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Editoriali
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Appello per una proposta europea di cessate il fuoco
Nel precedente editoriale abbiamo dato spazio alla bella intervista che Marco Bevilacqua ha fatto al direttore di Avvenire Marco Tarquinio per Rocca (al riguardo ringraziamo gli amici e il direttore di Rocca, quindicinale della Pro Civitate Christiana di Assisi, con cui intratteniamo rapporti di collaborazione, consolidatisi nel tempo). Personalmente mi ritrovo
nelle riflessioni di Marco Tarquinio, condividendo la carica utopica e nello stesso tempo realistica, che le sue parole esprimono. In questa tristissima e cruenta vicenda della guerra mossa dalla Russia contro l’Ucraina, che sta provocando ogni giorno di più distruzione e morte, sembra che il problema fondamentale sia la vittoria finale. Ed è pertanto ovvio che occorra parteggiare per l’aggredito, l’Ucraina, che nonostante il dato di partenza alla stessa sfavorevole, possa rovesciare ogni pronostico e far trionfare la giusta causa di legittima e doverosa difesa. Prima o poi si arriverà a una fine di questa maledetta guerra. A che prezzo, oltre quello che le due parti in causa stanno pagando? Siamo in molti a credere che questa guerra non fosse inevitabile e che comunque debba essere quanto prima fermata. Come? Con gli strumenti alternativi allo scontro armato che il diritto internazionale e quello delle nazioni civili hanno elaborato nei millenni della storia dell’umanità. La nostra Costituzione li ha mirabilmente riassunti in un articolo (n. 11) che giustamente viene riproposto in tutte le circostanze che lo richiedano: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” L’Ucraina ha il diritto di difendersi, come sta facendo, richiedendo tutti gli aiuti possibili. Gli Stati occidentali concretizzano questi aiuti in contributi umanitari e in accoglienza a quanti scappano dai paesi e città bombardate (e su questo tutti si è d’accordo) e in armi (e su questo le posizioni si dividono). Ma il punto fondamentale è che l’alternativa allo scontro armato, cioè la trattativa, come appunto prevede il dettato costituzionale italiano, passa in secondo piano, in attesa che si determinino realistiche condizioni. Ma se queste non si cercano, seppure faticosamente, mai o quanto più tardi nel tempo si realizzeranno. Ecco un recentissimo appello promosso da alcune importanti organizzazioni nazionali e dal quotidiano Avvenire richiede con forza che cessi immediatamente il conflitto armato e che si avvii una vera trattativa. A questo compito sono chiamate ovviamente le parti in causa, e, con un ruolo di autorevole mediazione l’Unione Europea e l’Onu. Rimandiamo ogni ulteriore spiegazione al testo dell’Appello e alle argomentazioni di Marco Tarquinio, che lo sostiene, ospitate dal portale web de L’Osservatore Romano del 21 giugno scorso. Un’ultima considerazione: l’Appello appare del tutto coerente con le posizioni del Comitato No armi – Trattativa subito, presentato a Cagliari mercoledì 22 giugno, di cui diamo ampiamente conto in altra parte della nostra news. (Franco Meloni)
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Appello
per una proposta europea
di cessate il fuoco21 giugno 2022
Anpi, Arci, Movimento europeo, il quotidiano «Avvenire» e altri organismi hanno firmato un documento congiunto per richiedere un intervento tempestivo di Unione europea e Onu a favore di un cessate il fuoco in Ucraina. Il documento, presentato il
20 giugno a Roma nella sede dell’ufficio italiano del Parlamento europeo, punta alla costruzione di un tavolo di pace simile a quello che portò agli accordi di Helsinki (1975), ma con protagonista l’Europa unita.
«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». (art.11 della Costituzione della Repubblica italiana). Siamo con la popolazione ucraina martoriata dalla guerra e vittima dell’aggressione russa.L’Ucraina sta resistendo in molte forme, militari e civili, ma la guerra è sempre una sconfitta, per tutte le parti coinvolte, per la diplomazia e per la politica. Negli ultimi giorni si sta facendo più netta la preoccupazione per la drammatica accelerazione di un conflitto atroce, che può portare a un tragico scontro bellico mondiale e che sta già innescando una crisi alimentare pagata da tanti e soprattutto in alcune delle nazioni più povere del pianeta.
