La cultura della crescita

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Joel Mokyr e le origini dell’economia moderna

di Gianfranco Sabattini*

Il mondo di oggi è più prospero che mai; si conoscono bene le trasformazioni economiche e sociali che sono seguite al processo di crescita avviato con la prima Rivoluzione industriale, a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo; si sa anche dove la prosperità è cresciuta. Restano però, misteriose, a parere di Joel Mokyr, docente di Economia e storia nella Northwestern University di Evanston nell’Illinois, le ragioni per cui ciò sia potuto accadere nelle forme che tutti ora conosciamo: in “Una cultura della crescita”, egli tenta di disvelare il mistero, cercando di individuare le diverse condizioni culturali, istituzionali e personali del perché la prosperità si sia concentrata solo in particolari aree e non sempre con la stessa intensità.
I fatti fondamentali che hanno accompagnato l’aumento della prosperità “sono indiscussi. La Rivoluzione industriale britannica del tardo XVIII secolo innescò un fenomeno che nessuna società [aveva] mai conosciuto, nemmeno da lontano”. Ovviamente, osserva Mokyr, le innovazioni sono state un fatto ricorrente nella storia; ma in tutti i momenti in cui esse si sono verificate, se ne è potuto valutare l’accadimento grazie a un impiego più efficiente delle risorse, i cui effetti in termini di reddito, però, sono stati molto limitati e, in molti casi, non sufficienti a compensare l’aumento della popolazione. Inoltre, le innovazioni, una volta incorporate nei processi produttivi, si sono normalmente interrotte, mancando di sostenere ogni altro possibile ulteriore avanzamento sulla via della prosperità.
Prima che prendesse il via la Rivoluzione industriale, alla fine del XVIII secolo, nessuna innovazione aveva innescato qualcosa che somigliasse a un continuo progresso tecnologico autosostenuto, al punto che – come ricorda Mokyr – il filosofo David Hume, all’inizio dell’industrializzazione dell’Inghilterra, poteva riassumere la storia economica del mondo sino alla sua epoca affermando che, “se l’ordine generale delle cose, e naturalmente la società umana, subiscono tali graduali rivoluzioni, esse sono tuttavia troppo lente per essere osservate” nel periodo in cui si verificano; per cui “la forza del corpo, la durata della vita, persino il coraggio e la potenza dell’ingegno sembrano quindi essere stati in tutte le epoche quasi completamente uguali”.
La descrizione di Hume dell’esperienza del passato in fatto di innovazioni può risultare valida ancora oggi, riguardo alla percepibilità dei processi innovativi; ma se la sua analisi fosse stata utilizzata come previsione di quello che sarebbe avvenuto di li a poco, rispetto al momento in cui egli scriveva, essa si sarebbe dimostrata del tutto errata. Ciò perché le innovazioni che si sono verificate all’inizio della Rivoluzione industriale (basta pensare all’introduzione del vapore come forma di energia alternativa a quella della forza meccanica prodotta dagli uomini, dagli animali, oppure dall’acqua e dal vento) nel XIX secolo si sono trasformate – afferma Mokyr – “in una cascata di innovazioni autosostenute”; per cui, se prima della Rivoluzione industriale la crescita della prosperità “è stata in gran parte guidata dal commercio, da mercati più efficaci e da migliori allocazioni delle risorse, la crescita dell’età moderna è stata sempre più sovente guidata dall’espansione da ciò che nell’età dell’Illuminismo ha ricevuto il nome di ‘conoscenza utile’”.
Alla fine del XIX secolo, le innovazioni che hanno caratterizzato l’inizio della Rivoluzione industriale e quelle succedutesi nei decenni successivi hanno trasformato le economie di gran parte dei Paesi europei e di quelle di alcuni Paesi non occidentali; da fenomeno eccezionale e discontinuo, le innovazioni si sono convertite in fenomeno continuo ed di routine, cioè in qualcosa di atteso; si poteva ignorare, afferma Mokyr, “dove si sarebbe manifestata la successiva ondata di progressi tecnologici, ma ci si era abituati a questo fenomeno”, al punto di attendersi abitualmente che, prima o poi, le precedenti innovazioni sarebbero state seguite da delle nuove.
