«La differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza». Comunità di San Rocco: Riflessioni guidate.

zac-s-roccoLA SOFFERENZA E DIO. San Rocco, domenica 10 giugno 2018.
Margherita Zaccagnini.

Vi sarete chiesti: Chi è questa incosciente temeraria che osa affrontare, solo toccare, un argomento simile? Su cui l’umanità si interroga da millenni, per millenni.
La cosa bella è che ho chiesto aiuto a Giovanna per un aspetto pratico: il mio braccio si rifiuta di scrivere al computer o anche a mano per un certo tempo. E lei mi ha dato una dritta formidabile. Anzi tre. “Puoi dividere l’argomento in tre parti:
• La responsabilità del male
• Il discernimento tra bene e male
• L’elaborazione della sofferenza e la nostra risposta.
[segue]
Anzitutto, perché ci interroghiamo sulla sofferenza, il male, il dolore, molto più che sulla felicità? (Giovanna mi ha consigliato un libro di Salvatore Natoli, La felicità, Saggio di teoria degli affetti, Feltrinelli, 1994, che avevamo incominciato a leggere a suo tempo…) Penso che tutti ricorderemo quell’inizio del bellissimo romanzo di Tolstoj, Anna Karenina: “Le famiglie felici si somigliano tutte, le famiglie infelici lo sono ognuna a modo suo”. Forse è proprio per questo che ci interroghiamo meno sulla felicità e ci interroghiamo invece sulla sofferenza, sul dolore, sul male.
IL motivo per cui questa incosciente ha proposto un argomento simile è che avevo letto un articolo sulla rivista Concilium, 3, 2016 intitolata proprio così: La sofferenza e Dio, dove c’è un articolo di André Torres Queiruga, Ripensare la teodicea: il dilemma di Epicuro e il mito del mondo-senza-male. Che mi era sembrato meraviglioso, che desse una risposta determinante, conclusiva. In breve: è un’illusione, un errore di prospettiva pensare che possa esistere un mondo senza il male. Sarebbe come pretendere che esista un triangolo quadrato. Mi è sembrata una risposta perfetta.
Poi, quando sono andata a riprenderlo, mi sono spaventata: aiuto, troppo filosofico, troppo difficile, tremendo.
L’ho messo da parte. Però utilizzo l’editoriale della rivista p.12 che usa tre parole diverse che però non sono sinonimi sottolineando l’importanza della questione semantica. “La distinzione o piuttosto la relazione radicale tra sofferenza, dolore, male o tra le diverse dimensioni della sofferenza in termini di profondità ed estensione, tutto ciò dimostra quello che gli autori confessano, questa volta in modo unanime: con la nostra razionalità, i nostri progetti e sforzi noi non dominiamo la sofferenza.” Questo mi sembra interessante: la sola razionalità non è una risposta. Ho poi trovato anche un altro numero di Concilium, 1, 2009 intitolato Il male oggi e le lotte per essere umani, per chi volesse leggerselo.
Mi frullavano in testa tante cose, tante domande, tante parole.
Per incominciare, tre parole: male, dolore, sofferenza. Parole diverse che in parte si sovrappongono, in parte si differenziano. In prima istanza la distinzione più utile mi sembra quella di Paul RICOEUR, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, 1993:
• il male commesso (= peccato, male morale, quello compiuto volontariamente)
• il male sofferto (= subìto)
Senza dimenticare Il male personale=dovuto ai nostri limiti, alla nostra creaturalità, al nostro essere creature (ontologico). Il male come mancanza di bene, secondo s. Agostino (354-430 d.C.)
E poi la sofferenza, che nasce, può essere un’ipotesi, dalla risposta che noi diamo al dolore. Lo vedremo alla fine.
Andando al sodo, Ricoeur osserva che la domanda fondamentale che ci poniamo non è tanto perché, quanto perché io?
E poi ancora: perché tanta sofferenza in eccesso rispetto alla capacità di sopportazione dei mortali?
L’umanità su questo si è interrogata da millenni.
Nella cultura greca, il dilemma di Epicuro (347-270 a.C.): se gli dei possono togliere il male e non vogliono, sono cattivi; se vogliono eliminarlo ma non possono, sono impotenti; se non vogliono e non possono sono cattivi e impotenti; se vogliono e possono, e non lo tolgono??? Anche peggio….
Gli stoici cercano di “giustificare” una divinità che permette il male. Seneca (I d.C.): come il fuoco nel crogiuolo prova la qualità dell’oro, così la sofferenza prova la virtù e rende migliore chi è già disposto al bene (Lilia Sebastiani, Rocca, 15.9.2016). Anche per Agostino il male è una prova, un’occasione di crescita, e prova la fiducia dell’uomo in Dio. E Severino Boezio (475-524 d.C. V-VI sec) “Si deus unde malum?”.
E poi questa parola che mi era così ostica la TEODICEA di Leibnitz (sec XVIII): chieder conto a Dio del male nel mondo e, interrogandosi sulla sua GIUSTIZIA, cercare di giustificarlo (Risposta: Dio non può creare un altro Dio. Quindi questo è il migliore dei mondi possibili!!!).
E Kant, con la sua Critica della ragion pratica, per cui dobbiamo chiederci, non tanto unde malum, donde viene il male, piuttosto donde viene che noi lo facciamo?
E Hegel: è necessario che qualcosa muoia perché qualcosa di più grande nasca.
E ancora Karl Barth, “la mano sinistra di Dio”. Chi fosse interessato può leggersi Ricoeur. Insomma una bolgia. Ho perciò deciso di seguire i saggi consigli di Giovanna e toccherò questi tre punti, anzi solo due.
• LA RESPONSABILITA’ DEL MALE

Vorrei partire da una provocazione di Umberto Galimberti, filosofo, nella sua rubrica su Donna (Repubblica), 22 luglio 2006, Dio e il male necessario. Quando l’ho letta sono saltata sulla sedia…

