Europa Europa non consegnarti all’inciviltà!

Félix Vallotton (Losanna 1865-1925) il ratto d' Europa
EUROPA
giocando a scaricabarile

di Roberta Carlini su Rocca

Facce stravolte, cravatte allentate, tailleur stropicciati. Il copione degli accordi raggiunti a notte fonda, di solito riservato alle trattative sindacali, è utile alla retorica del salvataggio in extremis, del duro lavoro fatto per evitare il baratro, dei leader volenterosi. Ma la sostanza arriva poi con la luce del giorno, e il tanto atteso e temuto Consiglio europeo di fine giugno si è concluso, all’alba del 30, con scarsa sostanza. Quella bastevole a evitare la rottura. A scongiurare il pericolo che l’Europa, nata sulla moneta, morisse sui profughi. Ma mentre decine e decine di persone morivano di morte non simbolica, nel mar Mediterraneo, la vita dell’Unione continuava senza un messaggio di salvezza per loro. L’accordo è presto detto: si farà di tutto per evitare gli sbarchi, dando pieni poteri a una Guardia costiera libica alla cui efficacia e umanità non crede nessuno (anzi, ci sono prove di una sua complicità passata con gli scafisti); e per chiudere chi riesca a sbarcare in centri controllati – eufemismo per dire «prigioni» – chiamati ora «piattaforme di disimbarco». In queste, che dovranno sorgere ai bordi del Mediterraneo, dunque anche in Italia, si scremeranno gli aventi diritto all’asilo e si ributteranno indietro tutti gli altri. Questi gli impegni, la cui attuazione pratica è ancora tutta da scrivere e finanziare.
L’inizio estate del 2018, l’anno che ha portato nel cuore dell’Unione il vento partito dagli Stati Uniti con l’elezione di Trump, ci ha consegnato questo scenario. Si è temuto che il nuovo governo italiano rompesse i patti sull’euro, invece è sui migranti che si è aperta la crisi nell’Unione. E l’Italia è al centro, non solo perché primo grande Paese europeo nel quale la destra xenofoba ha preso il
governo, ma anche per motivi puramente geografici, come piattaforma necessaria di arrivo. Il linguaggio diretto dei nuovi governanti, senza le mediazioni né le formalità rassicuranti legate alla diplomazia, ma an- che a regole istituzionali finora rispettate anche nei momenti più drammatici, ci met- te davanti a una verità nuda: è l’Italia l’anello debole sul quale si può spezzare la catena lentamente costruita dagli anni Cinquanta del secolo scorso, quell’unione che i fondatori volevano come antidoto al veleno della guerra e dei nazionalismi e che i popoli, o gran parte di essi, sente come nuovo veleno, come una catena essa stessa, rompendo la quale si potrà tornare a un passato migliore.

