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Editoriali
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Elogio della mitezza
L’articolo si incentra principalmente sul saggio di Norberto Bobbio “Elogio della mitezza”. In un momento in cui la mitezza pare lontanissima dalla contemporaneità, Bobbio la rivaluta mostrandone, in modo quasi preveggente per l’oggi, il suo aspetto potente e rivoluzionario. L’articolo è sviluppato sotto forma di dialogo.
Elogio della mitezza
di Roberto Paracchini
- …, già e come si fa? Come si fa a parlare del futuro…?
- Si cerca di immaginarlo partendo da elementi del presente.
- Così però si rischia di pensare un futuro cupo, troppo cupo.
- E chi lo dice?
- Beh, il presente non è certo bello: guerre, distruzioni e cattiverie gratuite, violenza, razzismo, discriminazioni, povertà, crisi climatica e tanto tanto altro ancora. Greta Thunberg e i tantissimi giovani che vedono in lei un punto di riferimento, hanno perfettamente ragione a protestare.
- Sì: sembra proprio che stiate facendo di tutto per preparare loro un bruttissimo futuro.
- Ma chi parla, chi entra nei miei pensieri?
- Calma, stai solo riflettendo.
- Già con una voce che non sono io e che risponde a quello che penso…
- Innanzi tutto io non sono una voce ma Qfwfq. Quindi tranquillizzati.
- O, cielo!, chi parla!
- Te lo detto, sono Qfwfq.
- Chi?
- Potrei offendermi, sono il prodotto della fantasia di un grande scrittore, Italo Calvino.
- Ah…, davvero?
- Sì, “Le cosmicomiche”.
- Ma che faccio, dialogo con Qfwfq?
- E che c’è di strano, secondo il mio autore esisto da tempo immemorabile.
- Ma sei un prodotto della fantasia!
- Appunto ed è di questo che hai bisogno, ti trovi di fronte a un’impasse…
- ?
- Col terrore del foglio bianco.
- Beh, forse la questione è complessa.
- Ovvio, è difficile orientarsi in questo mondo, tanto meno scriverne. Ne so qualcosa io, prodotto dalla fantasia e dalle ossessioni di chi mi ha dato i natali.
- Va beh, finalmente un sogno letterario. Peccato che poi finisca.
- E chi l’ha detto, deciderai tu.
- Forse forse resterei nel sogno…
- D’accordo, la consapevolezza delle brutture del vostro presente fa male, ma le avete prodotte voi.
- Lo so…, lo so ma non ti ci mettere anche tu; credimi, c’è da impazzire.
- E per che cosa credi che sia qui. Però non incolpare altri della tua incapacità di capire.
- Vedi tu? Ormai tutto è fuori registro, abnorme e sempre più incomprensibile e tu pure, cara/o Qfwfq, forse fuggita/o da un libro e che ora dialoghi con me.
- Io non fuggo, semmai tu, che vigliaccamente rinunci a capire.
- Non offendere, ho solo un momento di sconforto.
- “Sapere aude!”, scriveva un vostro grande filosofo, l’illuminista Immanuel Kant: sapere aude, abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Ma tu questo coraggio non sembri averlo.
- Già, la fai facile tu che vivi in un mondo di fantasia…
- Ma è proprio questa che ti manca. La fantasia.
- Sarebbe?
- Che cosa credi che sia l’intelligenza? Se non quel qualcosa che ti permette di immaginare mondi altri, forse inusitati ma non per questo meno possibili?
- Quindi?
- Non devi scoraggiarti.
- Però, se ci si guarda attorno…
- Non farti ingabbiare dal qui ed ora. Te lo ridico: abbi il coraggio di usare la tua intelligenza, quindi di immaginare altro non rifiutando la potenza della fantasia. E ricorda: la realtà è fatta da tutte le determinazioni del possibile, anche da quelle che ora non ci sono ma che potrebbero esserci.
- Semplice da dirsi, per te che vivi in un racconto.
- Non è esatto, io vivo in tutti coloro che mi leggono, o mi hanno letto, o mi leggeranno. Io non sono di nessuno ma per tutti.
- Ovvero?
- La fantasia è patrimonio comune.
- Allora spiegami, come si fa ad affrontare questo mondo fatto di guerre, distruzioni e cattiverie impensabili?… Come si fa a viverci? Come si fa a non venire schiacciati dalla sua pesantezza? Come si fa a costruire o inventare un pur piccolo granello di sabbia che contribuisca a renderlo almeno un po’ meno ingiusto?
- Mi ripeto: sapere aude, abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Lo scrittore che mi ha dato i natali, Italo Calvino, pur parlando di letteratura, ha insegnato anche a me, suo prodotto di penna, molte cose.
- Allora, Qfwfq, visto che ormai, meticciando realtà e fantasia, mi hai avviluppato nel tuo mondo, sii generoso e spiega pure a me.