Spetta all’Unione europea la responsabilità di promuovere una concreta iniziativa di pace. La guerra è scoppiata in Europa e saranno i Paesi dell’Ue a sopportarne le conseguenze sociali, economiche, energetiche e militari. Sarà l’Ue responsabile in buona parte del finanziamento e della ricostruzione delle città e delle infrastrutture ucraine.
L’Ue deve immediatamente operare con una sola voce, con la spinta concorde del Parlamento europeo e della Commissione, diventando un affidabile intermediatore e non delegando solo agli Stati Uniti d’America e alla Nato decisioni che riguardano in primo luogo l’Europa.
Occorre operare affinché si stabilisca in Europa un nuovo clima di concordia e si avvii nel mondo, come ha affermato il presidente Mattarella a Strasburgo, «un dialogo, non prove di forza tra grandi potenze che devono comprendere di essere sempre meno tali». Si aprano subito negoziati per un definitivo accordo di pace!
La Russia deve immediatamente cessare le operazioni militari e a tutte le parti coinvolte chiediamo di avviare colloqui di pace e allo stesso tempo auspichiamo l’immediato ritiro delle truppe russe. Chiediamo a tutte le organizzazioni internazionali, in primo luogo alle Nazioni Unite, ma soprattutto all’Unione europea, di assumersi immediatamente la responsabilità di una intermediazione che consenta al più presto il cessate il fuoco in Ucraina ed eviti a tutti i costi l’allargamento e l’aggravarsi del conflitto in altre regioni d’Europa.
Chiediamo che l’Unione europea ed il nostro governo agiscano nell’ambito dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite con una decisa azione nei confronti del Consiglio di Sicurezza per l’invio di forze di interposizione (peace-keeping) sotto la bandiera delle Nazioni Unite, per garantire il rispetto del cessate il fuoco, facendo della protezione dei civili la loro priorità. Le operazioni umanitarie dovranno essere intensificate in Ucraina e ai suoi confini. Alle Nazioni Unite va garantito un accesso sicuro e senza ostacoli a tutte le aree del conflitto.
Chiediamo che venga stabilito subito un corridoio umanitario sicuro per i profughi e gli sfollati e per il transito di forniture mediche salvavita e del personale sanitario. Chiediamo che l’Ue agisca politicamente unita in sede di negoziato internazionale come soggetto mediatore con una posizione condivisa e forte, diventando quell’importante attore autonomo ed indipendente necessario nella fase di ridefinizione di nuovi equilibri geopolitici. Bisogna allontanare il rischio che l’Europa sia scavalcata e che siano altre le sedi in cui si prendono decisioni strategicamente fondamentali, anche per quanto riguarda un conflitto in uno dei Paesi ai confini dell’Ue.
Chiediamo che venga applicato dall’Unione europea l’art. 21 del Trattato dell’Ue (tit. V ) che sancisce: «L’Unione promuove soluzioni multilaterali ai problemi comuni, in particolare nell’ambito delle Nazioni Unite. (…) L’Unione opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali al fine di: (…) preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale, conformemente agli obiettivi e ai princìpi della Carta delle Nazioni Unite, …».
Chiediamo che l’Unione europea attivi un sistema europeo di sicurezza comune e interdipendente, una vera e propria Unione della Difesa e della Sicurezza a due “braccia”, una militare non aggressiva e l’altra civile nonviolenta, di cui siano esplicitati e chiariti gli obiettivi, che dovranno essere mirati alla esclusiva difesa interna del territorio dell’Unione e dei suoi Stati membri ed esternamente al mantenimento della pace solo e rigorosamente in quanto forze di interposizione (peace-keeping) e al tempo stesso strutturi reti di difesa civile non armata e politiche comuni di cooperazione internazionale allo sviluppo sostenibile.
Chiediamo che l’Ue ridefinisca le regole di accoglienza di profughi e immigrati e di tutti coloro che fuggono dalle guerre, dalla violenza e dalla miseria. L’accoglienza dei profughi ucraini ha dimostrato che l’Ue può agire rapidamente e in modo efficace, usando lo strumento della protezione temporanea, ma portando a conclusione la riforma del regolamento di Dublino.