Galimberti contrappone alla concezione degli antichi Greci la concezione del cristianesimo. Per i Greci il male e il dolore erano tratti costitutivi della condizione umana. Di qui il destino tragico dell’umanità (non per nulla l’uomo si chiamava ‘mortale’). Per il cristianesimo il male non può essere attribuito a Dio ma a Satana, l’avversario, alle cui tentazioni l’uomo può cedere, essendo libero di ubbidire ai comandamenti di Dio o di violarli.
Scrive: “Ciò di cui l’uomo va fiero, la sua libertà, in cui scorge la sua differenza dall’animale, è anche il fondamento del male e del dolore, che dunque non dipendono da Dio ma dal libero arbitrio umano. Solo accedendo a questa visione del mondo possiamo capire le parole altrimenti terribili, quando non incomprensibili che sentiamo pronunciare in occasione dei funerali. Parole che sfidano il dolore, che oltrepassano l’umano sentire e che, ben ascoltate, finiscono per imputare non solo il dolore, non solo la malattia, non solo l’controllabile tragedia, ma persino la morte all’umana colpevolezza, che prende avvio dal giorno stesso della nascita, se è vero che occorre un rito purificatore (il battesimo) per accedere all’innocenza. Pur di salvare la bontà di dio, il cristianesimo non esita ad aggiungere al dolore umano anche il peso della colpa. Per questo ho sempre dubitato che il cristianesimo sia la religione dell’amore. Dell’amore dell’uomo tanto proclamato, ma teologicamente smentito”. Questa concezione che attribuisce il male al nostro peccato mi sembra molto diffusa. Perciò parto da questa per metterla in discussione (lo vedremo dopo).

Simile però, nella conclusione, è il punto di vista del pensiero ebraico: Susanna Nirenstein (La Repubblica 20.12.2016) nella sua recensione al libro di Moshe Idel, studioso di mistica ebraica, intitolato: Il male primordiale nella Qabbalah, dice: “I maestri rabbinici sottolineavano la compresenza di male e bene, e infine l’azione divina che estrae la luce, come se le tenebre, assumendo un ruolo positivo, la contenessero, la salvaguardassero. Prima dunque le tenebre, e dalla rottura della loro scorza, accettando la presenza della negatività necessaria, il frutto succoso della luce, che altrimenti si sarebbe dispersa. Quelle tenebre sono il male primordiale, il primo male. Il male prima del bene, così come poi ci sarà Caino prima di Abele e Ismaele prima di Isacco”. Questa la sua conclusione: “Una concezione diversa da quella cristiana, che vede il male come scaturito successivamente, perché se ammettesse che è compresente, vorrebbe dire che Dio è anche male, mentre la cristianità lo concepisce come bene assoluto.”

Nella concezione cristiana Dio è bene assoluto: questa è la convinzione più diffusa. Sia tra i non credenti, sia tra gli ebrei, sia tra i cristiani.

Faccio un passo indietro e torno a Galimberti. Però, la convinzione che il male, la sofferenza, derivino dalla colpa dell’uomo è molto più antica del cristianesimo e si ripropone peraltro sino ai giorni nostri.
Ce lo ricorda Vito Mancuso (La Repubblica 20.2.2016) citando una tavoletta cuneiforme dell’antica Babilonia (4000 anni fa) in cui un padre che riceve tra le braccia il figlio appena nato per dargli il nome, dopo averne osservato il corpo, lo chiama:”Mina-arni” che significa “Qual è il mio peccato?” (malattia genetica).
È presente anche nel libro di Giobbe, inizi del V secolo a.C. (gli amici… ma anche Giobbe stesso, vedi Carla Maria).
È presente anche ai tempi di Gesù (Gv 9, 1-41) nell’episodio del cieco nato, in cui i discepoli chiedono se la colpa è sua o dei suoi genitori. O nell’episodio della torre di Siloe che cadde sopra quei diciotto (Lc 13, 1-9). Dunque nell’ebraismo, e poi certo anche nel cristianesimo perdura questa convinzione.
È attestata ancora nel 1639 per un terremoto dell’Italia centrale (Amatrice) (vedi documento di Teresa) ed è stata ripresa perfino per l’ultimo terremoto dell’Appennino nel 2016 quando un autorevole padre domenicano (padre Giovanni Cavalcoli) ha spiegato il terremoto come punizione di Dio per la legge sulle unioni civili (vi ricordate la polemica, contestato anche dal Vaticano).
Nelle nostre campagne, ancora dopo la metà del secolo scorso, si attribuivano certe malattie genetiche (per es. l’anemia mediterranea), a responsabilità dei genitori. Era una vergogna che si doveva tenere nascosta.
Ma già Gesù non era d’accordo. Cieco nato (Gv 9, 1-41) e torre di Siloe (Lc 13, 1-9).

La compresenza dunque del Bene e del Male la troviamo già nell’Antico Testamento. Giardino in Eden: Genesi 2,8 e 16 “Ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare”.
Deuteronomio 30,15: “Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male (…) 19 la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza”. Qoelet 7,14 “Nel giorno lieto sta’ allegro e nel giorno triste rifletti: Dio ha fatto tanto l’uno quanto l’altro.”
Isaia 45,7 “Io sono il Signore e non vi è alcun altro, io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura/disgrazia/avversità” (Levi dalla Torre traduce: produce la pace e crea=la stessa parola della Genesi).
Geremia 31,10 “Chi ha disperso Israele lo raduna e lo custodisce come fa un pastore con il gregge”.
Matteo, 13, 24-30 La zizzania
Cantico di Anna (I Samuele 2,1-10)
Magnificat (Lc 1, 39-55)
Golfo degli angeli e Sella del diavolo
Michela Marzano, Alfie, dolore e dignità, Repubblica, 29 aprile 2018 “Alla domanda di un’infermiera sulla morte dei bambini “Non c’è risposta alla morte di un bambino” – aveva detto il Papa (…) – “guarda il crocifisso: soffre, piange, questa è la nostra vita. Non voglio vendere ricette che non servono, questa è la realtà”.
Efisio tanto tempo fa: “Gli uomini si dividono in chi ha sofferto e… – io mi aspettavo: “in chi non ha sofferto” e lui ha concluso: “in chi soffrirà”!