- Il mio Calvino nel libro Sei lezioni americane, alla voce leggerezza, racconta che la pesantezza del mondo si supera non con fughe nel sogno o nell’irrazionale, ma cambiando approccio, quindi avendo più fantasia e guardando il mondo “con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza”.
- Bene, e come fare?
- Forse cominciando a riflettere sul fatto che siete tutti imprigionati da un’idea fissa: che in ogni momento della vostra vita c’è chi vince e chi perde, chi arriva primo e chi no, e chi irrimediabilmente si smarrisce per strada. E che siete tutti ingabbiati in questa bizzarra e crudele gara, tanto che sembra normale, se non scontato, anche l‘uso della forza, della furbizia e della spregiudicatezza…
- Seppure malinconicamente, mi vien da dire che questa logica del vincere o del perdere sembra proprio la più diffusa nella realtà in cui viviamo.
- Già, vincere… Sai l’etimologia di questo verbo richiama la radice weik che implica un combattere continuo e infine, appunto, un vincitore, da cui la configurazione di uno spazio di dominio in cui uno soggioga l’altro e dove c’è chi lega e chi viene legato. E’ questo il mondo a cui aspiri?
- Certo che no! E non sono il solo a non volerlo. Ma sempre più persone stanno perdendo la fiducia e la speranza in un possibile cambiamento.
- Allora muovetevi, seguite l’esempio dei giovani.
- Facile a dirsi, però…
- Niente è fattibile se non si inizia. Un primo passo è cambiare linguaggio: non più vincere, né convincere, ma persuadere. La più timida persuasione che nella sua etimologia indica, sì, anche un’azione, ma verso un qualcosa di dolce e delicato supportato, direi io, da argomentazioni non apodittiche.
- Scusa Qfwfq ma per battere e sconfiggere la sfiducia e l’indifferenza non pensi occorra invece usare un linguaggio che “buchi” l’attenzione: forte e deciso?
- No, penso sarebbe un atteggiamento sbagliato. Sai, basta accendere la tv o collegarsi a un qualsiasi social per essere subito investiti e travolti da tanti linguaggi barricadieri che bucano, sì, l’attenzione come dici tu, ma che quasi subito svaniscono lasciando ben poco, se non un sapore amaro e un bel po’ di fastidio quando va bene; confusione, rabbia e astio più spesso.
- E tu che proponi?
- Festina lente, affrettati lentamente: agisci, sì, ma dopo aver riflettuto. Nessun assalto all’arma bianca, sia pure solo verbale.
- Quindi?
- Come afferma il mio Calvino, occorre “guardare il mondo con un’altra ottica”. In pratica bisogna cambiare paradigma, abbandonare il linguaggio bellicoso e avere il coraggio di guardare altrove. E potete farlo prendendo esempio da un altro gigante della cultura italiana e mondiale, il filosofo Norberto Bobbio; e scommettere con lui sulla mitezza.
- Caspita, Qfwfq, la mitezza? È come se proponessi una rivoluzione copernicana.
- Esatto.
- Spiega.
- In un mondo di sopraffazioni continue va precisato che “la mitezza è il contrario dell’arroganza, intesa come opinione esagerata dei propri meriti, che giustifica la sopraffazione”, come sottolinea Bobbio nel saggio Elogio della mitezza.
- D’accordo, la mitezza, però sembra un qualcosa di molto, direi troppo lontano dal mondo dell’oggi.
- Non credo, le cose che sembrano più inaccessibili, sono spesso quelle con cui viviamo nella nostra quotidianità, pur non vedendole.
- Non capisco, ogni tanto mi perdo…
- Se vai a prendere un caffè gradisci che chi te lo serve, faccia un sorriso, che tu ricambi perché un sorriso è contagioso come una piccola coccola. Oppure ti viene spontaneo aiutare il tuo vicino di casa se lo vedi in difficoltà con la spesa o aiutare una persona incerta ad attraversare la strada e tante altre piccole grandi cose. Uso volutamente “piccole grandi” perché sono le (apparentemente) piccole cose che ci fanno grandi. Ed è proprio in queste che si forgia la mitezza, una postura del comportamento meno aggressiva e più riflessiva. Sai, come specifica Bobbio, la mitezza è “una disposizione d’animo che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé”. In altre parole: il mite aiuta a limitare l’arroganza dell’altro, in quanto esempio vivente che i rapporti interpersonali possono essere meno spigolosi e trasformarci in persone che ascoltano.
- E pensi che questo possa aiutare a superare la sfiducia e a formare un ambiente meno indifferente?
- Molto probabile. Sai l’indifferenza ha spesso come base la difficoltà nei rapporti interpersonali. Quando affermo che dovremmo usare il termine persuadere e non con-vincere, penso che si debba iniziare dalla nostra quotidianità dove in continuazione facciamo scelte che ci relazionano agli altri…
- Non ti seguo.
- Non ti capita mai di avere qualche problema e di sentirti come adirato col mondo?