Chiediamo che l’Unione europea promuova nel quadro dell’Osce e delle Nazioni Unite e a partire dagli accordi internazionali esistenti (Accordi di Helsinki del 1975), un trattato fra tutti gli attori coinvolti nel conflitto, superando tutte le attività fin qui portate avanti in ordine sparso da singoli Paesi europei. Solo una Conferenza internazionale potrà affrontare la questione del disarmo multilaterale, stabile e condiviso, priorità per la sopravvivenza dell’umanità nel tempo delle armi di distruzione di massa sempre più governate da intelligenze artificiali e per il progresso sociale ed economico globale.
L’Unione europea, comunità di popoli e grande laboratorio di integrazione pacifica degli Stati, può favorire la costruzione di un sistema di equilibrio geopolitico multilaterale, pur nel rispetto di regimi politici ed economici diversi, e dare impulso allo sviluppo di governance mondiale condivisa. Sarà per questo urgente affrontare le profonde riforme necessarie alle istituzioni internazionali, a partire dall’Onu, dalle sue strategie e dagli organismi multilaterali a essa collegate.
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Una richiesta di pace che parte dal basso
Marco Tarquinio illustra l’iniziativaIl direttore di «Avvenire», Marco Tarquinio, si sofferma sui punti salienti della proposta di pace e sul riscontro che in essa hanno le parole e i ripetuti appelli di Papa Francesco.
Quali sono i punti centrali di questa chiamata alla responsabilità?
È un appello che parte dal basso, che vuole spingere chi ha potere politico in una direzione diversa rispetto a quella intrapresa finora, ricordando tutti gli strumenti a disposizione. Innanzitutto l’Onu, laddove l’Ue, attraverso uno dei suoi membri, la Francia, deve assumersi la responsabilità di promuovere una iniziativa di intermediazione. Si sollecita poi l’intervento di una forza di interposizione, tenendo sempre aperto un corridoio umanitario. In sintesi, si chiede che l’Europa sappia diventare adulta, che si dia un sistema di sicurezza comune, con una vera e propria difesa della sicurezza con due braccia: una militare non aggressiva ed una civile e non violenta. L’altro grande appello riguarda le organizzazioni multilaterali, come l’Osce che dovrebbe diventare punto di riferimento e spirito delle azioni che vengono svolte, perché non si precipiti verso la direzione di Yalta, ma verso quella degli accordi che nel ’75 (Accordi di Helsinki) aprirono una fase nuova nel rapporto tra gli Stati europei, per la stabilità e la pace nel mondo.
Un’Europa adulta, lei dice, che ora sta finanziando con le armi il conflitto, ma che nel trattato Ue, all’art 21, ha scritta la chiamata alla responsabilità, alla promozione della pace, alle soluzioni multilaterali, a prevenire i conflitti. Ora tutto sembra paralizzato. Perché questo articolo non va?
Non va perché l’Europa non è concorde nella direzione da prendere, nonostante l’apparente unanimità delle prime fasi. L’auspicio è che, anche senza unanimità assoluta, almeno da parte delle istituzioni europee ci sia la capacità di prendere un’iniziativa di cooperazione rafforzata, come accaduto con la missione comune a Kiev dei leader di Francia, Germania e Italia. Vorremmo che ciò si consolidasse, utilizzando gli strumenti indicati dall’articolo 21 che va nella stessa direzione dell’11 della Costituzione della Repubblica italiana, quello che dice che l’Italia ripudia la guerra come strumento nella soluzione delle controversie con gli altri Stati. Vorremmo una iniziativa forte e coesa dei grandi leader europei, che rispondesse al sentire di tante popolazioni che non sono rappresentate da ciò che sta accadendo sulla scena pubblica.
Come si può sostenere la vostra proposta di pace?
Io credo che la strada sia quella di organizzare mobilitazioni dal basso, come già accade. Occorre dimostrare ai governi che non può permanere questo scollamento tra tanta parte dell’opinione pubblica e quelli che hanno le leve per spingere in una direzione diversa. Bisogna saper premere sui protagonisti della guerra, perché scelgano un percorso diverso, che la faccia finita con le sofferenze delle popolazioni, a cominciare dalla popolazione ucraina che, in questa fase, è quella aggredita.
Le posizioni del Papa sulla guerra sono state criticate e ritenute una utopia. Lei come le considera?