Penso che noi dobbiamo accettare questa realtà. E, per questo mi sembra utile il concetto di “autonomia del mondo”. Dom Alessandro Barban, priore del monastero di Camaldoli, in esercizi spirituali intitolati Creati per amore, ri-creati per amare, tenuti nell’estate 2014, sottolinea che l’autonomia del mondo si è affermata con Galileo e la rivoluzione scientifica del 1600. Poi soprattutto nell’ultimo secolo. E dice che non possiamo più pensare il mondo, come nella concezione medievale, come distinto in tre piani sovrapposti: sotto l’inferno, al centro la terra e sopra il cielo. Però questa concezione è dura a morire: “Anche io ci casco!” ha detto con una risatina. E ha citato un libro di Rogier Lenaers, Il sogno di Nabucodonosor o la fine di una chiesa medievale, Massari, 2009. Un gesuita belga che poi ha scritto anche – il titolo è significativo – Benché Dio non stia nell’alto dei cieli, Massari, 2012. Io me lo sono andata a cercare e, in questa stessa linea di pensiero, ho poi letto (e mi sembra più condivisibile) John Spong, Gesù per i non religiosi. Recuperare il divino al cuore dell’umano (che tratta dei sinottici) e Il quarto vangelo, racconto di un mistico ebreo (Giovanni), Massari, 2013. Attenzione ai titoli!

Il teologo Carlo Molari usa l’espressione ‘desacralizzazione’ per sottolineare che le culture antiche erano caratterizzate da una prospettiva sacra. Così scrive: “Gi eventi della creazione, della storia umana, dell’esistenza personale venivano ricondotti a specifici interventi di esseri trascendenti, favorevoli od ostili. Le autorità pubbliche erano considerate delegati divini, investiti di poteri celesti. Man mano però che gli uomini hanno scoperto le cause dei fenomeni naturali e hanno cominciato a vivere gli eventi storici come risultato di scelte compiute liberamente, sono giunti alla convinzione che tutti i fenomeni della creazione e della storia hanno cause intrinseche e non si è fatto più ricorso ad esseri trascendenti per spiegarli. Il mondo è apparso nella sua autonomia, attraversato da dinamiche che seguono leggi proprie” (Ore11, 2006, settembre, p.12).
È questa un’interpretazione che mi pare superi la visione un po’ magica che talvolta ci portiamo dentro, e che risponde alla visione del mondo della modernità. Carlo Molari la riprende negli esercizi spirituali tenuti a Montanino di Camaldoli (8-12 luglio 2012) su Il bene e il male nella storia. Cammini di vita spirituale, (testo sbobinato). Molari dice che l’azione creatrice non impone nulla, ma lascia aperte delle possibilità diverse, che vengono offerte a tutti. “È sbagliato parlare di un disegno di Dio per noi: il traguardo è diventare figli di Dio, sviluppare la dimensione spirituale e la capacità di amare, come fare per raggiungerlo è meno importante e non è predeterminato, né imposto da Dio. È lasciato ai meccanismi della natura.” Noi non facciamo più la processione per la pioggia!!!
“Questo è il punto: noi dobbiamo ammettere che ci sono processi imperfetti: come lo sviluppo dei geni nell’utero quando nasce un bambino down. È la natura imperfetta che opera, non è Dio che lo vuole. Per cui, se noi riusciamo a correggere questi difetti, vuol dire che operiamo per il bene, non dobbiamo considerare la natura perfetta; ci sono ampi margini di intervento e miglioramento su cui l’uomo può agire. Così la condizione dei processi che riguardano la nostra vita è affidata a noi, che però non possiamo sradicare, eliminare per sempre, completamente, il male. Il male, i disastri, i drammi e le tragedie fanno parte del processo evolutivo (gli scienziati parlano di cinque catastrofi per cui il 90% delle specie che hanno fatto la loro comparsa sulla terra sono scomparse)”. Ci ricorda Molari che è necessario avere rispetto per il creato e comprendere come non tutto sia in funzione dell’essere umano.
Vorrei ricordare a questo proposito quello che disse il papa in occasione del terremoto nell’Italia centrale del 2016 (ancora Amatrice…), cito a memoria: “Dobbiamo tenere presente che quei bei paesaggi che tanto ammiriamo, quelle valli, quelle montagne, sono state provocate dai terremoti”. Confesso che sono rimasta sconcertata quando l’ho sentito.
Continua Molari: “Il male, dunque, deriva dalla incompletezza della natura, e la testimonia. Questo ci porta a superare necessariamente il dualismo tradizionale che vede bene e male contrapposti, con il male ricondotto ad un altro principio paritetico al bene: è una concezione tutta da superare.
Perché Dio non poteva fare le cose perfette sin dall’inizio? Dio non poteva creare un altro Dio, questo non è possibile nemmeno a Dio. E allora alla creatura serve tempo per tendere alla pienezza della vita. Allora la creatura è tempo? Si, possiamo dire così perché il tempo è una componente essenziale della creatura (…) noi siamo imperfetti e siamo chiamati ad un cammino di perfezione che può avvenire solamente nel tempo. Posiamo fallire in questo. Il tempo ci porta il dono del compimento, per questo è essenziale. Fallire vuol dire non interiorizzare il dono di Dio.
Non dobbiamo attribuire il male ad un’altra componente della creazione o, ancor meno, a un altro principio ontologico. (…) Dobbiamo superare tutte le convinzioni della esistenza del male in sé e il demonio può essere, al massimo, un simbolo.
Il male avviene anche fra noi (…) il male è la mancanza, la negazione dell’essere, del bene, e sottrazione di vita. In questo possiamo essere strumenti del male: quando non offriamo la vita (…) Dobbiamo incrementare la vita, non solo biologica, ma psichica e spirituale. Ogni giorno siamo responsabili della vita non offerta, dell’amore non esercitato. I peccati di omissione sono molto più importanti dei peccati attivi, sono la forza che non abbiamo trasmesso, la vita che abbiamo sottratto ai nostri fratelli”
. Così conclude. E questo mi sembra molto importante.

