Dibattito. CheSuccede? CheFare? Partiamo dalla constatazione che siamo ultimi

valutazione microDisastro crescita: l’Italia è sempre più ultima in Europa, ma non frega niente a nessuno
Le previsioni economiche per il 2018 e per il 2019 indicano che non solo saremo (al solito) ultimi per crescita del Pil, ma che la distanza dagli altri continuerà ad ampilarsi: eppure in Italia si parla tutto fuorché di questo. Benvenuti in un Paese che muore di inconsapevolezza
di Francesco Cancellato su LinKiesta

Ultimi. Anzi, più che ultimi, con un distacco dalla penultima che aumenta di anno in anno. Ultimi quando tutti crescono e ultimi quando tutti decrescono. Sono i dati del quadro previsionale della Commissione Europea e certificano, nonostante i dati positivi degli ultimi anni, che la nostra economia viaggia davvero a un ritmo diverso da tutte le altre, come se fossimo una macchina col motore in avaria, o con una ruota in meno.

I dati, dicevamo, raccontano che nel 2018 chiuderemo con una crescita dell’1,5%, contro una media della zona Euro del 2,3% e una media dell’Unione Europea del 2,5%. Andrà ancora peggio nel 2019, dove i Paesi con l’Euro cresceranno del 2%, quelli dell’Europa a 27 del 2,2% e noi ci fermeremo all’1,2%. Peggio di noi nessuno. Sotto il 2% – parliamo delle previsioni 2019 – solo il Belgio e la Francia, comunque un buon mezzo punto avanti. Gli altri PIGS che viaggiano dal 2% del Portogallo al 4,1% dell’Irlanda, passando per il 2,4% della Spagna e il 2,3% della Grecia.

Colpa dell’Euro? Difficile, visto che quelli che ce l’hanno esattamente come noi, crescono molto più di noi. Dell’austerità? Nemmeno, visto che chi l’ha “subita” – non solo i Paesi mediterranei, ma anche quelli del nord come Germania e Finlandia che se la sono auto-imposta, viaggiano molto meglio di noi. Del mercantilismo tedesco e del suo surplus commerciale? Difficile sostenerlo, visto che i tedeschi crescono sotto la media europea, e che se c’è una cosa che cresce alla grande è proprio il nostro export.

L’esasperazione sociale, il rancore, la rabbia e la paura arrivano tutte da qua. Da un’economia malata, che non riesce a crescere di almeno due punti l’anno dall’inizio del millennio. Da un sistema Paese che preferisce tenersi tutti i suoi sprechi e tutte le sue inefficienze, anziché curarla. Da una cultura dell’alibi che produce capri espiatori in batteria – l’Euro, la finanza, i tedeschi, i migranti – pur di non mettere in discussione alcunché

No, cari. I dati raccontano proprio questo: che non c’è mezzo alibi a disposizione, a questo giro. Se siamo ultimi in Europa è per problemi nostri. È perché abbiamo un debito pubblico stellare, ad esempio, checché ne dicano i piazzisti del modello giapponese, quelli secondo cui dovremmo indebitarci come se non ci fosse un domani. Un debito che non ci consente di fare nessuna politica espansiva efficace, senza pagarne gli effetti. È perché abbiamo speso un sacco di soldi per caricarci sulle spalle fardelli insostenibili. O perché non siamo attraenti per gli investitori, esteri e italiani, a causa dell’incertezza del diritto, di tasse troppo alte, di una burocrazia settecentesca, della criminalità organizzata. O ancora, perché siamo ostili all’innovazione, al punto da spingere i giovani ad andarsene, dopo averli formati, purché non si azzardino a toccare nulla, a non cambiare nulla.

Anche, è a causa di scelte politiche sbagliate. Lo possiamo dire o no, che questi dati certifichino il fallimento di tutte le politiche per la crescita degli ultimi sette anni almeno, dalla fine della crisi dello spread a oggi? Che pur con tutte le migliori intenzioni gli ottanta euro non hanno rilanciato i consumi, il jobs act non ha rilanciato gli investimenti privati e l’occupazione, e industria 4.0 non ha fatto crescere produttività e salari, non abbastanza, perlomeno, per accorciare le distanze col resto del continente, che invece si sono ampliate? Se non abbiamo l’onestà di ammetterlo, come potremo provare anche solo a ragionare di strumenti e strade nuove?

Di fronte, non abbiamo niente di divertente, peraltro. Il 35% degli investitori interpellati da un sondaggio Bank of America e Merrill Lynch – più di uno su tre – hanno dichiarato che nell’ultimo mese avrebbero deciso di ridurre la loro esposizione in Italia. Peggio di noi, solo il Regno Unito, a causa della Brexit, giusto a ricordarci come finiremmo nel caso di uscita dall’Euro, altro spauracchio che evidentemente agita i sonni di chi vuole mettere del grano in Italia.

La cosa più buffa di tutte, però, è di tutto questo in Italia non si parla più. Del resto, non conviene a nessuno. Non a chi ci ha governato sinora, piazzista di retoriche sul Paese ripartito che non si sono rivelate tali. Non a chi governa, che di tutto si sta occupando fuorché di crescita e che anzi, per mano del suo ministro allo sviluppo economico, licenzia decreti dignità in cui si dice candidamente che farà diminuire i posti di lavoro – robetta: 8000 in dieci anni, ma non si era comunque mai visto – e che decide di ridiscutere un accordo firmato di rilancio e bonifica dell’Ilva di Taranto, uno dei più grandi investimenti esteri in Italia degli ultimi anni, in una terra maledetta e senza alternative.