La cosa più grave è che siano anche state censurate. Credo che in questo momento si debba avere gratitudine verso il Papa. Ancora una volta c’è una strada che si inabissa e che sembra non si possa percorrere. Il Papa sa dirci questo e lo fa da uomo di fede, da primo cittadino di un mondo che non ha altri primi cittadini che sappiano prendere iniziative di pace. Non è un caso che anche i proponenti dell’appello a cui ho aderito, abbiano voluto rivolgersi per primi al mondo cattolico, attraverso il presidente della Cei, il cardinale Zuppi, che si è impegnato a riceverlo e a consegnarlo alla Santa Sede, perché tutti riconoscono in Francesco il punto di riferimento più alto, più credibile e più limpido, in un momento in cui, purtroppo, alcune delle altre voci che sono in campo, non hanno l’interesse generale della costruzione di un nuovo livello di sicurezza, di convivenza e di rispetto reciproco nel segno, fondamentale per noi cristiani, della fraternità.
di Gabriella Ceraso, su L’Osservatore Romano del 21 giugno 2022.
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[…] Un bel aforisma di Barbara Wootton* “E’ dai campioni dell’impossibile piuttosto che dagli schiavi del possibile che l’evoluzione trae la sua forza creativa” Il CoStat propone un’Intesa al Centro Sinistra, al M5Stelle e alle organizzazioni indipendentiste e autonomiste per battere la Destra di Salvini e soci. Missione impossibile? Non è detto. Il CoStat non demorde e, dati alla mano, chiama tutti all’impegno perché la Sardegna non venga consegnata alla Destra, la peggiore Destra oggi presente sullo scenario politico. L’Unione Sarda – Edizione del 1/12/2018 Sezione “Primo Piano” Centrosinistra e Cinquestelle uniti al voto per battere Salvini in Sardegna. Fantapolitica? Non per Andrea Pubusa, ex consigliere regionale del Pci e animatore del dibattito nella sinistra sarda. «La mia proposta – spiega – nasce da un’osservazione: a livello nazionale si è arrivati a questo governo per il veto del Pd sui 5Stelle. Uguale a quello di Grillo su Bersani 5 anni fa. Esclusioni reciproche che hanno avuto esiti disastrosi». [segue] In Sardegna la situazione politica è diversa. «Parto da un ragionamento matematico, oltre che politico. Salvini è dato al 36%, il M5S sopra il 20, il centrosinistra con Zedda su cifre simili. Se cadessero quelle preclusioni, con un blocco unico potrebbero bloccare Salvini». È così importante batterlo? «Beh, se lo si accusa di fascismo, allora le forze democratiche dovrebbero mostrarsi responsabili e unirsi. E poi una forza da sempre anti-Sud non può trionfare nella terra di Lussu, Gramsci, Dettori». Ma il Movimento 5Stelle con Salvini ci governa. «Sì, ma ne è fagocitato ogni giorno di più. Il M5S ha interesse a non consegnargli la Sardegna per non dargli una forte rincorsa per conquistare del tutto il livello nazionale. E il Pd… il Pd deve decidere cosa fare da grande». Non sembra che ci siano le condizioni per un’intesa simile. «Io credo che ci possano essere. Lo impone la legge elettorale. Devi fare un contratto di governo prima del voto, perché poi non si può. Un vantaggio per tutti i contraenti, che vincendo eleggerebbero molti più consiglieri». Lei è stato spesso accostato ai 5Stelle. È corretto? «Non sono del M5S, mi considero un vecchio pensatore di sinistra. Condivido alcune loro idee, come il reddito di cittadinanza e la lotta alla corruzione, temi storici della sinistra. Se non ha i paraocchi, un vero democratico non può non sostenerle». Il M5S ha anche votato il decreto sicurezza. «Lì c’è un contratto da rispettare, se no cade il governo, e capisco che il M5S non voglia. Però, appunto, fermare Salvini qui servirebbe anche a rinfrescare la carica innovativa del Movimento». Ha mai parlato della sua idea ai vertici locali del M5S? «Mesi fa, ad alcuni amici, ho fatto una proposta limitata: con questa legge elettorale avrebbero dovuto accordarsi, prima del voto, con l’area democratica. Hanno detto di no, ma ora le cose sono cambiate. Il M5S arranca con le regionarie, il Pd ha scelto Zedda come foglia di fico». Zedda non le piace? «Lotta per arrivare secondo anziché terzo. Non credo che il suo impatto andrà oltre il Medio Campidano. Ma un po’ tutti stanno pensando a perdere bene più che a vincere. Pds e