Ci salverà la Provvidenza?

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La manovra del popolo
di Roberta Carlini su Rocca
L’hanno battezzata «manovra del popolo», e quasi tutti, come spesso succede in un mondo della comunicazione drogato dalla dittatura dei titoli e degli hashtag, questa parola chiave si è propagata senza indagare bene sul suo significato. In senso stretto, tutte le manovre sono «del popolo», sia nel senso che a dettarle sono i legittimi rappresentanti eletti dal popolo, che nel senso più ampio: è il popolo a goderne i benefici e a pagarne le conseguenze. Ma dietro questo nome c’è un sottinteso che è poi la chiave con la quale si giocherà tutta la propaganda politica di qui alle elezioni europee: il popolo contro i mercati, l’élite, l’Europa. È così? Salvini e Di Maio, con i loro prestanome più o meno riluttanti Conte e Tria, si apprestano alla battaglia del secolo per uscire dai condizionamenti che da quando è nato l’euro, e ancor più dopo la crisi finanziaria del 2012, impediscono ai governi di scegliere in libertà come formare il proprio bilancio?
I numeri sui quali si concentra la polemica sembrano dire di sì. Il rapporto tra deficit e Pil fissato programmaticamente al 2,4%, ossia un po’ più in alto di quello che era stato promesso dai passati governi e anche dal presente al suo esordio in Europa. La manovra da 37 miliardi, quasi tutti destinati a spese (reddito di cittadinanza e revisione della Fornero) e minori entrate (abolizione della clausola di salvaguardia sull’Iva, flat tax per gli autonomi) che allontanano dai sentieri di risanamento della finanza pubblica voluti dalle autorità europee. Le previsioni sulla crescita del prodotto interno lordo, così incoerenti e sballate da aver portato alla bocciatura tecnica dell’Ufficio parlamentare di bilancio. Tutti i «no» che questo quadro ha ricevuto (lo stesso Upb, il Fmi, la Commissione europea) e riceverà (le odiate agenzie di rating, di qui a fine mese) si concentrano su questi numeri: e sono «no», per parafrasare il titolo di un saggio famoso dedicato all’educazione dei figli, «che aiutano a crescere»: fanno crescere il consenso elettorale dei due partiti di governo, che si sono animosamente spartiti la torta della manovra dando soddisfazione alle rispettive basi votanti.

il pericoloso non detto
Fin qui, operazione perfettamente riuscita, da parte dei «manovratori del popolo»: anche le preoccupazioni e persino il panico sullo scenario internazionale possono rinsaldare quel cemento nazionalista e patriottico sul quale si nutre la retorica dei due partiti. Ma c’è un non detto, ci sono dei numeri meno trattati e meno discussi, ma più pericolosi, che dovrebbero preoccupare anche i manovratori. Sono quelli che indicano la spesa per interessi, la punta che segnala l’enorme iceberg del debito pubblico contro il quale anche la corazzata giallonera può finire per sbattere. Tutti sanno che l’Italia ha un gigantesco debito pubblico, e che in rapporto al prodotto questo è pari adesso al 132%. Cioè abbiamo un debito più grande, e di parecchio, della ricchezza che produciamo annualmente. Questo fa sì che navighiamo nella tempesta da anni, anche in presenza di una paradossale virtù: da anni ormai l’Italia ha un avanzo primario, vale a dire che incassa più di quanto spende – se dalla spesa dello Stato togliamo quella per gli interessi. Per essere precisi, è dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso che il bilancio pubblico italiano presenta un avanzo primario. Nel 2012, anno della grande crisi dei debiti sovrani, c’erano solo nove Paesi dell’Ocse ad avere un surplus primario, e tra questi c’era l’Italia. Il saldo è rimasto positivo negli anni di Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, e lo è ancora persino nel budget giallonero. Ma la spesa per interessi, grande quanto 2-3 manovre, va a sommarsi al virtuoso avanzo primario, lo annulla e sposta il saldo in negativo. Questa spesa era pari a 65,6 miliardi lo scorso anno: per avere un termine di paragone, lo Stato italiano spende ogni anno la stessa cifra nella scuola. Secondo le previsioni, la spesa per interessi doveva scendere quest’anno attorno ai 62 miliardi. Invece, per ammissione dello stesso governo – attraverso i numeri della Nota aggiuntiva al Def – sarà di 64,5 miliardi.