- Beh, sì.
- In genere questo vuol dire che dentro di te c’è qualche “nodo” irrisolto, forse un eco di quell’inquietante “zona grigia” di cui parla Primo Levi.
- Non capisco che vuoi dire.
- Quel che forse sai anche tu: se riesci a relazionarti con qualcuno senza aggressività, quel “nodo” diventa più leggero, non che lo risolvi, ma ti si attenua, soprattutto se nella relazione con l’altro non entri in un quadro competitivo in cui ognuno vuole convincere l’altro di qualcosa. In altre parole, il mite è colei o colui che non vuole convincere nessuno, semmai persuadere.
- Mi stai dicendo che la persuasione si sposa con la mitezza e non con la vittoria…
- Certo. Sai, grazie al mio Calvino sono un testimone senza tempo dell’evoluzione dell’universo e di vittorie e catastrofi ne ho visto tante, dai buchi neri alla formazione di nuove stelle. Ma ho anche osservato che per quella strana “cosa”, che chiamate homo sapiens, più che i grandi eventi che hanno creato l’universo, contano le carezze.
- Che è, Qfwfq, mi stai diventando sentimentale…
- La fantasia è anche sentimento, parola che va accostata al verbo sentire, che significa avere consapevolezza di sé e dell’altro; e che è spesso anche il prodotto di una carezza. Gesto che, a sua volta, richiama una postura mite verso l’altro, che deriva da caro, amato. Tutti significati ben lontani dal vincere-soggiogare-fare prigioniero.
- Perdonami, Qfwfq, ma se vuoi cambiare qualcosa, così facendo non rischi di assumere un atteggiamento, sì, carezzevole, ma poco efficace?
- Per niente, semmai il contrario: la vittoria sottomettendo, blocca, ferma e cristallizza la realtà, soggiogando chi non la pensa come te e bloccandone le possibili scelte; e inibendo così la realizzazione di nuovi percorsi. Non credi invece che le nostre azioni, come spiega il fisico e filosofo Heinz von Foester, dovrebbero sempre essere volte ad agire “in modo di accrescere il numero totale delle possibilità di scelta”?
- Ammettiamo che sia d’accordo, ma come agire in questo senso?
- Con la mitezza, su cui punta Bobbio. Usando le parole di Carlo Mazzantini, un suo amico filosofo, Bobbio sottolinea che “la mitezza è l’unica suprema potenza (…) che consiste nel lasciare l’altro quello che è”. Quindi con tutta la sua libertà di scelta.
- Perdonami, Qfwfq, però per Norberto Bobbio “la mitezza non è una virtù politica”.
- Ed è per questo che è molto importante. Per lui, “la politica non è tutto. L’idea che tutto sia politica è semplicemente mostruosa”. Ma proprio qui sta per Bobbio la potenza della mitezza che, appunto, non è una virtù politica.
- Forse mi sono perso qualcosa, ho difficoltà a seguirti. Ti rigiro il moto Festina lente…
- Giusto, diamo un po’ di contesto. In Elogio della mitezza, quando Bobbio parla di politica, pensa soprattutto al Principe di Macchiavelli in cui gli “animali simbolo dell’uomo politico sono (…) il leone e la volpe”; e pensa a Hobbes e al suo homo homini lupus (l’uomo è lupo per l’altro l’uomo), che “nello stato di natura è l’inizio della politica”. Tutti esempi in cui “non c’è posto tra loro per i miti”.
- Perdonami l’ingenuità e la banalità, ma come fa il mite a competere con questa “muscolosa” politica, soprattutto se vuole cambiarla? Non verrebbe spazzato via come un fuscello?
- Il problema è mal posto. Il mite, spiega Bobbio, “non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di sconfiggere, e alla fine, di vincere. È completamente al di fuori dello spirito della gara, della concorrenza, della rivalità e quindi anche della vittoria”.
- Continuo a non capire.
- Bobbio non nasconde affatto la prosaicità della storia e, quindi, della politica, piena di arroganza, protervia e prepotenza. Così come non nasconde, citando il filosofo Friedrich Hegel, che ai “fondatori di stati”, agli “eroi”, è stato permesso tutto, “anche l’uso della violenza”.
- Quindi?
- Bobbio cerca una via d’uscita coerente, una via d’uscita per il nuovo millennio direi, e la trova nella mitezza…
- Una virtù, però, che considera “non politica”.
- Sì, ed è proprio in questo suo (della mitezza) essere fuori dalla politica intesa come lotta e competizione, che sta la sua forza e la sua potenza. Come già accennato, la vita per Bobbio non si riduce alla politica ed è in questo spazio non politico, in cui i rapporti interpersonali non puntano a prevaricare e dominare l’altro, che può fiorire la mitezza in tutta la sua potenza.
- E che cos’è questo “spazio non politico”?