Autodeterminatzione sperano di superare il 5%; lo stesso M5S sa che non vincerà. Perché non provare a vincere tutti insieme?» Con quale candidato? «Si dovrebbe cercare insieme una figura condivisa». Non Zedda, comunque. «Lui rappresenta, al di là del suo successo, la sinistra minoritaria che si è autodistrutta. Il M5S sceglierà una brava persona, ma poco nota. In Sardegna ci sono molte figure autorevoli che potrebbero guidare una tale alleanza, non lo vedo un problema». E i programmi? «Ci sono molti temi su cui basare un contratto di governo: occupazione, lotta alla povertà, difesa dell’ambiente, taglio delle servitù militari». Su altri però ci sono vedute opposte, come il metanodotto. «Su questo, i contrari non sono solo nel M5S. Certo, il programma non sarà solo rose e fiori, ma il problema sono i pregiudizi reciproci. Però con gli stereotipi andiamo a sbattere contro il muro». Giuseppe Meloni, L’Unione Sarda sabato 1 dicembre 2018. […]
[…] Dopo la pubblicazione, nel 2013, di “Il reddito minimo universale” e, nel 2017, di “Il reddito di base”, entrambi dedicati dagli autori, Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght alla spiegazione del significato e della funzione del reddito di cittadinanza (assegnato a ogni individuo senza vincoli di “contropartite lavorative” e senza “prova dei mezzi”), era plausibile attendersi che la classe politica si fosse presa la briga di leggerli; ciò avrebbe consentito di evitare la confusione, ormai radicata anche nell’opinione pubblica, che solitamente viene fatta per la mancata distinzione tra la forma di reddito della quale parlano gli autori e tutte le misure monetarie di natura welfarista adottabili e adottate (come, ad esempio quella introdotta dall’attuale governo italiano) per contrastare il fenomeno della povertà. La confusione non potrà essere d’aiuto per riflettere sui contenuti più appropriati della politica economica, presumibilmente chiamata nel prossimo futuro ad affrontare i fenomeni dell’insicurezza economica e dell’esclusione sociale che affliggono attualmente il sistema socio-politico dell’Italia, congiuntamente a quello di molti altri Paesi industrializzati di mercato, per tutte le ragioni puntualmente illustrate nei libri sopra richiamati. Viviamo in un mondo radicalmente nuovo rispetto a quello nato e consolidatosi nei primi trent’anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale; si tratta – affermano Van Parijs e Vanderborght, – di un mondo “riplasmato da numerose forze: la dirompente rivoluzione tecnologica determinata dal computer e da Internet; la globalizzazione dei mercati, delle migrazioni e della comunicazioni; la crescita impetuosa della domanda mondiale di beni a dispetto dei limiti imposti dall’esaurimento delle risorse naturali e dalla saturazione dell’atmosfera; la crisi delle tradizionali istituzioni protettive, dalla famiglia ai sindacati, ai monopoli di Stato, ai sistemi di welfare; infine le interazioni esplosive di queste varie tendenze”. Per poter valutare razionalmente come contrastare le minacce delle quali sono portatrici queste tendenze, occorre, a parere di Van Parijs e Vanderborght, definire un quadro istituzionale di riferimento alternativo a quello esistente; a tal fine, gli autori, affermati docenti di economia e di scienza politica e divulgatori dell’idea di “reddito di base” (o reddito di cittadinanza), avanzano la proposta di un “nuovo quadro istituzionale” fondato sulla libertà, “intesa come libertà sostanziale di tutti e non solo dei ricchi”. Per realizzare il nuovo quadro istituzionale occorre agire su diversi fronti, dal miglioramento dell’uso delle risorse, alla ridefinizione dei diritti di proprietà, dal miglioramento del sistema dell’istruzione (attraverso la sua trasformazione in sistema di apprendimento permanente), alla ristrutturazione del modo in cui all’interno delle moderne società industriali ad economia di mercato si persegue l’obiettivo della sicurezza economica e dell’inclusione sociale. Lo strumento sul quale edificare il nuovo quadro istituzionale alternativo a quello attuale (non più in grado di garantire, sia la sicurezza economica, che l’inclusione sociale) consiste, secondo Van Parijs e Vanderborght, nell’introdurre nell’insieme delle regole di funzionamento delle moderne