Ne deriva dunque una nostra grande responsabilità. Perché, se tutti i fenomeni della natura e della storia hanno cause create, tutto deve diventare nostra azione. Una storiella di Antony de Mello (autore consigliato da padre Piras a suo tempo) illustra molto bene questo concetto: Un uomo si lamenta con Dio del male del mondo: della guerra “Dio, fai qualcosa”, e Dio non risponde, e delle malattie “Dio, fai qualcosa”, e della povertà “Dio, fai qualcosa”. E…e…e… E Dio non risponde. Alla fine si sente una voce dal cielo “Ho fatto te!”.
Carlo, all’omelia della Ascensione, ha raccontato una storiella africana quasi uguale: Un uomo stava per affogare e un altro sulla riva che diceva: “Dio salvalo”. “E salvalo tu!”. Vi ricordate come ha concluso? “È più facile adorare il Santissimo e fare la processione con l’Ostensorio”.

2. IL DISCERIMENTO TRA BENE E MALE
Questo punto lo lascio per l’anno prossimo… per qualcuno di voi.
Però mi sembra di aver trovato un’indicazione utile, una bussola per orientarci, nella relazione che Stefano Levi Della Torre ha tenuto a Cagliari alla Facoltà Teologica nel Convegno di Ore 11 del 4-5 ottobre 2013.
Il concetto di timor di Dio (Qo 7,16-23): “Non esser troppo scrupoloso né saggio oltre misura. Perché vuoi rovinarti? Non esser troppo malvagio e non essere stolto. Perché vuoi morire innanzi tempo? E’ bene che tu ti attenga a questo e che non stacchi la mano da quello, perché chi teme Dio riesce in tutte queste cose. La sapienza rende il saggio più forte di dieci potenti che governano la città. Non c’è infatti sulla terra un uomo così giusto che faccia solo il bene e non pecchi.” Ancora: “Non fare attenzione a tutte le dicerie che si fanno, per non sentir che il tuo servo ha detto male di te, perché il tuo cuore sa che anche tu hai detto tante volte male degli altri”. Commenta Levi Della Torre: Non essere troppo buono… non essere troppo cattivo. Non devi essere così presuntuoso verso il divino, i troppo buoni sono sospetti perché corrono il rischio di diventare fondamentalisti. Questa confusione tra bene e male è anche la tua pasta, quindi sii misericordioso verso il mondo.
Vorrei aggiungere una suggestione che prendo sempre dal pensiero ebraico, perché io, interpretando timore come paura, non capivo perché dovessimo avere paura di Dio se diciamo che Dio è padre misericordioso, lo sentivo contradditorio. Lo prendo dal libro di Patrick Levy, Il qabbalista. Incontro con un mistico ebreo, Servitium, 2012. “Il “timore” di Dio è vedere la fragile bellezza e la sacralità di ogni cosa. È effimera e fragile perché sta nel tuo sguardo e non nel mondo; è così che tu puoi “temere” di esserne separato, anche un solo istante, da altre preoccupazioni. In questo timore, che è un obiettivo, c’è solo amore.” (p 57).
Vedi anche Patrick Levy, L’astuzia di Dio. Il qabbalista e l’albero della conoscenza, Servitium, 2014, p 331-332:
[Il timore dà accesso a tutte le bellezze.] Essoapre occhi sulla fragilità della bellezza. Esso pone“io ” al cuore della bellezza.Se ne parla come di una luce: “Il timore di YHWHè la luce originale”, com’è detto. Questa luce ha mar-cato il primo “sia”. Se ne parla come di una chiaveper penetrare i sublimi segreti: “I segreti di YHWH so-no per coloro che lo temono”, com’è detto (Salmo25, 14). Lo si evoca come un tesoro: “Il timore di YHWH è il suo tesoro” (Esodo 33, 6 e TB Berakhoth33b), e la soglia della sapienza: “L’inizio della sapien-za è il timore di YHWH” (Salmo 111, 10). Lo si associaalla dolcezza: “La ricompensa della dolcezza è il ti-more di YHWH” (Proverbi 22, 4). Lo si rivela con labontà: “Com’è grande la tua bontà che riservi (na-scondi) per coloro che ti temono”. “Il timore diYHWH è infatti una sorgente di vita°_’«, com°è scritto(Proverbi 14, 27). E l`uomo senza nome promette chequesto timore consente di toccare il supremo inac-cessibile e immanifesto dell’Uno: “io” e YHWH nonfanno che UNO in questo timore.Il timore di Dio non È quello causato dal tirannosadico che potrebbe fare di te quello che vuole se-condo il suo capriccio; in fondo, è l’opposto: cercaredi essere ognuno il contrario di un tiranno sadico, va-lorizzare la debolezza e l’esitazione, la dolcezza, l’u-miltà, la modestia, la misura, la prudenza, la fran-chezza, e congiungere tutte queste qualità per fameuna saggezza, per rivelare in esse l’amore.Nell’amore vi è una parte di timore: quella di per-derlo, Anche in questo sta il suo valore.°’Dove seí”? Sono nel timore, risponde l’adam.E noi ritroviamo qui la nostra domanda: cos’è unuomo? Non è un bruto imbecille; è qualcuno che siinterroga con timore e che interroga il suo timore. Etrasforma l’angoscia in bellezza, la paura in amore, ilmistero in sapienza…››«Magnifico, rabbi Isaac»