il morbo incubato
Questa è la caratteristica che unisce la nuova destra che governa gli Stati Uniti, che ha spinto per la Brexit in Gran Bretagna, che è stata respinta in Francia, che governa il «gruppo di Visegrad» (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) e che incalza la Cancelliera Merkel in Germania: il sogno è ambientato nel passato, non nel futuro. Solo pochi anni fa Obama salutava la sua rielezione con un bellissimo discorso e una frase memorabile: il meglio deve ancora venire. Eravamo nel 2012, il primo presidente nero della storia statunitense veniva rieletto nonostante lo sconquasso della crisi del 2008 che aveva salutato il suo insediamento; o forse proprio per questo, dato che la pragmatica risposta del piano Arra di Obama aveva attutito i colpi durissimi della crisi, e avviato una ripresa piena di limiti e difetti ma pur sempre con il segno positivo.
Negli stessi mesi, l’Europa si ammalava della malattia che – forse, insieme ad altre cause – l’ha portata fin qui. Contrastava la crisi a colpi di austerità, comprimeva o negava i principi stessi scritti nella sua carta oltre che nel suo dna: solidarietà, in primo luogo. Al punto di arrivare sull’orlo del baratro, a un passo dal collasso finanziario e poi anche po- litico, su una questione che, dal punto di vista numerico e sostanziale, era minima: il debito della Grecia, enorme per quel Paese ma microscopico in confronto alla potenza e alla ricchezza dell’Unione europea, e anche solo della zona dell’euro. Una crisi che si sarebbe potuta risolvere in pochi mesi e minor sacrificio fu lasciata a bagnomaria, per non compromettere l’immagine e il ruolo di ‘falco’ della cancelliera Merkel che doveva affrontare un voto politico interno. Poi, il tentativo del popolo greco di autodeterminarsi, in presenza di un indebitamento estero enorme e conseguenti vincoli dei mercati finanziari, fu respinto. Se ne uscì, con costi sociali maggiori di quelli che avrebbe comportato un’Unione coesa e pragmatica – se avesse fatto politiche anticicliche come quelle del liberal Obama, senza bisogno di evocare ricette socialdemocratiche su cui pure il modello europeo è nato; ma soprattutto con costi politici non limitati alla sola Grecia (nella quale anzi il governo Tsipras è riuscito a ge- stire e sopravvivere a una crisi terribile). Ovunque, nei Paesi più ricchi e a basso tasso di disoccupazione come in quelli più indebi- tati e disoccupati, ai margini dell’Unione – tra i quali purtroppo anche l’Italia – il morbo incubato tra il 2011 e il 2012 ha continuato a dilagare. E l’Europa è diventata, nella perce- zione comune, l’untore, la responsabile del male. Soprattutto presso il popolo italiano, che primeggiava in europeismo e che solo pochi anni fa (era il 1997) accettò di pagare una «tassa per l’Europa», un’addizionale sulle
imposte sul reddito per entrare nell’euro (poi fu restituita, fu parte del ‘dividendo dell’euro’ per la riduzione dei tassi di interesse che ne seguì). E se al di sotto delle Alpi si incolpava e si incolpa l’Europa dei disastri del passato e delle paure per il futuro, insomma per essere diventati o poter diventare più poveri, al di là dei valichi la si incolpa di non tenere a dovuta distanza la povertà, quella che arriva dal mare.

sogno del passato
Paure che diventano terrori, in gran parte alimentate come fantasmi dal buio e destinate a sparire alla luce del giorno e della ragione. Ma anche, almeno in parte, fondate su fatti reali e sofferenze vive: gli ultimi dati dell’Istat certificano che la povertà assoluta, in Italia, coinvolge adesso 5 milioni di famiglie. Far cambiare rotta all’Europa si rivelò impossibile, anche perché nessuno ci ha seriamente provato; di fronte al successo dilagante del movimento opposto: tornare indietro, sfasciare quel progetto fallito, rompere il brutto giocattolo e le sue istituzioni destinate a non reggersi in piedi se non per finta. Di qui il sogno del passato, la «retrotopia» per dirla con Bauman. Che trae alimento, più che dalla nostalgia di un’effettiva età dell’oro, dalla sua semplicità: ecco un nemico, individuato e conosciuto, con cui prendersela. Poco importa che, a ragionarci un po’, la chiusura delle frontiere commerciali con la Germania, la limitazione della nostra emigrazione di studenti e operai, il collocamento del nostro debito su un mercato solo italiano, non ci avvantaggerebbero né aiuterebbero affatto. In mancanza di fiducia sul «meglio» che deve venire, rivivono i miti di quello che è già stato e se n’è andato.

la triarchia italiana
Senonché, tornare indietro è impossibile. Se ne sono accorti anche i nuovi governanti, che hanno dovuto dare rassicurazioni sulla volontà dell’Italia di restare nell’euro: è già nata, nel governo, una triarchia, che affianca lo sconosciuto «tecnico» Tria alla famosa coppia Salvini-Di Maio. I due vicepresidenti del consiglio hanno i voti e il peso politico, ma Tria ha i cordoni della cassa e per ora li tiene stretti, rinviando l’attuazione delle mirabolanti promesse elettorali. Così, non potendo se non in minima parte procedere con il pacchetto economico, ossia la flat tax da un lato e il reddito di dignità dall’altro, si procede sulle misure «a costo zero». Un nuovo intervento sulle regole del mercato del lavoro, che forse ridurrà un po’ l’abuso dei contratti a termine senza però intervenire sulle cause che portano le imprese a elargire solo «lavoretti», di pochi mesi o poche ore, e pochissimi lavori buoni. Ma soprat- tutto, interventi contro l’immigrazione: non potendo procedere contro quelli che, a torto o a ragione, vengono individuati come i nemici potenti (l’euro, la Germania, Bruxelles), si procede contro chi non può reagire, protestare, togliere il voto. Gli immigrati e il popolo dei barconi. Che, dice Salvini, vengono qui a portarci la miseria.

