Con Lula per il popolo del Brasile

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lula_smallLa colpa di Lula? Aver reso possibile un altro mondo

di Luciana Castellina

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il manifesto, 8 aprile 2018, ripreso da eddyburg e da aladinews. Tentano di eliminarlo in via giudiziaria, poiché è troppo forte nel popolo di sfruttati per fare come fecero per Salvador Allende. In Sudamerica una sinistra c’è, e fa paura ai potenti. Qui da noi, invece…

«Brasile. Solo la popolarità dell’ex presidente spiega la ragione di un accanimento giudiziario che non ha precedenti e ha portato a un processo impensabile in qualsiasi paese democratico»

Telefonano accorati gli amici brasiliani in Italia, prime fra tutti le compagne-suore che dovettero scappare dal loro paese quarant’anni fa perché avevano aiutato Lelio Basso a preparare il processo del Tribunale internazionale dei popoli che denunciò fra i primi l’orrore della dittatura brasiliana (e da allora sono il pilastro della Fondazione); inviano messaggi rabbiosi da Rio gli amici del Forum mondiale di Porto Alegre, da San Paolo i compagni del Pt. Il più bello da Belo Horizonte, del cantastorie Erton Gustavo Prado: «Fine corsa per lei, ex presidente alejado (dalle dita amputate), non è a causa dei tre appartamenti che lei sarà condannato. È a causa della sua audacia nell’aiutare i ragazzi a diventare avvocati, nel contribuire all’ascensione del nero della favela che oggi crede di poter studiare medicina, uscire dalla miseria e perfino di conoscere la Cappella Sistina. Fine corsa per lei ex presidente stupido: lei viene condannato non per aver rubato, perché questo non è stato provato. Il suo sbaglio è stato essere storia e fare storia sulla dimensione del Brasile – l’80 % di approvazione popolare – per aver creduto nell’uguaglianza, per aver saputo governare. Fine corsa per lei ex presidente».

Da Buenos Aires chiama Adolfo Perez Esquivel, che fu per anni presidente della Lega internazionale per i diritti dei popoli, il braccio politico della Fondazione Basso (e io ho avuto l’onore di essergli vice) chiedendo sostegno alla raccolta di firme per ottenere che a Lula sia conferito – come avvenne per Martin Luther King – il Nobel per la pace.

Non sempre si scrive accorati su una questione drammatica avendo anche uno stretto rapporto d’amicizia con chi ne è protagonista. È quello che ora accade a me, ma anche a molti di noi qui in Italia: perché il presidente Lula l’abbiamo conosciuto quando era dirigente dei metalmeccanici, poi segretario del Partito dei lavoratori, a San Paolo ma anche, tante volte, qui in Europa, nei tanti momenti di impegno comune nella lotta per liberare l’America Latina dall’oppressione e dalle dittature. Poi, finalmente, quando è diventato il simbolo della grande speranza di riscatto, la prova «che un altro mondo è possibile».

Non credo abbia precedenti quanto sta accadendo in queste ore in Brasile: un presidente condannato a più di 12 anni di prigione che una folla immensa di lavoratori e di poveri tenta disperatamente di difendere dall’arresto, in vista di un’elezione a capo dello stato in cui resta di gran lunga il più favorito. Proprio la popolarità di Lula spiega la ragione di un accanimento giudiziario che non ha precedenti e ha portato a un processo impensabile in qualsiasi paese democratico. (Luigi Ferrajoli ne ha dettagliatamente illustrato ieri su questo giornale [il manifesto] gli abusi). L’obiettivo, spudoratamente dichiarato era quello di impedirgli di partecipare alle elezioni, di eliminarlo come concorrente per via giudiziaria. E subito i militari, il corpo minaccioso di tutti i golpe dell’America latina, hanno fatto sentire la propria voce in favore di questo nuovo espediente per riportare la “normalità”: un governo che torni a favorire i ricchi, ponendo fine allo “scandalo” di un governo che tenta – e nel caso di Lula con notevole successo – di aiutare i più diseredati a uscire dalla miseria.

Il caso di Lula non è il solo. Anche la presidente Dilma Roussef è stata liquidata allo stesso modo. E in Argentina si sta imboccando la stessa strada. Difficile a chi si oppone denunciare: nel solo 2017 sono stati ammazzati nel subcontinente 42 giornalisti scomodi.

C’è però da restare sgomenti anche di fronte al modo con cui la vicenda di Lula viene raccontata dai nostri media: o in piccoli trafiletti, o, chi alla questione dedica più spazio, senza mai far cenno a come si è realmente svolto il processo. Nessuno ha detto bugie, per carità, ma le omissioni sono equivalenti.

Tocca a tutti noi mobilitarsi per non lasciare solo chi si batte per impedire l’ennesima controffensiva che cerca di spegnere la speranza. E nell’ultimo decennio l’America Latina è stata una grande speranza.

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200px-lula_-_foto_oficial05012007Un’aggressione giudiziaria alla democrazia brasiliana
Lula. Siamo di fronte a quello che Cesare Beccaria, in «Dei delitti e delle pene», chiamò «processo offensivo» dove «il giudice», anziché «indifferente ricercatore del vero», «diviene nemico del reo»
di Luigi Ferrajoli su il manifesto (7/4/2018)

Il 4 aprile è stata una giornata nera per la democrazia brasiliana. Con un solo voto di maggioranza, il Supremo Tribunal Federal ha deciso l’arresto di Inacio Lula nel corso di un processo disseminato di violazioni delle garanzie processali. Ma non sono solo i diritti del cittadino Lula che sono state violati.