3. L’ELABORAZIONE DELLA SOFFERENZA. LA NOSTRA RISPOSTA
Vorrei cercare di rispondere a quella, per me terribile, obiezione di Galimberti sul peccato originale da cui sono partita.
Tra l’altro, non posso dimenticare l’espressione infastidita del presidente della Comunità ebraica italiana, Amos Luzzatto, a un convegno di Monte Giove, che parlando del peccato originale disse: “Ma perché originale? Se mai originario”. Per gli ebrei il peccato originale non esiste. Anzi loro interpretano il racconto biblico come nascita della responsabilità dell’uomo, la fine dell’età dell’incoscienza. Stefano Levi Della Torre, con l’ironia tipicamente ebraica, al nostro convegno disse che Eva ha inventato la scienza, l’estetica e la culinaria, osservando che l’albero era utile, bello e buono da mangiare! Acquista la coscienza e allora nasce l’umano, così disse. E aggiunse una storiella chassidica: il mondo si basa su un equilibrio instabile tra bene e male, con una leggera supremazia del bene. Ma quasi in equilibrio. Perciò quella piccolissima particella di bene che possiamo fare è decisiva per il mondo!
Per chi volesse approfondire cfr Patrick Levy, L’astuzia di Dio.Il qabbalista e l’albero della conoscenza, Servitium, 2014, p 2128. Il maestro ebreo conclude: “Questa attitudine che ti farà discernere, scegliere, preferire o respingere, ti farà uscire dalla protezione della beatitudine e della spensieratezza del giardino di Eden, ti rivelerà la tua esistenza ma anche la tua relatività e la tua finitezza… ‘di morte morirai’. (…) L’uomo nasce come soggetto, come individuo… Dio è sempre liberatore!”.
Torniamo al nostro peccato originale. Dom Alessandro Barban, negli esercizi che ho citato, sottolineava che di peccato originale non si parlava nei primi secoli, ma che è con sant’Agostino, IV sec, che si inizia a parlarne vedi anche P.Levy, L’astuzia di Dio, p 279-81.
Vito Mancuso, ne L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina, 2007, p 160 e seg., sottolinea le contraddizioni dell’interpretazione letterale del racconto della Genesi e conclude: “Il peccato originale è un’offesa alla creazione, un insulto alla vita, uno sfregio all’innocenza e alla bontà della natura, alla sua origine divina” (p 167). Peraltro sostiene che la funzione speculativa del mito del peccato originale consiste nella necessità di pensare insieme la bontà della creazione e la necessità della redenzione.
L’interpretazione per me più equilibrata e convincente si trova nella riflessione di Carlo Molari in diversi numeri di “Rocca”, 1 dicembre 2012; 1 febbraio 2016 e 15 novembre 2014: Dire oggi il peccato originale, in cui premette che cresce sempre più la distanza fra l’insegnamento tradizionale e la teologia attuale specie intorno al peccato originale, sia per l’interpretazione dei testi di riferimento, sia per la formulazione della dottrina.
I testi di riferimento per la dottrina tradizionale del peccato originale sono principalmente tre: il capitolo terzo della Genesi, la prima lettera di Paolo ai Corinti (15,21-22 «se per mezzo di un uomo venne la morte per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita») e la sua lettera ai Romani (cap. 5,12.15.19 «a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte… Se… per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti… Infatti come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’ubbidienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti»).
Riguardo all’insegnamento di Paolo gli esegeti sottolineano che il parallelo Adamo Cristo tende a presentare l’unione a Cristo come ragione della salvezza; il riferimento ad Adamo unico progenitore è funzionale all’affermazione dell’unico salvatore. «Il contrasto di anti-tipo e tipo, Cristo e Adamo, richiede che la condizione peccaminosa di tutti gli uomini sia ascrivibile ad Adamo, proprio come la loro condizione di giustizia sia da attribuire a Cristo soltanto» (Fitzmyer J. A., Paolo. Vita, viaggi, teologia, Queriniana, Brescia 2009 p. 157).
Scrive Molari: “A proposito della Genesi tutti oggi sono d’accordo nel ritenere mitico e simbolico il racconto come ricerca di spiegazione del male presente nel mondo (racconto eziologico= relativo alla causa). Ma nonostante questo riconoscimento ancora molti si richiamano all’evento del peccato originale come ragione storica dell’imperfezione umana e del male nel mondo.
Il gesuita Andrés Torres Queiruga riferendosi al Catechismo della Chiesa cattolica osserva: «Nel trattare le origini della razza umana… viene riconosciuta la natura simbolica/allegorica dei racconti della Genesi, ma nello stesso tempo si afferma che il racconto di Gen 3 «espone un evento primordiale, un fatto che è accaduto all’inizio della storia dell’uomo» (Catechismo della Chiesa cattolica, 1992, n. 390, corsivo nell’originale). È come se più di un secolo di dibattito attorno alla natura mitologica di questi racconti non avesse mai avuto luogo». (Quale futuro per la fede. Le sfide del nuovo orizzonte culturale, Ldc Torino 2013 (or. 2000) p. 43). Coerentemente egli conclude: «Una volta riconosciuto il carattere mitico-simbolico del racconto della Genesi, non ha senso cercare un’azione storica come causa della situazione attuale, attribuendole, per esempio, l’ingresso delle malattie o del male nel mondo» (ib. p. 44).