E’ stato così che la crescita della prosperità nelle economie dei secoli XIX e XX è divenuta persistente e continua e, ”nonostante una serie di disastri politici ed economici autoinflitti nel XX secolo, l’Occidente industrializzato ha recuperato miracolosamente dopo il 1950 ed è stato in grado di raggiungere livelli di vita che sarebbero stati impensabili nel 1914, per non parlare del 1800”. Il ritmo con cui è aumentata la prosperità dei Paesi industrializzati ha dato luogo alla “grande divergenza”, con cui oggi si è soliti descrivere la “leadership dell’Occidente nel trionfo della crescita moderna”. Si tratta di una leadership acquisita grazie a “qualcosa” che Mokyr chiama “cultura” e che riguarda soprattutto l’Europa. Al fine di sottrarre la sua interpretazione della grande divergenza dall’accusa d’essere eurocentrica, il concetto di cultura che Mokyr adotta è di natura antropologica, in quanto comprende come sue componenti fondamentali, sia le istituzioni, sia gli incentivi che motivano all’agire economico.
A parere di Mokyr, un’economia che cresce richiede istituzioni favorevoli: diritti di proprietà ben definiti e rispettati, contratti cogenti, legge e ordine, un basso livello di opportunismo e parassitismo, un alto grado di coinvolgimento nel processo decisionale, la condivisione dei benefici della crescita e un’organizzazione politica in cui il potere e la ricchezza siano separati il più possibile. Tuttavia, l’esistenza di istituzioni favorevoli non è sufficiente di per sé a promuovere una moderna crescita economica, la quale da sola non spiega “la crescita della creatività tecnologica e dell’innovazione”, per la cui diffusione (com’è accaduto negli anni successivi alla fine del Settecento) sono stati necessari incentivi strumentali a motivare gli uomini all’azione.
I motori del progresso tecnologico e dell’innovazione sino, a parere di Mokyr, l’atteggiamento e l’attitudine: “il primo determina la volontà e l’energia con cui le persone cercano di comprendere il mondo naturale intorno a loro; il secondo determina il successo nel trasformare tale conoscenza in una maggior produttività e in più elevati standard di vita”. Mokyr assume che il progresso tecnologico in Occidente sia stato determinato dai cambiamenti della cultura (intesa in senso antropologico), sia direttamente, mutando l’atteggiamento verso il mondo naturale, sia indirettamente, creando e perfezionando istituzioni per stimolare e sostenere l’accumulazione e la diffusione della “conoscenza utile”.
Per capire come cambia la cultura, occorre, secondo Mokyr, tenere presente che, da un punto di vista antropologico, essa è “un insieme di credenze, valori e preferenze in grado di influenzare il comportamento socialmente (non geneticamente) e trasmessi e condivisi da determinati sottoinsiemi della società”. Le “credenze” contengono proposizioni fattuali di natura condivisa riguardo allo stato del mondo e le relazioni sociali; i “valori” concernono proposizioni normative sulla società e sulle relazioni sociali; le “preferenze, infine, sono proposizioni normative riguardanti questioni individuali. Le istituzioni si rapportano positivamente a credenze, valori e atteggiamenti (cioè alla cultura), solo se esse sono aperte, attraverso il regime politico adottato, alla libertà e all’inclusione sociale nei processi decisionali; mentre se le comunità “incappano in governanti predatori”, che creano istituzioni cattive, ostacolano la crescita economica, causando la conservazione dell’arretratezza e la diffusione della povertà.