- In Elogio della mitezza, l’autore non lo precisa in modo esplicito, ma afferma di considerare molto importante “quello che c’è al di là della politica” dove si trova, appunto, la virtù della mitezza. Direi che per Bobbio si tratta di uno spazio che non è della politica tradizionale e nemmeno del privato dato che la mitezza “rifulge solo alla presenza dell’altro”; e che, quindi, può essere considerato uno luogo intermedio tra i due. Uno spazio determinante nella vita nelle persone perché in esso vivono i rapporti interpersonali, di cui la mitezza si nutre per definizione. Direi che questo spazio assomiglia a quello infra teorizzato dalla filosofa Hanna Arendt e per lei indispensabile per lo sviluppo democratico. E quale humus migliore della mitezza per stimolare la riflessione e la crescita delle persone?
- Oggi, però, sembra che più della riflessione domini la velocità e che tutto il resto (basta dare un’occhiata ai social) diventi subito obsolescente.
- Certo, ma quel che più conta credo sia riuscire a innescare cambiamenti virtuosi e contagiosi. A noi tutti e mi ci metto anch’io con l’illuminismo del mio Calvino, oggi non serve un qualcosa che faccia rumore e che appaia e scompaia come la voglia di immediatezza prodotta dai clic reiterati. Occorre invece un qualcosa che abbia potenza potente nel senso etimologico di capace di effetti, di autorità, ricco e nobile, autorevole insomma.
- Rieccoci, spiega meglio: potenza e mitezza a me sembrano due concetti agli antipodi.
- Per spiegarlo Bobbio si rifà alle parole del suo amico filosofo Mazzantini che come abbiamo già visto diceva che la mitezza “è l’unica suprema ‘potenza’ (…) che consiste nel lasciare l’altro quello che è”. E in più aggiungeva: “Il violento non ha impero perchè toglie a coloro ai quali fa violenza il potere di donarsi”. Chiaro?
- Non proprio.
- Allora seguimi ancora un attimo: chi comanda e domina fa fare agli altri solo quello che lui vuole, come se il dominato fosse diventato un suo terminale. In questo modo, però, la forza del suo comando resta, appunto, solo forza che piega con la violenza colui che viene dominato. Così il violento conquista, soggioga e trasforma il corpo del dominato ma, si potrebbe dire con un linguaggio forse improprio, non la sua anima: la sua vera volontà e la sua personalità restano inviolate.
- Prima hai accennato al tema del” donarsi”, chiarisci per cortesia.
- Dietro questa affermazione penso ci sia il discorso sul dono e sulla gratuità. In sintesi il donare, in questo caso, implica il fare qualcosa senza avere alcuna contropartita: un’azione svincolata da un qualsiasi vantaggio. A ben guardare si tratta di un comportamento che noi facciamo molto più spesso di quel che sembri durante la nostra quotidianità, come atto di attenzione verso gli altri con una telefonata affettuosa o un messaggio delicato che mandiamo o che ci arriva inaspettato, o una gentilezza inusuale o mille altre piccole cose. Ed è proprio la gratuità di questi gesti che li rende doni e, direi, doni contagiosi nel senso che spingono i destinatari a comportarsi nello stesso modo…
- Ma hai appena detto che non c’è contropartita.
- Infatti, perché i destinatari della contagiosità del dono non sono coloro che hanno fatto il dono, ma altri. Se poi lo diventano anche loro, è perché pure loro fanno parte del mondo “altri”.
- E un atteggiamento mite li stimola, i doni?
- Sì, ne è un propulsore: per Bobbio la mitezza “è una donazione”, e si tratta “di una disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi in tutta la sua portata”.
- Bene, torniamo un attimo sulla potenza della mitezza.
- Chi fa violenza toglie al dominato il potere di donarsi dimostrando così di non avere impero, nel senso di autorità e autorevolezza, su colui che soggioga; e questo perchè non controlla la sua libertà più grande, quella di potersi donare, appunto.
- Insomma, in questo quadro concettuale, è il mite il vero potente?
- Esatto, ma si tratta di una potenza fatta di autorevolezza, senza dominio e soprattutto, come spiega Bobbio, che sviluppa socialità. “Dunque – continua il filosofo riprendendo le parole di Mazzantini – ‘lasciare essere l’altro quello che è’ è virtù sociale nel senso proprio, originario, della parola”, che crea alleanza, base e trampolino per una nuova politica.(Roberto Paracchini)
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Norberto Bobbio.