Sempre Torres Queiruga in uno scritto apparso su internet (…) afferma che anche dopo essere stata riconosciuta come mitica, la narrazione concreta dell’albero, del frutto e del serpente fa, tuttavia, perdurare l’idea terribile che gli spaventosi mali del mondo sono un ‘castigo divino’ a causa della colpa storica commessa dai nostri avi.
Con ciò nell’inconscio collettivo si stanno imprimendo due concezioni mostruose: a) che Dio è capace di castigare in modo terribile, e b) che lo fa a miliardi di discendenti che non hanno la minima colpa per quel presunto errore. Inoltre si rinsalda l’idea – così diffusa e dannosa – che, in ultima istanza, se c’è male nel mondo è perché Dio lo ha voluto e lo vuole, dato che il paradiso sarebbe stato possibile sulla terra. E, oltretutto, il castigo sarebbe sproporzionato. In questo modo sopravvive la credenza generale che la sofferenza, la malattia e la morte provengano da una decisione divina, come forma di castigo». (Credere in modo diverso Sito ABCWIKI postato il 20 ottobre 2010)”.
Molari quindi sottolinea la necessità di riformulare la dottrina. Vi ricordate il card. Martini? “La nostra teologia è indietro di 200 anni” Anzi ‘ha detto 300 ma tu scrivi 200’, dice il curatore del libro nell’articolo sul Corriere della Sera.
Continua Molari: “Leggere le narrazioni bibliche come se fossero descrizioni di eventi storici è fuorviante. Esse trasmettono messaggi sapienziali per spiegare le condizioni imperfette della umanità e per rivelare che il progetto di Dio è condurre l’uomo, nonostante nasca imperfetto, a divenire sua immagine. La riforma della Chiesa, assieme alla continua conversione dalle idolatrie illusorie del potere e della ricchezza, implica anche la riformulazione della sua dottrina. Le formule infatti che ci sono pervenute sono nate da esperienze di fede autentiche, ma vissute e interpretate con modelli culturali radicalmente inadeguati. Man mano che le scienze forniscono nuove acquisizioni e offrono possibili spiegazioni della condizione umana, la teologia deve accoglierne le conclusioni per eliminare le incongruenze dei modelli culturali utilizzati nel passato.
Giuseppe Ruggieri, in un recente libro molto originale e ricco di stimoli, riflettendo su quello che egli chiama il Racconto ebraico ne riassume così il messaggio: «La prima parola che Dio disse all’uomo fu una benedizione: ‘E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro […]’ (Gen 1, 27-28). Ma questo dato assume tutto il suo significato solo guardando a un aspetto per noi sconvolgente da essere a volte omesso dai commentatori. La benedizione non sta soltanto all’inizio della storia umana, nella sua fase innocente, ma anche alla fine di quello che per lo più viene qualificato come `racconto del peccato delle origini’, ma che più esattamente dovrebbe essere qualificato come il ‘racconto della benedizione dell’uomo peccatore’. Infatti sia la ribellione di Adamo ed Eva al comandamento di Dio, sia l’uccisione di Abele ad opera del fratello non hanno come esito finale la condanna, ma la benedizione. Nell’uno e nell’altro caso la punizione è la parola penultima, non la parola ultima. [Da questo punto di vista, il racconto di Genesi 3 sulla ribellione di Adamo ed Eva e il racconto di Genesi 4 sull’uccisione di Abele ad opera di Caino debbono essere letti insieme» (Della fede. La certezza, il dubbio, la lotta, Carocci ed., Roma 2014 pp. 28-29). Dopo aver richiamato gli sviluppi successivi del racconto il teologo catanese conclude: «Il racconto contiene così una sfida ulteriore alla libertà dell’uomo: quella di accogliere la propria condizione essenziale, così com’è, come vicenda gravida di un futuro. La maledizione non è mai l’ultima parola della storia umana. E d’altra parte il futuro non è il successo dei progetti titanici del ribelle contro ogni potere degli dei e degli uomini. La vicenda umana nel racconto biblico riceve piuttosto il suo futuro da una promessa. Questa promessa trae la sua forza dalla fedeltà di Dio a se stesso, dal suo amore che dura per sempre» (Id. ib. p. 29).] Continua Molari: “Di fatto però l’insegnamento catechistico (come il Catechismo della Chiesa Cattolica), continua a presentare l’umanità primitiva dotata di doni superiori (l’integrità, l’impassibilità e l’immortalità, secondo alcuni anche la scienza infusa), doni che sarebbero stati perduti con il peccato. Sulle ragioni del male nel mondo e in particolare dell’imperfezione umana le teorie evolutive offrono indicazioni molto più convincenti. L’uomo non è in grado di accogliere i doni divini in un solo istante, richiede molto tempo per interiorizzare tutte le informazioni necessarie allo sviluppo completo delle sue strutture. Per questo nasce incompiuto e imperfetto. La possibilità di compiere il male, che ne consegue, accompagna tutto il suo processo storico. Solo alla fine, quando Dio sarà «tutto in tutti» (1 Cor 15, 28) anche il male, il disordine, la morte saranno sconfitti. D’altra parte l’imperfezione delle creature si esprime in scelte negative che guastano le relazioni, deturpano la vita e inquinano anche la sua trasmissione alle nuove generazioni”.
Questo permette a Molari di concludere che oggi possiamo così interpretare il peccato originale: “Ogni creatura nasce con i limiti, le debolezze e le insufficienze causate dalle violenze, dalle idolatrie e dagli errori delle generazioni precedenti. La responsabilità degli umani è che molti diventino testimoni efficaci della potenza del Bene e della fecondità dell’Amore in modo che la Vita prevalga sulla morte”.