società industriali ciò che oggi “è comunemente chiamato reddito di base: un reddito regolare pagato in denaro ad ogni singolo membro di una società, indipendentemente da altre entrate e senza vincoli”. Qual è l’incombenza, si chiedono Van Parijs e Vanderborght, che, pesando oggi sullo stabile funzionamento delle società economicamente avanzate, a rendere necessaria una riforma del loro quadro istituzionale, fondata sull’introduzione di un reddito di base universale e incondizionato? Tutti coloro che sinora si sono pronunciati in favore di tale forma di reddito chiamano in causa alcuni aspetti della dinamica propria delle moderne società industriali, quali, in primo luogo, l’ondata di automazione (di cui è prevista un’accelerazione nei prossimi anni) che sta investendo i processi produttivi, causando una crescente polarizzazione del prodotto sociale; in secondo luogo, l’approfondimento e l’allargamento della globalizzazione che, oltre ad aggravare le disuguaglianze distributive, causerà l’aumento del numero delle persone che perderanno irreversibilmente la stabilità occupazionale. Le innovazioni dei processi produttivi (che consentono “risparmio di lavoro”, indotto dal progresso scientifico e tecnologico e dalla natura altamente competitiva del mercato globale), potrebbero non rappresentare una “calamità sociale” insormontabile, se la maggior produttività da esse determinata potesse tradursi in una maggiore crescita; ma la fiducia su una crescita senza limiti presenta diverse controindicazioni: in primo luogo, esse sono dovute ai limiti ecologici, oggi amplificati dall’impatto sull’atmosfera; in secondo luogo, al fatto che i moderni sistemi industriali, come sottolineano molti economisti, sono esposti agli esiti di una loro tendenza a una “stagnazione secolare”; in terzo luogo, alla consapevolezza che la crescita, anche per chi la ritiene auspicabile che possibile, non costituisca una soluzione alla disoccupazione strutturale e alla precarietà. Le controindicazioni circa la possibilità che un’ulteriore crescita basti a risolvere i problemi della disoccupazione e della precarietà, nel contesto di un’automazione crescente e di un allargamento della globalizzazione, sono forse discutibili; esse, tuttavia, sono sufficienti a “spiegare e a giustificare” le richieste di una più efficace risposta alle sfide poste dall’aggravarsi dei fenomeni della disoccupazione strutturale e delle disuguaglianze distributive: secondo Van Parijs e Vanderborght, se non si troverà “un modo per assicurare un reddito di base da corrispondere alle persone che non hanno lavoro (o non hanno un lavoro decente), le moderne società industriali ad economia di mercato andranno incontro ad un futuro perennemente caratterizzato da instabilità economica e conflittualità sociale”. La previsione che la creazione di nuovi posti di lavoro “dignitosi” sarà sempre più difficile suggerisce perciò la necessità che gli establishment dominanti si convincano che occorre assicurare le risorse necessarie alla sopravvivenza della crescente massa di disoccupati e di poveri. Van Parijs e Vanderborght indicano due alternative per rispondere a questa necessità. Un primo modo di procedere (che gli autori considerano sconveniente) potrebbe consistere nell’allargamento dell’esistente sistema di assistenza pubblica; si tratterebbe di un modo utile solo per contrastare la “povertà estrema”, ma, a causa della sua “condizionalità”, varrebbe a trasformare i beneficiari in una classe di cittadini destinati a dipendere “permanentemente dall’assistenza sociale”. L’altra possibile soluzione, fondata sul principio che la libertà sostanziale debba essere garantita a tutti, consiste nell’introdurre un reddito di base di tipo incondizionato, inteso “nell’accezione più piena del termine”. Il reddito di base differisce da ogni altra forma di sussidio corrisposto a chi versa in stato di necessità, perché esso, oltre ad essere universale (dimensione di cui sono prive tutte le “misure” welfariste destinate ad alleviare le condizioni esistenziali di chi è privo di ogni fonte di sostentamento), è anche incondizionato, in quanto, a differenza di tutte le forme di assistenza welfarista, esso è esente da ogni accertamento della condizione economica del beneficiario. Infatti, ogni