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[…] Un bel aforisma di Barbara Wootton* “E’ dai campioni dell’impossibile piuttosto che dagli schiavi del possibile che l’evoluzione trae la sua forza creativa” Il CoStat propone un’Intesa al Centro Sinistra, al M5Stelle e alle organizzazioni indipendentiste e autonomiste per battere la Destra di Salvini e soci. Missione impossibile? Non è detto. Il CoStat non demorde e, dati alla mano, chiama tutti all’impegno perché la Sardegna non venga consegnata alla Destra, la peggiore Destra oggi presente sullo scenario politico. L’Unione Sarda – Edizione del 1/12/2018 Sezione “Primo Piano” Centrosinistra e Cinquestelle uniti al voto per battere Salvini in Sardegna. Fantapolitica? Non per Andrea Pubusa, ex consigliere regionale del Pci e animatore del dibattito nella sinistra sarda. «La mia proposta – spiega – nasce da un’osservazione: a livello nazionale si è arrivati a questo governo per il veto del Pd sui 5Stelle. Uguale a quello di Grillo su Bersani 5 anni fa. Esclusioni reciproche che hanno avuto esiti disastrosi». [segue] In Sardegna la situazione politica è diversa. «Parto da un ragionamento matematico, oltre che politico. Salvini è dato al 36%, il M5S sopra il 20, il centrosinistra con Zedda su cifre simili. Se cadessero quelle preclusioni, con un blocco unico potrebbero bloccare Salvini». È così importante batterlo? «Beh, se lo si accusa di fascismo, allora le forze democratiche dovrebbero mostrarsi responsabili e unirsi. E poi una forza da sempre anti-Sud non può trionfare nella terra di Lussu, Gramsci, Dettori». Ma il Movimento 5Stelle con Salvini ci governa. «Sì, ma ne è fagocitato ogni giorno di più. Il M5S ha interesse a non consegnargli la Sardegna per non dargli una forte rincorsa per conquistare del tutto il livello nazionale. E il Pd… il Pd deve decidere cosa fare da grande». Non sembra che ci siano le condizioni per un’intesa simile. «Io credo che ci possano essere. Lo impone la legge elettorale. Devi fare un contratto di governo prima del voto, perché poi non si può. Un vantaggio per tutti i contraenti, che vincendo eleggerebbero molti più consiglieri». Lei è stato spesso accostato ai 5Stelle. È corretto? «Non sono del M5S, mi considero un vecchio pensatore di sinistra. Condivido alcune loro idee, come il reddito di cittadinanza e la lotta alla corruzione, temi storici della sinistra. Se non ha i paraocchi, un vero democratico non può non sostenerle». Il M5S ha anche votato il decreto sicurezza. «Lì c’è un contratto da rispettare, se no cade il governo, e capisco che il M5S non voglia. Però, appunto, fermare Salvini qui servirebbe anche a rinfrescare la carica innovativa del Movimento». Ha mai parlato della sua idea ai vertici locali del M5S? «Mesi fa, ad alcuni amici, ho fatto una proposta limitata: con questa legge elettorale avrebbero dovuto accordarsi, prima del voto, con l’area democratica. Hanno detto di no, ma ora le cose sono cambiate. Il M5S arranca con le regionarie, il Pd ha scelto Zedda come foglia di fico». Zedda non le piace? «Lotta per arrivare secondo anziché terzo. Non credo che il suo impatto andrà oltre il Medio Campidano. Ma un po’ tutti stanno pensando a perdere bene più che a vincere. Pds e Autodeterminatzione sperano di superare il 5%; lo stesso M5S sa che non vincerà. Perché non provare a vincere tutti insieme?» Con quale candidato? «Si dovrebbe cercare insieme una figura condivisa». Non Zedda, comunque. «Lui rappresenta, al di là del suo successo, la sinistra minoritaria che si è autodistrutta. Il M5S sceglierà una brava persona, ma poco nota. In Sardegna ci sono molte figure autorevoli che potrebbero guidare una tale alleanza, non lo vedo un problema». E i programmi? «Ci sono molti temi su cui basare un contratto di governo: occupazione, lotta alla povertà, difesa dell’ambiente, taglio delle servitù militari». Su altri però ci sono vedute opposte, come il metanodotto. «Su questo, i contrari non sono solo nel M5S. Certo, il programma non sarà solo rose e fiori, ma il problema sono i pregiudizi reciproci. Però con gli stereotipi andiamo a sbattere contro il muro». Giuseppe Meloni, L’Unione Sarda sabato 1 dicembre 2018. […]
[…] Dopo la pubblicazione, nel 2013, di “Il reddito minimo universale” e, nel 2017, di “Il reddito di base”, entrambi dedicati dagli autori, Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght alla spiegazione del significato e della funzione del reddito di cittadinanza (assegnato a ogni individuo senza vincoli di “contropartite lavorative” e senza “prova dei mezzi”), era plausibile attendersi che la classe politica si fosse presa la briga di leggerli; ciò avrebbe consentito di evitare la confusione, ormai radicata anche nell’opinione pubblica, che solitamente viene fatta per la mancata distinzione tra la forma di reddito della quale parlano gli autori e tutte le misure monetarie di natura welfarista adottabili e adottate (come, ad esempio quella introdotta dall’attuale governo italiano) per contrastare il fenomeno della povertà. La confusione non potrà essere d’aiuto per riflettere