Un altro concetto che dobbiamo rivedere, che oggi non ci parla più, anzi direi che ci è di scandalo, riguarda il significato della croce, la morte in croce di Gesù. E qui entriamo nel vivo del nostro argomento. Perché noi pensiamo che Gesù ci ha salvato con la sua morte in croce, invece è con la sua risposta alla croce che ci ha salvato. Una volta Arturo Paoli disse che ci voleva un ebreo, Emmanuel Lévinas, per farci notare che era una bestemmia dire che la morte in croce di Gesù era la volontà di Dio. Perché? Patrick Levy osserva giustamente che torniamo indietro all’epoca anteriore ad Abramo.
Mi è rimasta impressa l’espressione di sollievo di un giovane che a Vallermosa ad un incontro che tenemmo di Oreundici nel 2000 o 2001, quando, a questa stessa domanda, Carlo Molari rispose: “No, non era la volontà di Dio, la morte in croce di Gesù è il contrario della volontà di Dio!”. In che senso era contraria alla volontà di Dio? Perché era una situazione di ingiustizia e di violenza.
In nostro vescovo Arrigo, nella preparazione alla Pasqua che ha tenuto a Bonaria proprio quest’anno, nel commento alla IV dom di Quaresima ha detto che la conversione consiste prima di tutto nel cambiare la nostra immagine di Dio. Prima ha citato Esodo 20, 3-6 “Io sono il tuo Dio, un dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi”. E poi ha aggiunto: “La seconda conversione è la nostra idea della croce. Alzi la mano chi di noi (ha detto di noi, non di voi!) – per la malattia di un figlio, una morte, una disgrazia – chi di noi non ha detto: “Devi accettare la croce che il Signore ti ha dato.” NON E’ LA VOLONTA DI DIO!!! Dio è il padre misericordioso del figliol prodigo. Ama di un amore “esagerato” ha detto. La croce di Gesù non è la volontà di Dio, ma del sinedrio, dei romani, dei peccatori. Quanti sono diventati atei perché non accettano questa idea di Dio. Un dio SADICO!” Queste le parole del vescovo.
Come mai questa idea per noi oggi così ‘sbagliata’, mi permetto di dire? Perché per molti secoli si è imposta la concezione giuridica di sant’Anselmo. In una intervista al papa emerito Benedetto XVI di cui sono stati pubblicati alcuni stralci su “Avvenire” del 16 marzo 2016, l’intervistatore chiede: “Quando Anselmo dice che il Cristo doveva morire in croce per riparare l’offesa infinita che era stata fatta a Dio e così restaurare l’ordine infranto, egli usa un linguaggio difficilmente accettabile dall’uomo moderno (…) si rischia di proiettare su Dio un’immagine di un Dio in collera, afferrato (…) da sentimenti di violenza e di aggressività paragonabili a quello che noi stessi possiamo sperimentare.” Insomma un Dio molto umano e molto poco misericordioso. Benedetto XVI risponde “La concettualità di sant’Anselmo è diventata oggi per noi di certo incomprensibile”. (E invece ancora oggi, quelli di voi che hanno sentito Gian Enrico Rusconi alla facoltà teologica un mese fa: arrabbiato con papa Francesco: “sempre misericordia! Dove è il Dio che ci caccia dal paradiso terrestre?! Dove è la riparazione?!”).
Carlo Molari negli Esercizi spirituali tenuti a Montanino di Camaldoli nel luglio 2016, spiega molto bene questo necessario cambio di paradigma. Sant’Anselmo (morto nel 1109) nel suo libro Cur deus homo? si chiede il perché dell’incarnazione e sviluppa un ragionamento di tipo giuridico. Il peccato è un’offesa a Dio. Come si può riparare? Con la ritrattazione (e questo è facile) e con la soddisfazione, un compenso dato a Dio. Ma Dio ha già tutto. Possiamo dare qualcosa che non è dovuto: la sofferenza di un giusto. Che però deve essere proporzionata all’infinità di Dio. Ecco la necessità dell’incarnazione del Figlio. Ragionamento di tipo antropomorfico. Molari dice “Insensato”. Che se ne fa Dio della sofferenza di un giusto??? Il peccato non è un’offesa a Dio, è una metafora, è un privarci del dono di Dio, un ostacolo che poniamo al flusso vitale. Il concilio vaticano dice “Diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza”. La ‘salvezza’ che ci ha dato Gesù sulla croce è perché ha introdotto dinamiche di vita dove c’erano dinamiche di morte, espresso mansuetudine dove c’era violenza, gratuità dove c’era egoismo, amore dove c’era odio. Bene dove c’era Male. La volontà di Dio era che Gesù continuasse ad amare anche in quella situazione, ad esprimere il bene, a comunicare energia di vita. Questa era la volontà di Dio, non che Gesù morisse.
Dunque Gesù non ha annullato, non ha espiato, non ha redento il male ma lo ha portato e ci ha insegnato a portarlo in modo salvifico.
Conclude Molari: “Allora a noi cosa è chiesto, a noi come discepoli di Gesù? Continuare ad annunciare la morte e la resurrezione, cosa significa per noi? Rivelare l’amore di Dio, manifestare la forza di vita che viene attraverso Gesù: a noi questo è richiesto! E questo è il comune traguardo che tutte le comunità ecclesiali si trovano a raggiungere e ad esprimere, liberandoci da tutti gli argomenti del passato che si erano affastellati, anche tra i cattolici.”
Un paio di giorni fa un’amica mi ha passato un libro di Carmine Di Sante, La passione di Gesù, San Paolo, 2013, che illustra ampiamente questo cambio di paradigma. Dobbiamo liberarci dalla categoria sacrificale con cui da secoli leggiamo la passione di Gesù e aprirci ad una ermeneutica diversa: la passione di Gesù è riletta come evento di nonviolenza e per-dono con cui Gesù sottrae alla violenza la pretesa di essere la parola ultima inaugurando i tempi nuovi della misericordia e della pace.
Il nostro vescovo Arrigo Miglio, nelle lectio che ha tenuto a Bonaria in preparazione alla Pasqua, ha letto la lettera agli Ebrei 5, 7-9: “(Gesù) nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, fu esaudito; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek”. Vi ricordate il commento di Osvaldo la domenica delle Palme? Ha citato questo testo e poi ha aggiunto: “Implorò di essere risparmiato dal morire… e fu esaudito! E lo scrittore sapeva che Gesù non evitò la morte, che morì davvero, ma morì in modo tale che un centurione romano lo riconobbe figlio di Dio. Non tutto finiva con la morte, non con il silenzio di Dio, ma con Dio vicino, “io sarò con voi fino alla fine del mondo”. Così Osvaldo.

