo di difendere e conservare immutato se stesso, aveva cercato di nascondere il rifiuto a cercare una soluzione politica della crisi, Anzi i partiti che lo decretarono, la DC e il PCI, ne furono travolti, oggi nemmeno esistono più, e la Repubblica invece di salvarsi entrò in una crisi profonda, da cui non siamo ancora usciti. Il papa Paolo VI addirittura ne morì.
La grandezza di Moro fu di opporsi a questa logica. Con il coraggio della verità, Moro con le sue lettere rompe il meccanismo sacrificale non accettando di essere vittima, offre delle alternative politiche al sacrificio. Questo fu il vero conflitto. Quello che venne attribuito alla sua debolezza, al desiderio di salvare la sua vita, fu invece in Moro un grande atto politico e pubblico, la protesta e il grido contro tutte le violenze che nella storia si sono mascherate e si mascherano dietro la pretesa salvifica del sacrificio. Moro protesta la sua innocenza ma non vuole che della sua innocenza si faccia un trofeo religioso, il mito del democristiano caduto, l’emblema della dedizione, fino al sacrificio, allo Stato e al partito. Per questo non volle le autorità ai suoi funerali. Dalla sua innocenza egli fece appello invece alla laicità del diritto, a Cesare Beccaria, alla oggettività delle garanzie, alla stessa Costituzione, in ciò pienamente moderno, in ciò pienamente cristiano.

Il sacrificio in versione moderna

Il cristianesimo di papa Francesco, con il suo annuncio della misericordia, sta uscendo dall’ideologia religiosa del sacrificio. Esso però continua a dominare nella cultura della modernità. Perciò nel discorso alla Scuola Superiore di Catania mi sono riferito a un secondo caso, tutto moderno, di sacrificio alla ragion di Stato, e a una ragion di Stato che ormai non è circoscritta nello spazio di una nazione, ma è una ragion di Stato di dimensione globale: il caso della guerra moderna e delle uccisioni a distanza con i droni. C’è un film inglese di un regista sudafricano (Gavin Hood), “Il diritto di uccidere”, in cui il tema del sacrificio viene riconosciuto e declinato in termini moderni. Si tratta delle nuove modalità di violenza che sono rese possibili dalle attuali tecnologie, e in particolare della guerra che viene condotta con i droni e delle uccisioni che vengono perpetrate da grandissima distanza. Il film racconta di un’operazione militare inglese, condotta dal Nevada, che coinvolge politica, diritto e Stati maggiori d’America e d’Inghilterra, operazione che consiste nell’uccidere a Nairobi con due missili lanciati da un aereo senza pilota quattro terroristi che in una casa stanno indossando i giubbotti esplosivi per andare a fare altrettanti attentati terroristici. Il problema è che davanti alla casa che dovrà essere distrutta c’è una bambina keniota che vende il pane. Un caso da manuale: quale ragion di Stato più forte che uccidere quattro terroristi che stanno per compiere chissà quali stragi? Ma c’è la bambina che non c’entra niente. C’è l’innocente. Che fare? Procedere con l’operazione o fermarla?
Ci si consulta in tempo reale attraverso mezzo mondo, entra in campo una ragion di Stato a livello mondiale: sono coinvolte cancellerie, sale operative, primi ministri, segretari di Stato, consulenti giuridici e procuratori, perché sia chiaro che a decidere non è una persona sola, magari un colonnello spietato, ma a decidere è tutta la catena di comando, è tutto il sistema, è il sistema mondo, o almeno è il sistema Occidente. E la decisione è per il sacrificio: è bene che la bambina innocente muoia perché il mondo sia salvato.
Messe così le cose è probabile che la maggior parte delle persone sia d’accordo, perché in quella ragion di Stato c’è implicita l’idea di un male minore, e perché che cosa si vuole di più dall’etica dell’Occidente, dalla sua nobiltà d’animo, dalla sua gloria? Prima di uccidere quattro terroristi assassini si è perfino preoccupato che di mezzo ci fosse una bambina di colore, si è chiesto se quel “danno collaterale” fosse più o meno accettabile.
Il problema è che non è affatto vero che così si salvava il mondo, come sempre si sbaglia quando si fa ricorso alla logica del sacrificio, cioè alla violenza esercitata contro gli uni perché gli altri si salvino. Così ha fallito il nazismo con la guerra e con la shoà, ha fallito il fascismo con l’aggressione alla Francia e con lo “spezzeremo le reni alla Grecia”, ha fallito l’America con il Vietnam, ha fallito con le guerre contro l’Iraq, con l’Afghanistan, con la guerra perpetua di Bush agli “Stati canaglia” e al terrorismo; questo è il fallimento di tutte le guerre, di tutte le uccisioni, da Saddam Hussein, a Gheddafi, a Moro.
Il sacrificio non salva, aggiunge violenza a violenza e dunque non è un calmiere della violenza, come si pretende che sia, ne è il moltiplicatore, non procura il bene attraverso l’irrogazione del male.
Nel caso sollevato dal film a nessuno è venuto in mente che il vero modo per scongiurare la violenza dei terroristi non era ucciderli insieme agli innocenti, ma era togliere di mezzo le ragioni per cui essi indossavano le cinture esplosive, togliere le ragioni della loro violenza, cioè agire sulle cause che sono all’origine dell’ingiustizia e dell’odio; certo non lo potevano fare i militari che premevano da diecimila chilometri di distanza il bottone dei missili, ma potevano decidere di farlo la politica, il diritto, le cancellerie, lo poteva fare il sistema. È il sistema mondo che deve cambiare, che deve rovesciare la logica del sacrificio e la sua origine nella ragion di Stato. La vera ragion di Stato non consiste nel fatto che uno muoia per tutto il popolo, ma nel fatto che tutto il popolo, e tutti i popoli siano salvati, cioè che la politica e il diritto tornino ad avere come scopo e criterio supremo il bene comune, cioè il bene di tutti, dell’umanità di questo unico mondo, a cominciare dai poveri, dai deboli, dai profughi, dagli esclusi, così che nessun innocente debba più morire perché gli altri trionfino. Nei confronti della ragion di Stato non deve cambiare solo la risposta, cambia la domanda.
Raniero La Valle

One Response to La verità che salva e fa liberi

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