L’intera vicenda giudiziaria e le innumerevoli lesioni dei principi del corretto processo di cui Lula è stato vittima, unitamente all’impeachment assolutamente infondato sul piano costituzionale che ha destituito la presidente Dilma Rousseff, non sono spiegabili se non con la finalità politica di porre fine al processo riformatore che è stato realizzato in Brasile negli anni delle loro presidenze. E che ha portato fuori della miseria 50 milioni di brasiliani. L’intero assetto costituzionale è stato così aggredito dalla suprema giurisdizione brasiliana, che quell’assetto aveva invece il compito di difendere.

Il senso non giudiziario ma politico di tutta questa vicenda è rivelato dalla totale mancanza di imparzialità dei magistrati che hanno promosso e celebrato il processo contro Lula. Certamente questa partigianeria è stata favorita da un singolare e incredibile tratto inquisitorio del processo penale brasiliano: la mancata distinzione e separazione tra giudice e accusa, e perciò la figura del giudice inquisitore, che istruisce il processo, emette mandati e poi pronuncia la condanna di primo grado: nel caso Lula la condanna pronunciata il 12 luglio 2017 dal giudice Sergio Moro a 9 anni e 6 mesi di reclusione e l’interdizione dai pubblici uffici per 19 anni, aggravata in appello con la condanna a 12 anni e un mese. Ma questo assurdo impianto, istituzionalmente inquisitorio, non è bastato a contenere lo zelo e l’arbitrio dei giudici. Segnalerò tre aspetti di questo arbitrio partigiano.

Il primo aspetto è la campagna di stampa orchestrata fin dall’inizio del processo contro Lula e alimentata dal protagonismo del giudice di primo grado, il quale ha diffuso atti coperti dal segreto istruttorio e ha rilasciato interviste nelle quali si è pronunciato, prima del giudizio, contro il suo imputato, alla ricerca di un’impropria legittimazione: non la soggezione alla legge, ma il consenso popolare.

L’anticipazione del giudizio ha inquinato anche l’appello. Il 6 agosto dell’anno scorso, in un’intervista al giornale Estado de Sao Paulo, il Presidente del Tribunale Regionale Superiore della 4^ regione (TRF-4) di fronte al quale la sentenza di primo grado era stata impugnata ha dichiarato, prima del giudizio, che tale sentenza era «tecnicamente irreprensibile».

Simili anticipazioni di giudizio, secondo i codici di procedura di tutti i paesi civili, sono motivi ovvi e indiscutibili di astensione o di ricusazione, dato che segnalano un’ostilità e un pregiudizio incompatibili con la giurisdizione. Siamo qui di fronte a quello che Cesare Beccaria, in Dei delitti e delle pene, chiamò «processo offensivo», dove «il giudice», anziché «indifferente ricercatore del vero», «diviene nemico del reo», e «non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia e crede di perdere se non vi riesce».

Il secondo aspetto della parzialità dei giudici e, insieme, il tratto tipicamente inquisitorio di questo processo consistono nella petizione di principio, in forza della quale l’ipotesi accusatoria da provare, che dovrebbe essere la conclusione di un’argomentazione induttiva suffragata da prove e non smentita da controprove, forma invece la premessa di un procedimento deduttivo che assume come vere solo le prove che la confermano e come false quelle che la contraddicono.

Di qui l’andamento tautologico del ragionamento probatorio, nel quale la tesi accusatoria funziona da criterio di orientamento delle indagini, da filtro selettivo della credibilità delle prove e da chiave interpretati va dell’intero materia le processuale. I giornali brasiliano hanno riferito, per esempio, che l’ex ministro Antonio Pallocci, in stato di custodia preventiva, aveva tentato nel maggio scorso una «confessione premiata» per ottenere la liberazione, ma la sua richiesta era stata respinta perché egli non aveva formulato nessuna accusa contro Lula e la Rousseff ma solo contro il sistema bancario.

Ebbene, questo stesso imputato, il 6 settembre, di fronte ai procuratori, ha fornito la versione gradita dall’accusa per ottenere la libertà. Totalmente ignorata è stata al contrario la deposizione di Emilio Olbrecht, che il 12 giugno aveva dichiarato al giudice Moro di non aver mai donato alcun immobile all’Istituto Lula, secondo quanto invece ipotizzato nell’accusa di corruzione.

Il terzo aspetto della mancanza di imparzialità è costituito dal fatto che i giudici hanno affrettato i tempi del processo per giungere quanto prima alla condanna definitiva e così, in base alla legge «Ficha limpia», impedire a Lula, che è ancora la figura più popolare del Brasile, di candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo ottobre. Anche questa è una pesante interferenza della giurisdizione nella sfera della politica, che mina alla radice la credibilità della giurisdizione.

E’ infine innegabile il nesso che lega gli attacchi ai due presidenti artefici dello straordinario progresso sociale ed economico del Brasile – l’infondatezza giuridica della destituzione di Dilma Rousseff e la campagna giudiziaria contro Lula – e che fa della loro convergenza un’unica operazione di restaurazione antidemocratica. E’ un’operazione alla quale i militari hanno dato in questi giorni un minaccioso appoggio e che sta spaccando il paese, come una ferita difficilmente rimarginabile.

L’indignazione popolare si è espressa e continuerà ad esprimersi in manifestazioni di massa. Ci sarà ancora un ultimo passaggio giudiziario, davanti al Superior Tribunal de Justicia, prima dell’esecuzione dell’incarcerazione. Ma è difficile, a questo punto, essere ottimisti.

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