Segnatevelo: l’esasperazione sociale, il rancore, la rabbia e la paura arrivano tutte da qua. Da un’economia malata, che non riesce a crescere di almeno due punti l’anno dall’inizio del millennio. Da un sistema Paese che preferisce tenersi tutti i suoi sprechi e tutte le sue inefficienze, anziché curarla. Da una cultura dell’alibi che produce capri espiatori in batteria – l’Euro, la finanza, i tedeschi, i migranti – pur di non mettere in discussione alcunché. Del resto, tra trent’anni, in Italia non ci vivranno né gli anziani, né i giovani. Perché occuparsene, no?

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Ecco perché la strategia di Salvini sulle migrazioni è già un fallimento totale
Disastri in Libia, dove la guardia costiera continua a fare il doppio gioco, nonostante gli accordi. Disastri in Italia, con una crisi istituzionale dietro l’altra. Disastri in Europa, con la folle alleanza con gli anti-italiani. Fare peggio in quaranta giorni era quasi impossibile
di Francesco Cancellato su LinKiesta.

Non poteva esserci smacco peggiore di un barcone con 450 persone a bordo a largo delle coste di Lampedusa, per Matteo Salvini. Meglio ancora: non poteva esserci miglior attestazione del velleitarismo e dell’inconsistenza del suo tentativo di chiudere a doppia mandata la rotta del Mediterraneo centrale dando soldi e ruolo alla guardia costiera libica ed eliminando le navi delle organizzazioni non governative da quel tratto di mare.

Indovina un po’, i migranti partono ancora, sono semplicemente passati dai gommoni alle barche. E il potere di deterrenza della guardia costiera libica, doppiogiochista per definizione, è semplicemente pari a zero, nonostante tutte le nostre generose elargizioni.

Se al Viminale ci fosse Alfano, per dire, staremmo tutti parlando di un fallimento clamoroso, l’ennesimo in soli quaranta giorni. Disastro in Libia, paese in guerra civile e teatro di sistematiche violazioni dei diritti umani, cui Salvini ha affidato i nostri confini meridionali, per spezzare le reni alle poche organizzazioni non governative presenti nell’area. Il risultato? Le partenze continuano imperterrite, semplicemente cambiano i mezzi messi a disposizione degli scafisti. E la guardia costiera continua a fare il suo doppio gioco – di cui tutti, tranne Salvini, paiono essere consapevoli – forte delle miglia di mare che le sono state gentilmente offerte da presidiare, dei soldi e dei mezzi messi a disposizione della Repubblica Italiana e della consapevolezza che Salvini le ha affidato la propria sopravvivenza politica. Non esattamente le peggiori condizioni del mondo, in una trattativa.

A scacchi, quando le mosse cominciano a diventare obbligate, vuol dire che la partita è persa, o quasi. E Salvini oggi ha solo poche mosse a disposizione per evitare lo scacco matto. O riuscirà ad alzare un muro nel Mediterraneo e a far partire i rimpatri – che sembrano spariti dall’agenda peggio dell’abolizione della Fornero -, o sarà riuscito nell’impresa di far diventare l’Italia il Paese-gabbia della rotta migratoria meridionale verso l’Europa

Disastro pure in Italia, a ben vedere, dove Salvini riesce nell’impresa di provocare una crisi istituzionale a settimana, ormai. Prima coi ministri della difesa e degli esteri Trenta e Moavero, che nel caso della nave irlandese che ha sbarcato 106 migranti a Messina nell’ambito della missione comunitaria Sophia, gli hanno ricordato che il Viminale non si occupa di trattati internazionali. Poi con il presidente Mattarella, che si è imposto sul premier Conte per far sbarcare a Trapani i 66 migranti raccolti dal rimorchiatore italiano Vos Thalassa e sbarcati sulla nave Diciotti della guardia costiera italiana, dopo che Salvini aveva chiuso loro il porto.

Disastro pure in Europa, infine, dove il risultato dell’alleanza con i Paesi del blocco di Visegrad e col ministro degli interni tedesco Horst Seehofer ha portato alla fine di ogni speranza di revisione del Trattato di Dublino, alla stretta sui movimenti secondari e alla minaccia di chiudere i confini con l’Italia. Alla faccia di Giuseppe Conte, che aveva esordito al consiglio europeo affermando che «chi sbarca in Italia, sbarca in Europa». E che oggi si trova nelle condizioni di dover provare a rinegoziare la missione Sophia, nuovo bersaglio delle ire salviniane, un «folle accordo», secondo il suo sodale, il ministro dei trasporti Danilo Toninelli, una delle poche missioni co-finanziate dai 27 stati membri che ha sinora fatto arrestare 143 sospetti trafficanti, neutralizzato 545 imbarcazioni e contribuito a salvare 44.251 vite.

A scacchi, quando le mosse cominciano a diventare obbligate, vuol dire che la partita è persa, o quasi. E Salvini oggi ha solo poche mosse a disposizione per evitare lo scacco matto. O riuscirà ad alzare un muro nel Mediterraneo e a far partire i rimpatri – che sembrano spariti dall’agenda peggio dell’abolizione della Fornero -, o sarà riuscito nell’impresa di far diventare l’Italia il Paese-gabbia della rotta migratoria meridionale verso l’Europa. Esattamente il contrario di quel che aveva promesso di fare. Non era facile fare peggio.
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