forma di assistenza condizionata presenta lo svantaggio che il sussidio sia corrisposto ai beneficiari solo “ex post” (cioè sulla base di una preliminare determinazione delle risorse materiali delle quali possono disporre gli stessi beneficiari); il reddito di base incondizionato, al contrario, è corrisposto “ex ante”, senza alcun accertamento della condizione economica degli aventi diritto. Le conseguenze dell’incondizionalità risultano tali da rendere il reddito di base profondamente diverso da ogni forma di assistenza condizionata; dal punto di vista del disoccupato strutturale o del povero, l’elemento che più di ogni altro vale a differenziare questo tipo di reddito dai sussidi condizionati è la possibilità assicurata ai beneficiari di sottrarsi al ricatto intrinseco alla condizioni alle quali è tradizionalmente subordinata la fruizione di un sussidio condizionato; ne è un esempio il “potere di ricatto” che può essere esercitato da ogni datore di lavoro ai danni dei lavoratori, quando questi ultimi siano “obbligati a svolgere un lavoro” infimo e mal pagato, per conservarsi nella condizione di poter fruire del beneficio assistenziale. In conseguenza di quanto sin qui osservato sulle specificità del reddito di base, si può dire che, mentre la sua universalità consente di evitare la “trappola” delle disoccupazione e della povertà, il fatto di non essere condizionato serve a contrastare la “trappola” del lavoro obbligato, spesso sottopagato o degradante. Considerati i vantaggi connessi alle specificità del reddito di base universale e incondizionato, è difficile – affermano Van Parijs e Vanderborght – negare che esso costituisca nelle moderne società industrializzate ad economia di mercato, non solo un “potente strumento di libertà”, ma anche, più che una spesa, una forma d’investimento, utile a garantire una maggior flessibilità nel governo dei moderni problemi economici e sociali delle società economicamente avanzate e integrate nell’economia mondiale. I principali interrogativi che incombono sulla possibilità di istituzionalizzare il reddito di base universale e incondizionato (come antidoto alla crescente disoccupazione strutturale e alla diffusione della povertà nelle società industriali avanzate e ad economia di mercato) riguardano la sua sostenibilità e il sui finanziamento. Per quanto riguarda la sostenibilità, molto diffusa è la preoccupazione che l’offerta di lavoro venga negativamente influenzata dall’assenza di obblighi da parte dei beneficiari del reddito di base. Van Parijs e Vanderborght ritengono fuorviante “ridurre le conseguenze economiche del reddito di base al suo impatto immediato sull’offerta del mercato del lavoro”. Fornendo sicurezza e autonomia economica, è plausibile prevedere che il reddito di base possa incoraggiare l’imprenditorialità, promuovendo l’allargamento di forme di lavoro autodiretto; in secondo luogo, esso può motivare molti lavoratori a scegliere di optare per un lavoro a tempo parziale; in terzo luogo, liberando chi è privo di reddito dalla “trappola della disoccupazione”, il reddito di base universale e incondizionato può produrre effetti positivi sul capitale umano, motivando i fruitori ad aumentare il loro “interesse a investire nell’istruzione e nella formazione continua”. Secondo Van Parijs e Vanderborght, tutte queste ragioni concorrono a rendere stretta la connessione che esiste tra una maggior sicurezza garantita dal reddito di base e una maggior flessibilità del mercato del lavoro; si tratta di una connessione che tende ad assicurare ai senza reddito la libertà di non lavorare, piuttosto che l’obbligo di lavorare. Tra l’altro, la stretta connessione che esiste tra la libertà dal bisogno e la maggior flessibilità del mercato del lavoro rende possibile anche una più funzionale riorganizzazione del tradizionale sistema di welfare State; essa consente infatti la sua trasformazione da “sistema protettivo caritatevole e punitivo” in “sistema di welfare State attivo ed emacipatorio”, orientato “a rimuovere gli ostacoli allo svolgimento di un’attività lavorativa gratificante, quali sono le trappole della disoccupazione e dell’emarginazione”, e a “facilitare l’accesso delle persone all’istruzione e alla formazione”, strumentali all’intrapresa di una