sui contenuti più appropriati della politica economica, presumibilmente chiamata nel prossimo futuro ad affrontare i fenomeni dell’insicurezza economica e dell’esclusione sociale che affliggono attualmente il sistema socio-politico dell’Italia, congiuntamente a quello di molti altri Paesi industrializzati di mercato, per tutte le ragioni puntualmente illustrate nei libri sopra richiamati. Viviamo in un mondo radicalmente nuovo rispetto a quello nato e consolidatosi nei primi trent’anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale; si tratta – affermano Van Parijs e Vanderborght, – di un mondo “riplasmato da numerose forze: la dirompente rivoluzione tecnologica determinata dal computer e da Internet; la globalizzazione dei mercati, delle migrazioni e della comunicazioni; la crescita impetuosa della domanda mondiale di beni a dispetto dei limiti imposti dall’esaurimento delle risorse naturali e dalla saturazione dell’atmosfera; la crisi delle tradizionali istituzioni protettive, dalla famiglia ai sindacati, ai monopoli di Stato, ai sistemi di welfare; infine le interazioni esplosive di queste varie tendenze”. Per poter valutare razionalmente come contrastare le minacce delle quali sono portatrici queste tendenze, occorre, a parere di Van Parijs e Vanderborght, definire un quadro istituzionale di riferimento alternativo a quello esistente; a tal fine, gli autori, affermati docenti di economia e di scienza politica e divulgatori dell’idea di “reddito di base” (o reddito di cittadinanza), avanzano la proposta di un “nuovo quadro istituzionale” fondato sulla libertà, “intesa come libertà sostanziale di tutti e non solo dei ricchi”. Per realizzare il nuovo quadro istituzionale occorre agire su diversi fronti, dal miglioramento dell’uso delle risorse, alla ridefinizione dei diritti di proprietà, dal miglioramento del sistema dell’istruzione (attraverso la sua trasformazione in sistema di apprendimento permanente), alla ristrutturazione del modo in cui all’interno delle moderne società industriali ad economia di mercato si persegue l’obiettivo della sicurezza economica e dell’inclusione sociale. Lo strumento sul quale edificare il nuovo quadro istituzionale alternativo a quello attuale (non più in grado di garantire, sia la sicurezza economica, che l’inclusione sociale) consiste, secondo Van Parijs e Vanderborght, nell’introdurre nell’insieme delle regole di funzionamento delle moderne società industriali ciò che oggi “è comunemente chiamato reddito di base: un reddito regolare pagato in denaro ad ogni singolo membro di una società, indipendentemente da altre entrate e senza vincoli”. Qual è l’incombenza, si chiedono Van Parijs e Vanderborght, che, pesando oggi sullo stabile funzionamento delle società economicamente avanzate, a rendere necessaria una riforma del loro quadro istituzionale, fondata sull’introduzione di un reddito di base universale e incondizionato? Tutti coloro che sinora si sono pronunciati in favore di tale forma di reddito chiamano in causa alcuni aspetti della dinamica propria delle moderne società industriali, quali, in primo luogo, l’ondata di automazione (di cui è prevista un’accelerazione nei prossimi anni) che sta investendo i processi produttivi, causando una crescente polarizzazione del prodotto sociale; in secondo luogo, l’approfondimento e l’allargamento della globalizzazione che, oltre ad aggravare le disuguaglianze distributive, causerà l’aumento del numero delle persone che perderanno irreversibilmente la stabilità occupazionale. Le innovazioni dei processi produttivi (che consentono “risparmio di lavoro”, indotto dal progresso scientifico e tecnologico e dalla natura altamente competitiva del mercato globale), potrebbero non rappresentare una “calamità sociale” insormontabile, se la maggior produttività da esse determinata potesse tradursi in una maggiore crescita; ma la fiducia su una crescita senza limiti presenta diverse controindicazioni: in primo luogo, esse sono dovute ai limiti ecologici, oggi amplificati dall’impatto sull’atmosfera; in secondo luogo, al fatto che i moderni sistemi industriali, come sottolineano molti economisti, sono esposti agli esiti di una loro tendenza a una “stagnazione secolare”; in terzo luogo, alla consapevolezza che la crescita, anche per chi la ritiene auspicabile che possibile, non costituisca una soluzione alla disoccupazione strutturale e alla precarietà. Le controindicazioni circa la possibilità che un’ulteriore crescita basti a risolvere i problemi della disoccupazione e della precarietà, nel contesto di un’automazione crescente e di un allargamento della globalizzazione, sono forse discutibili; esse, tuttavia, sono sufficienti a “spiegare e a giustificare” le richieste di una più efficace risposta alle sfide poste dall’aggravarsi dei fenomeni della disoccupazione strutturale e delle disuguaglianze distributive: secondo Van Parijs e Vanderborght, se non si troverà “un modo per assicurare un reddito di base da corrispondere alle persone che non hanno lavoro (o non hanno un lavoro decente), le moderne società industriali