Tornando al vescovo, In che senso la morte è seguita dalla resurrezione? Il vescovo ha citato Gv 12, 24-25 “Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane da solo, se muore produce molto frutto”. Ecco la Pasqua di Gesù: dalla morte, la vita.
[Il vescovo ha detto: è stato il terzo esodo. Il primo esodo è stato quello di Mosè. Il secondo è stato quello da Babilonia dopo l’editto di Ciro 538, un piccolo resto che torna a Gerusalemme per ricostruire il tempio. Il terzo, la Pasqua di Gesù. [Ma per P.Levy il primo esodo è stato l’uscita dal giardino in Eden, il passaggio dalla incoscienza dell’infanzia alla condizione adulta!]

Allora, la nostra pasqua è il cuore trasformato: la morte dell’EGO. Vi ricordate l’omelia di Carlo nell’ultima domenica di Quaresima? La pietra del sepolcro che dobbiamo far rotolare via? La chiusura nel nostro EGO.

Su questo mi permetto di consigliarvi una lettura che è un po’ anomala. Eckhart TOLLE, Il potere di adesso, Un’amica quando ha visto questo libro si è meravigliata “Margherita! Leggi queste cose?!” perché sembra un po’ new age, ma io che l’ho ricevuto in dono dal fisioterapista che veniva a sistemarci un po’ le ossa, l’ho vissuto come un dono di Dio. Tutto il libro, ma in particolare p 52 e p 183-86. Vi ricordate Carlo all’omelia di Pentecoste? “La miglior difesa non è l’attacco. E’ la resa”. (Gesù: a chi ti chiede la tunica dona anche il mantello. Offri l’altra guancia). La resa è il concetto che Tolle usa: Non identificarsi con quello che chiama il proprio ‘corpo di dolore’ in cui poniamo la nostra identità identificandoci con la nostra mente. – schematizzo al massimo – Non rimuginare sul passato, né arrampicarsi sul futuro ma la resa, il potere di adesso (Gesù: a ogni giorno basta la sua pena). L’interlocutore obietta: ‘Ma non avrò la felicità’ ‘No, non avrai la felicità, ma avrai la pace’. Pensiamo alla parabola, all’evoluzione di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” e poi “Perdona loro perché non sanno quello che fanno” e poi “Nelle tue mani rimetto il mio spirito”.
E per finire la nostra senatrice a vita Liliana Segre. In un libro di Emanuela Zuccalà, Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre fra le ultime testimoni della Shoah, Paoline, 2018 (7° edizione), tutto il libro! In particolare p 63-4:
[descrive l’arrivo degli eserciti liberatori dei russi e degli americani nel campo di concentramento]
I due eserciti vincitori arrivarono molto prima del previsto e le nostre guardie furono obbligate ad aprire quel cancello, a farci uscire e a uscire insieme a noi, ancora con i cani al guinzaglio e noi ancora prigioníere, di nuovo sulle strade tedesche.(…)E si mescolavano fra noi le guardie: accanto alle ragazze-nulla si rivestivano in borghese. Cosa fanno? Fino a un momento prima avevano diritto di vita e di morte su milioni di persone nell’Europa occupata, e di colpo mandavano via i cani e buttavano le divise e le armi nel fossato che correva lungo la strada.Li guardavamo sbalorditi: “Cosa fanno?”. Si mettonoin mutande: le SS vicino a noi si spogliano, si rivestono dacivili e tornano a essere dei signori qualsiasi, quelli dellabanalità del male”.[NOTA 21 E' l'espressione, diventata ormai classica, , con cui la filosofa tedesca HannahArendt dscrisse la mediocrità e l'essere comune di tutti i funzionari coinvolti nel-la macchina della sterminio, lontani quindi dall'immagi.ne di disumani macellai.Nel libro la banalità del male. Eicbmarm a Gerusalemme (op. cit.), la Arendt fauna cronaca del processo al nazista Adolf Eichmann, tra gli organizzatori della so-luzione finale, tenutosi a Gerusalemme nel 1961.E nelle ultime pagine annota: « Il guaio del caso era che di uominicome lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensìerano, e sono tuttora, terribilmente normali ».]Questa gente che aveva messo in ginocchio esercitidi mezza Europa terrorizzando, fino a poco prima, noidonne inermi, si metteva in mutande. Era una visione co-sì strana, incredibile, e proprio noi ragazze schiave ci sco-privamo testimoni di quell’attimo che ribaltava la_storia.Era un momento`epocale, in cui accadeva tutto e il con-trario di tutto: il mondo si rovesciava. Pensate ai civili te-deschi, che fino al giorno prima si erano sentiti padroni delmondo, ai contadini che pur non seguendo il credo nazi-sta, pur non essendo mai stati dei “volenterosi carnefici diHitler” – secondo la definizione dello studioso DanielGoldhagen” – e avendo continuato ad arare il loro pezzodi terra, si sentivano importanti, parte della “razza supe-riore”, sotto l’egida del millenario Reich tedesco. E di col-po quel Reich millenario viene sconfitto, e il loro mondocrolla rovinosamente.Ci fu un momento importante nella mia vita, un epi-sodio privato incastonato nell’evento epocale che stavovivendo. Il comandante di quell’ ultimo campo, crudeleassassino, camminava vicino a me – non ho mai saputo ilsuo nome, era un uomo alto ed elegante -, si spogliò, rimase in mutande, si rivestì da civile. Tornava a casa dai suoi bambini e da sua moglie. Certamente non si accorgeva della mia presenza perché io ero ancora uno stück, un pezzo. Quando buttò la pistola ai miei piedi, con tutto l’odio che avevo dentro di me e la violenza subita che mi invadeva il corpo, io pensai per un istante: “Adesso mi chino, prendo la pistola e in questa confusione assoluta lo ammazzo”. Mi ero nutrita a lungo solo di malvagità e di vendetta. Pensai che sparargli fosse l’azione giusta nel momento giusto, il giusto finale di quella storia di cui erostata protagonista e testimone. Ma fu un attimo. Un attimo importantissimo, definitivo nella mia vita,che mi fece capire che io mai, per nessun motivo al mondo avrei potuto uccidere. Che nella debolezza estrema che mi vinceva, la mia etica e l’amore che avevo ricevuto da bambina mi ímpedivano di diventare uguale a quell’uomo. Non avrei mai potuto raccogliere la pistola e sparare al comandante di Malchow. Io avevo sempre scelto la vita. Quando si fa questa scelta non si può togliere la vita a nessuno. E da quel momento sono stata libera».
La prima libertà è la libertà dall’odio. Mi pare coincida in termini laici con la conclusione su Giobbe nella lettura che ne fa Ricoeur: non la lamentazione, non la pretesa della retribuzione ma amare Dio per nulla. Alcune comunità cristiane pregano così il credo: “Credo in Dio nonostante, credo in Dio nonostante…”. Ricoeur conclude: forse questo coincide con qualcosa della saggezza buddista (p 55).

One Response to «La differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza». Comunità di San Rocco: Riflessioni guidate.

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