pluralità di attività produttive. In questo modo, nelle moderne società industriali, il welfare State cesserebbe d’essere strumento “punitivo del lavoro” (come avviene con il sistema esistente, che rimuove il beneficio corrisposto al lavoratore disoccupato o al povero indigente che dovessero rifiutare di sottostare ai “vincoli” previsti per il loro reinserimento e/o inserimento lavorativo), per diventare, al contrario, strumento di promozione di forme gratificanti e socialmente utili di lavoro. Per quanto riguarda l’altro interrogativo (quello relativo al finanziamento), incombente sulla possibilità di istituzionalizzare il reddito di base universale e incondizionato come antidoto alla crescente disoccupazione strutturale e alla diffusione della povertà, la preoccupazione principale che esso solleva è riconducibile all’ipotesi che le società industriali moderne, già gravate di un oneroso sistema fiscale, possano non tollerare un suo ulteriore inasprimento per finanziare il reddito di base, a meno che l’inasprimento non sia associato ad una riduzione dell’asimmetria nel trattamento fiscale dei redditi da capitale e dei redditi da lavoro, “caricando” prevalentemente sul capitale l’onere del finanziamento del reddito di base. Un più equo trattamento fiscale delle due classi di reddito, però, si scontrerebbe con l’opposizione delle forze economiche e politiche prevalenti, per via del fatto che l’asimmetria nel trattamento fiscale a vantaggio del capitale è tradizionalmente “giustificata dalla necessità – affermano Van Parijs e Vanderborght – di incoraggiare investimenti ad alto rischio e lo spirito imprenditoriale” e di non promuovere la mobilità internazionale del capitale che, di fronte alla minaccia di perdere in parte i privilegi fiscali potrebbe “fuggire all’estero”. Per finanziare il reddito di base esistono però – sottolineano Van Parijs e Vanderborght – delle alternative che non prevedono il ricorso alla tassazione. Tra queste, la principale consiste nella creazione di un “Fondo Sovrano Permanente”, una sorta di “salvadanaio collettivo”, nel quale fare affluire le entrate derivanti da tutte le forme di collocamento (a titolo di affitto o di cessione) delle risorse mobiliari e immobiliari di proprietà pubblica. In questo modo, il finanziamento del reddito di base avverrebbe secondo le modalità previste da James Meade nel suo “modello agathopista”; in altri termini, il reddito di base potrebbe essere finanziato senza bisogno di alcuna tassazione, mediante la distribuzione annuale a tutti i cittadini, su basi paritarie, della dotazione del “Fondo”, sotto forma di reddito di base universale e incondizionato, inteso come dividendo del rendimento economico di un capitale pubblico. Un disegno di riforma del quadro istituzionale di riferimento, quale quello fondato sull’introduzione di un reddito di base (o di cittadinanza, come anche viene chiamato), per risolvere i problemi delle società industriali avanzate, richiede ovviamente che il loro sistema economico sia efficiente e gestito da forze economiche e politiche interessate al suo stabile funzionamento. Ipotizzare che questo disegno sia proponibile e attuabile all’interno di un Paese qual è l’Italia di oggi può apparire temerario, considerato lo stato in cui essa versa. Una cosa però è certa: se tutte le forze sociali impegnate (sul piano culturale, politico ed economico) a risolvere i problemi che maggiormente affliggono il Paese (rilancio della crescita e contrasto della disoccupazione strutturale e della diffusione della povertà) abbandoneranno molti dei pregiudizi ideologici che hanno sinora condizionato la ricerca di adeguate soluzioni, dovranno (quelle forze) necessariamente tener conto del fatto che l’istituzionalizzazione del reddito di base universale e incondizionato è uno dei presupposti per fare dell’Italia del futuro, parafrasando un’efficace espressione di Meade, “un luogo in cui è ancora conveniente e gratificante vivere”. ——————————————————— ——————————————————— – Gianfranco Sabattini su AladiNews. – Campioni dell’impossibile: http://www.aladinpensiero.it/?p=89277 […]
[…] o impresa possibile portata avanti da un “campione dell’impossibile”? Ce ne faremo un’idea più precisa nell’incontro di questo pomeriggio, a cui siete tutti […]