ad economia di mercato andranno incontro ad un futuro perennemente caratterizzato da instabilità economica e conflittualità sociale”. La previsione che la creazione di nuovi posti di lavoro “dignitosi” sarà sempre più difficile suggerisce perciò la necessità che gli establishment dominanti si convincano che occorre assicurare le risorse necessarie alla sopravvivenza della crescente massa di disoccupati e di poveri. Van Parijs e Vanderborght indicano due alternative per rispondere a questa necessità. Un primo modo di procedere (che gli autori considerano sconveniente) potrebbe consistere nell’allargamento dell’esistente sistema di assistenza pubblica; si tratterebbe di un modo utile solo per contrastare la “povertà estrema”, ma, a causa della sua “condizionalità”, varrebbe a trasformare i beneficiari in una classe di cittadini destinati a dipendere “permanentemente dall’assistenza sociale”. L’altra possibile soluzione, fondata sul principio che la libertà sostanziale debba essere garantita a tutti, consiste nell’introdurre un reddito di base di tipo incondizionato, inteso “nell’accezione più piena del termine”. Il reddito di base differisce da ogni altra forma di sussidio corrisposto a chi versa in stato di necessità, perché esso, oltre ad essere universale (dimensione di cui sono prive tutte le “misure” welfariste destinate ad alleviare le condizioni esistenziali di chi è privo di ogni fonte di sostentamento), è anche incondizionato, in quanto, a differenza di tutte le forme di assistenza welfarista, esso è esente da ogni accertamento della condizione economica del beneficiario. Infatti, ogni forma di assistenza condizionata presenta lo svantaggio che il sussidio sia corrisposto ai beneficiari solo “ex post” (cioè sulla base di una preliminare determinazione delle risorse materiali delle quali possono disporre gli stessi beneficiari); il reddito di base incondizionato, al contrario, è corrisposto “ex ante”, senza alcun accertamento della condizione economica degli aventi diritto. Le conseguenze dell’incondizionalità risultano tali da rendere il reddito di base profondamente diverso da ogni forma di assistenza condizionata; dal punto di vista del disoccupato strutturale o del povero, l’elemento che più di ogni altro vale a differenziare questo tipo di reddito dai sussidi condizionati è la possibilità assicurata ai beneficiari di sottrarsi al ricatto intrinseco alla condizioni alle quali è tradizionalmente subordinata la fruizione di un sussidio condizionato; ne è un esempio il “potere di ricatto” che può essere esercitato da ogni datore di lavoro ai danni dei lavoratori, quando questi ultimi siano “obbligati a svolgere un lavoro” infimo e mal pagato, per conservarsi nella condizione di poter fruire del beneficio assistenziale. In conseguenza di quanto sin qui osservato sulle specificità del reddito di base, si può dire che, mentre la sua universalità consente di evitare la “trappola” delle disoccupazione e della povertà, il fatto di non essere condizionato serve a contrastare la “trappola” del lavoro obbligato, spesso sottopagato o degradante. Considerati i vantaggi connessi alle specificità del reddito di base universale e incondizionato, è difficile – affermano Van Parijs e Vanderborght – negare che esso costituisca nelle moderne società industrializzate ad economia di mercato, non solo un “potente strumento di libertà”, ma anche, più che una spesa, una forma d’investimento, utile a garantire una maggior flessibilità nel governo dei moderni problemi economici e sociali delle società economicamente avanzate e integrate nell’economia mondiale. I principali interrogativi che incombono sulla possibilità di istituzionalizzare il reddito di base universale e incondizionato (come antidoto alla crescente disoccupazione strutturale e alla diffusione della povertà nelle società industriali avanzate e ad economia di mercato) riguardano la sua sostenibilità e il sui finanziamento. Per quanto riguarda la sostenibilità, molto diffusa è la preoccupazione che l’offerta di lavoro venga negativamente influenzata dall’assenza di obblighi da parte dei beneficiari del reddito di base. Van Parijs e Vanderborght ritengono fuorviante “ridurre le conseguenze economiche del reddito di base al suo impatto immediato sull’offerta del mercato del lavoro”. Fornendo sicurezza e autonomia economica, è plausibile prevedere che il reddito di base possa incoraggiare l’imprenditorialità, promuovendo l’allargamento di forme di lavoro autodiretto; in secondo luogo, esso può motivare molti lavoratori a scegliere di optare per un lavoro a tempo parziale; in terzo luogo, liberando chi è privo di reddito dalla “trappola della disoccupazione”, il reddito di base universale e incondizionato può produrre effetti positivi sul capitale umano, motivando i fruitori ad aumentare il loro “interesse a investire nell’istruzione e nella formazione continua”. Secondo Van Parijs e Vanderborght, tutte queste ragioni concorrono a rendere stretta la connessione che esiste tra una maggior sicurezza garantita dal reddito di base e una maggior