vecchi e nuovi poveri
In parte è vero: sono poveri, perché hanno perso o abbandonato tutto, o non l’hanno mai avuto. Ed è vero anche per i fortunati, coloro che in Italia sono riusciti a entrare e a vivere: oltre un terzo di quelli che l’Istat certifica come «poveri assoluti», cioè sopravvivono al di sotto della soglia di povertà, sono stranieri. Ma è anche vero che, senza i vecchi e nuovi poveri che sono arrivati in Italia, molti settori della nostra economia e del nostro welfare non esisterebbero: i piccoli imprenditori di Padova – nel cuore del Veneto leghista – hanno detto che se rumeni e bulgari tornassero a casa le loro fabbriche chiuderebbero, piene come sono di operai non italiani, ormai integrati e stipendiati; i calcoli dell’Inps mostrano che il sistema previdenziale si regge sui contributi pagati dagli stranieri; in molte scuole le classi si formano grazie ai loro figli, mentre in loro assenza dovrebbero chiudere e ci sarebbero insegnanti in esubero; senza contare l’economia nera dello sfruttamento dei braccianti, dalla pianura pontina a Rosarno, fino alle stalle delle preziose mucche da parmigiano della pianura padana.
E qui cominciano le distinzioni, che complicano il messaggio semplicistico della campagna elettorale. Si sente ripetere: quelli che lavorano li vogliamo, gli altri, quelli sui barconi, no. Ma si dimentica di dire che un modo legale per entrare a lavorare in Italia non c’è, essendo ridotto al minimo il sistema dei flussi. Altra distinzione usuale: sì ai profughi «veri», in fuga da guerre e persecuzioni, no ai migranti economici. Salvo poi voler tracciare questa distinzione fuori dai nostri confini, esattamente in quelle terre dove il diritto non c’è e affidando la cernita a quegli aguzzini dai quali i profughi fuggono.
Anche l’Europa civile partecipa a questa ipocrisia, cercando di delegare e spingere il problema più a sud possibile. Ne ha un vitale bisogno la cancelliera Merkel, incalzata all’interno dal suo ministro degli interni, che viene dalla regione più ricca d’Europa ed è un campione della linea dura all’interno della Germania, che ancora incolpa Angela Merkel per aver salvato dalla guerra e dalla morte i rifugiati siriani, iracheni e afghani. Voleva dagli alleati un impegno a non far muovere i profughi nel loro sogno di raggiungere la Germania, Paese nel quale ci sono parenti, amici, lavoro, benessere. Lo ha ottenuto, ma solo sulla carta: forse non sarà neanche sufficiente a placare la sua opinione pubblica, spaventata assurdamente da un’emergenza che non c’è più: chiusa la rotta dell’est, gli sbarchi da Sud si sono notevolmente ridotti negli ultimi mesi.

il compromesso
I governanti europei, il moderno Macron come la saggia Merkel come i populisti italiani, hanno la responsabilità di non aver saputo governare le paure, aiutare i propri elettori a cercare un rifugio e una rassicurazione veri e non solamente lo sfogo di un capro espiatorio con cui prendersela. Molti di loro hanno anzi alimentato queste paure, e ne hanno fatto la propria base elettorale. Ma un problema epocale come quello delle migrazioni – di tutti i tipi – non si risolve giocando a scaricabarile. Così la discussione e il fragile accordo europeo si sono concentrati su dove collocare la frontiera: appena al di sotto delle Alpi o oltre il Mediterraneo? In ciascuno dei due casi, non c’è stata nessuna volontà e disponibilità reale dei potenti e ricchi Paesi europei a farsi carico della propria quota di migranti e profughi: in questo rifiuto eccellono proprio i governi considerati dai nostri attuali leader più vicini e affini, quelli del blocco di Visegrad. Ne è venuto fuori un compromesso, la «redistribuzione dei profughi su base volontaria», che è un ossimoro dato che la volontà di prendersi una parte pur minima delle sofferenze del mondo non ce l’ha nessuno. Cooperazione tra i popoli e solidarietà con i più deboli dovrebbero essere scelti per principio, per tendenza naturale, almeno a sinistra; ma sono anche, in un mondo globalizzato e interconnesso, una strada obbligata. In questo momento, purtroppo, chiusa.

Roberta Carlini
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Foto in testa Ratto dell’Europa, Félix Vallotton (Losanna 1865-1925).
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