i mercati e lo spread
L’aumento non deriva da avverse condizioni meteo o da fatalità, ma dalla sfiducia che si è diffusa sui mercati sulle prospettive dell’Italia e dunque dall’aumento del premio di rischio che lo Stato italiano deve pagare a chi sottoscrive il suo debito. Le tensioni sui mercati hanno portato anche a rivedere la spesa per i prossimi anni (fonte Upb, sulla base dei dati del ministero dell’economia): almeno 3 miliardi per il 2019, 4 e 4,5 nei due anni successivi. E la stima potrebbe salire, visto che, da quando quel documento è stato scritto, i mercati hanno continuato a registrare «tensioni».
Ma cosa sono poi, queste tensioni sui mercati? È colpa degli arcigni commissari europei, che, per usare le parole di Salvini, non «si fanno una ragione» della volontà democraticamente espressa dal popolo italiano? O è colpa delle famigerate agenzie di rating, quelle che danno le pagelle al debito, e che avevano promosso a pieni voti la Lehman Brothers un giorno prima del suo fallimento? Il nuovo governo italiano è libero di pensarla e raccontarla così, e ha anche dalla sua una parte di verità: i mercati sono frequentati dalle persone, la cui razionalità è limitata dalla scarsa conoscenza di tutte le variabili e le cui aspettative sono influenzabili da previsioni che spesso si auto-alimentano; e i leader del gioco sono un pugno di soggetti potentissimi, che muovono i capitali nel mondo. Ciò non toglie che, se si è costretti a giocare in quel campo, bisogna conoscerlo e seguire le sue regole. In altre parole: se il governo italiano deve finanziare il suo debito sul mercato, non può infischiarsi di quel che lì succede.
L’aumento dello spread, prima che impaurire i piccoli risparmiatori, detentori di
mutui o stipendi fissi, deve terrorizzare i debitori, cioè in primis il governo. C’è un altro dato indicativo in proposito, ed è la fuga dei capitali dall’Italia, già in atto. Gli investimenti esteri in titoli del debito pubblico italiano sono scesi subito dopo la formazione del nuovo governo: meno 25 miliardi a maggio e 33 a giugno. Come ha scritto la ricercatrice Silvia Merler su lavoce.info, in soli due mesi i flussi in uscita sul totale degli investimenti di portafoglio in Italia hanno superato quelli registrati nei mesi estivi del 2011 (il periodo della crisi greca) e sono circa la metà del totale registrato durante l’intera crisi del 2011-2012.
Per concludere: c’è un’emergenza-debito sui mercati, che presenterà il suo conto ben prima della conclusione della farraginosa procedura di infrazione che con tutta probabilità la Commissione europea avvierà contro l’Italia. Della seconda il governo può far finta di fregarsene, e anzi può usarla per alimentare la sua propaganda e far salire la sua popolarità; ma la prima rischia di «mangiarsi» gran parte della manovra ancora prima che questa concluda il suo iter in parlamento.

un’azione redistributiva possibile
Questo vuol dire che i governi non possono far niente, se guidano un Paese debitore e dunque obbligato a presentarsi tutti i mesi sui mercati a rinnovare il suo debito? Non necessariamente. La manovra messa in atto, negli stessi giorni della nostra, dal governo spagnolo, basata su una patrimoniale sulle grandi fortune e un sostegno ai salari minimi, dimostra che un’azione redistributiva credibile può essere fatta, se coerente e finanziata con coperture reali e non con nuovo debito. Ma manovre spericolate, che abbaiano e fingono di mordere la stessa mano alla quale si va a chiedere aiuto, non possono che portare a esiti pericolosi. Lo temono gli stessi risparmiatori italiani, che stanno portando i soldi all’estero o nelle cassette di sicurezza. Salvini, Di Maio e gli economisti (o presunti tali) che li consigliano contano sul fatto che l’Italia è «too big to fail», troppo grande e importante per essere lasciata fallire. Proprio come le grandi banche che, nei loro discorsi retorici, attaccano tutti i giorni. Per qualcuna di loro però non è andata a finire bene.
Roberta Carlini
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