flessibilità del mercato del lavoro; si tratta di una connessione che tende ad assicurare ai senza reddito la libertà di non lavorare, piuttosto che l’obbligo di lavorare. Tra l’altro, la stretta connessione che esiste tra la libertà dal bisogno e la maggior flessibilità del mercato del lavoro rende possibile anche una più funzionale riorganizzazione del tradizionale sistema di welfare State; essa consente infatti la sua trasformazione da “sistema protettivo caritatevole e punitivo” in “sistema di welfare State attivo ed emacipatorio”, orientato “a rimuovere gli ostacoli allo svolgimento di un’attività lavorativa gratificante, quali sono le trappole della disoccupazione e dell’emarginazione”, e a “facilitare l’accesso delle persone all’istruzione e alla formazione”, strumentali all’intrapresa di una pluralità di attività produttive. In questo modo, nelle moderne società industriali, il welfare State cesserebbe d’essere strumento “punitivo del lavoro” (come avviene con il sistema esistente, che rimuove il beneficio corrisposto al lavoratore disoccupato o al povero indigente che dovessero rifiutare di sottostare ai “vincoli” previsti per il loro reinserimento e/o inserimento lavorativo), per diventare, al contrario, strumento di promozione di forme gratificanti e socialmente utili di lavoro. Per quanto riguarda l’altro interrogativo (quello relativo al finanziamento), incombente sulla possibilità di istituzionalizzare il reddito di base universale e incondizionato come antidoto alla crescente disoccupazione strutturale e alla diffusione della povertà, la preoccupazione principale che esso solleva è riconducibile all’ipotesi che le società industriali moderne, già gravate di un oneroso sistema fiscale, possano non tollerare un suo ulteriore inasprimento per finanziare il reddito di base, a meno che l’inasprimento non sia associato ad una riduzione dell’asimmetria nel trattamento fiscale dei redditi da capitale e dei redditi da lavoro, “caricando” prevalentemente sul capitale l’onere del finanziamento del reddito di base. Un più equo trattamento fiscale delle due classi di reddito, però, si scontrerebbe con l’opposizione delle forze economiche e politiche prevalenti, per via del fatto che l’asimmetria nel trattamento fiscale a vantaggio del capitale è tradizionalmente “giustificata dalla necessità – affermano Van Parijs e Vanderborght – di incoraggiare investimenti ad alto rischio e lo spirito imprenditoriale” e di non promuovere la mobilità internazionale del capitale che, di fronte alla minaccia di perdere in parte i privilegi fiscali potrebbe “fuggire all’estero”. Per finanziare il reddito di base esistono però – sottolineano Van Parijs e Vanderborght – delle alternative che non prevedono il ricorso alla tassazione. Tra queste, la principale consiste nella creazione di un “Fondo Sovrano Permanente”, una sorta di “salvadanaio collettivo”, nel quale fare affluire le entrate derivanti da tutte le forme di collocamento (a titolo di affitto o di cessione) delle risorse mobiliari e immobiliari di proprietà pubblica. In questo modo, il finanziamento del reddito di base avverrebbe secondo le modalità previste da James Meade nel suo “modello agathopista”; in altri termini, il reddito di base potrebbe essere finanziato senza bisogno di alcuna tassazione, mediante la distribuzione annuale a tutti i cittadini, su basi paritarie, della dotazione del “Fondo”, sotto forma di reddito di base universale e incondizionato, inteso come dividendo del rendimento economico di un capitale pubblico. Un disegno di riforma del quadro istituzionale di riferimento, quale quello fondato sull’introduzione di un reddito di base (o di cittadinanza, come anche viene chiamato), per risolvere i problemi delle società industriali avanzate, richiede ovviamente che il loro sistema economico sia efficiente e gestito da forze economiche e politiche interessate al suo stabile funzionamento. Ipotizzare che questo disegno sia proponibile e attuabile all’interno di un Paese qual è l’Italia di oggi può apparire temerario, considerato lo stato in cui essa versa. Una cosa però è certa: se tutte le forze sociali impegnate (sul piano culturale, politico ed economico) a risolvere i problemi che maggiormente affliggono il Paese (rilancio della crescita e contrasto della disoccupazione strutturale e della diffusione della povertà) abbandoneranno molti dei pregiudizi ideologici che hanno sinora condizionato la ricerca di adeguate soluzioni, dovranno (quelle forze) necessariamente tener conto del fatto che l’istituzionalizzazione del reddito di base universale e incondizionato è uno dei presupposti per fare dell’Italia del futuro, parafrasando un’efficace espressione di Meade, “un luogo in cui è ancora conveniente e gratificante vivere”. ——————————————————— ——————————————————— – Gianfranco Sabattini su AladiNews. – Campioni dell’impossibile: http://www.aladinpensiero.it/?p=89277 […]
[…] o impresa possibile portata avanti da un “campione dell’impossibile”? Ce ne faremo un’idea più precisa nell’incontro di questo pomeriggio, a cui siete tutti […]