Le istituzioni (cioè la cultura) non sono di per sé garanzia di crescita economica; per esserlo, afferma Mokyr, occorre che esse creino l’ambiente sociale adatto a favorire l’evoluzione della cultura, tenendo conto che tale evoluzione, essendo il risultato di continui conflitti sociali, deve contribuire a conservarne i costi sociali entro limiti il più possibile bassi. Per raggiungere questo risultato occorre che le istituzioni favoriscano la formazione e la diffusione di un crescente livello di fiducia e di cooperazione tra i diversi gruppi sociali; oppure, che esse (le istituzioni) contribuiscano alla formazione di una crescente “coscienza civica”, utile a fare interiorizzare ai diversi gruppi sociali “la volontà di astenersi da comportamenti sregolati” e a supportare una maggiore offerta di beni pubblici e più alti “investimenti infrastrutturali rispetto a quanto altrimenti sarebbe possibile”.
Mokyr ritiene che la maggior parte delle ricerche sulla cultura condotte nell’ottica degli economisti abbiano principalmente privilegiato gli aspetti attinenti le “istituzioni formali e informali che favoriscono la cooperazione, la reciprocità, la fiducia e l’efficiente funzionamento dell’economia; mentre hanno trascurato, quasi del tutto, l’“atteggiamento nei confronti della natura e della disponibilità e la capacità di sfruttarla in funzione delle esigenze materiali umane”. In altre prole, nelle loro ricerche sulla cultura, gli economisti avrebbero trascurato di considerare l’interesse per la ricerca utile, come fattore di crescita dello sviluppo tecnologico.
E’ nella volontà e capacità di acquisire e valorizzare la ricerca sulle “conoscenza della natura” che, a parere di Mokyr, vanno ricercate le radici della crescita della prosperità; in particolare – egli sostiene – queste radici vanno ricondotte agli eventi che hanno preceduto “l’Illuminismo e la Rivoluzione industriale settecentesca nei secoli che, nel bene o nel male, sono detti ‘Europa della prima età moderna’, approssimativamente compresi tra il primo viaggio di colombo in America [1492] e la pubblicazione dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (Principia) di Newton [1687]”. Le istituzioni europee, conclude Mokyr, sono state modellate proprio nell’arco di tempo compreso tra la scoperta dell’America e la pubblicazione dei “Principia”, fino a diventare lo strumento con cui sono stati plasmati gli atteggiamenti e le attitudini degli uomini cui si devono i “cambiamenti economici epocali che hanno creato le economie moderne”, dando il via a quel processo che darà origine alla “grande divergenza” tra Paesi economicamente avanzati e Paesi arretrati.
Quale giudizio può essere formulato riguardo alla tesi di Mokyr? L’Illuminismo ha segnato senz’altro l’età della scoperta dell’importanza della “conoscenza utile” ai fini della crescita, ma l’impiego di tale conoscenza ha potuto produrre nel tempo la differenziazione crescente tra Paesi prosperi e Paesi arretrati, solo perché la cultura dei primi è stata sorretta da due idee innovative: da un lato, quella secondo cui la “conoscenza e la comprensione della natura possono e devono essere usate per migliorare le condizioni materiali dell’umanità”; dall’altro lato, l’idea che “il potere e il governo non siano lì per servire i ricchi e i potenti ma la società in generale”.
In altri termini, l’Illuminismo ha concorso a creare le condizioni perché fosse attuato un processo di crescita continuo ed autosostenuto, solo perché le istituzioni, attraverso le quali esso è stato interiorizzato, sono state politicamente inclusive e non estrattive; ovvero perché esse hanno lentamente coinvolto nei processi decisionali e nella fruizione dei risultati della crescita la generalità dei componenti delle popolazione, e non solo i componenti di ristretti gruppi sociali privilegiati. E’ questa una verità della quale i “poteri forti”, dominanti all’interno dei sistemi economici contemporanei, sembrano aver smarrito il senso, oscurando in parte ciò di cui l’Illuminismo era stato portatore.
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