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Editoriali
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La Sardegna lotta per la rinascita con tutto il Meridione
Meridione e neocolonialismo
di Gianna Lai *Pubblichiamo l’intervento di Gianna Lai alla Conferenza di organizzazione Anpi per il Mezzogiorno
E’ molto importante la riflessione dell’Anpi sul Mezzogiorno nel contesto nazionale, importante che questa nostra conferenza dia un buon esito, dopo la crescita così veloce di sedi e nuove iscrizioni.
Il Meridione delle diseguaglianze, partendo dalla supremazia del Nord, a dire il vero ininterrotta politica dell’Italia unita fin dalla sua prima formazione, determinante l’alleanza tra gli imprenditori del Settentrione, sostenuti dai finanziamenti e dalle commmesse statali, con i proprietari assenteisti del Mezzogiorno, in funzione anticontadina. Un drenaggio di risorse verso il Nord, i ceti moderati affrontano i problemi del Sud attraverso la clientela e la corruzione, non certo in un’ottica di sviluppo. E del resto molto modesti i risultati raggiunti in Sicilia e in Sardegna , in questo secondo dopoguerra, pur garantite da leggi di autonomia speciale. Se pensiamo che da noi, mancando le leggi di attuazione, lo Statuto resta semplice espressione di decentramento amministrativo, un puro rapporto tra enti. Il Mezzogiorno è questione nazionale, di cui vuole discutere anche l’Anpi in tempi di minacciosa politica disgregatrice, a contrastare secessioni, neofascismi e mafie. Superare questo dualismo è necessario per costruire vera unità, storia e politica in questi venti di guerra che ci attraversano, i tempi della crisi del lavoro e della democrazia. Come al Nord, anche al Sud l’Anpi rifugio dei democratici, dopo la crisi dei partiti, anche qui siamo cresciuti durante i due referendum contro l’attacco alla costituzione da parte di Berlusconi e Renzi, complici entrambi dell’aggravarsi delle diseguaglianze e della crescita della destra.
Certo impressionanti i dati del divario su occupazione, spesa media statale e tassi di abbandono scolastico fra Nord e Sud, e di discriminazione delle donne (già partendo dal dato che solo il 6% del Pnrr è destinato complessivamente alle donne in Italia): le ragioni di una strutturale divisione del paese, che significa emigrazione di massa, già fin dai tempi della cassa del Mezzogiorno, funzionale al mercato del Nord, quando le industrie producono per gli enti di riforma operanti nel Meridione. Il Sud vero mercato coloniale di consumo, destinata la sua gioventù al tumultuoso boom economico del triangolo industriale anni Sessanta, un dualismo che dura e si mostra particolarmente oppressivo, crudele, nella destinazione a Servitù militari di vaste zone delle due isole in particolare, fin dall’adesione italiana al Patto atlantico. Ed in Sardegna il 65% del totale delle servitù nazionali, trattamento solitamente riservato alle periferie povere della emarginazione sociale e dell’emigrazione giovanile di massa. A Decimo una scuola per top gun del futuro, basi a Quirra Teulada e capo Frasca per le esercitazioni militari e per l’addestramento e la sperimentazione di armi usate poi in Libia, Iraq, Afganistan, Israele, Arabia Saudita, Iugoslavia Somalia. Veri scenari di guerra quelli sperimentati nell’isola, grave l’inquinamento da uranio impoverito a mettere a repentaglio abitanti e militari stessi, la bonifica mai seriamente affrontata. Mentre in nome di una politica degli indennizzi si corrompono le coscienze annullando mestieri millennari, vietata la pesca, l’agricoltura, l’allevamento, ancora emigrazione e abbandono. La Sardegna resterà territorio chiave per la difesa, in quei 35 mila ettari di territorio sottoposto a vincoli: dice Crosetto “queste servitù son vincolo necessario visto l’impegno cui son chiamate le nostre forze armate a svolgere ogni giorno nel contesto nazionale, e sopratutto internazionale, per tutelare gli interessi di tutti”. E a Capo San Lorenzo e a Domusnovas fabbriche di armi, con Vitrociset e Alenia e RWM, “armi sarde contro i bambini dello Yemen”, denunciava il cardinale Zuppi nel contesto di uno sciopero dei portuali genovesi contro l’invio di armi, sempre chiaro l’impegno pacifista per riconvertire la RWM, industria tedesca che fattura 5.6 miliardi l’anno, occupati poco più di 100 lavoratori a Domusnovas. Ma fortissime le spartizioni fra gli azionisti, specie dall’ inizio della guerra in Ucraina, quando vengono derogate leggi di grande rilevanza come la 185/1990, attuativa della Costituzione, che impedisce l’invio di armi in zone di guerra, e parla di conversione a scopi civili delle fabbriche di armi, secondo l’Art. 41 della nostra Carta: le decisioni in capo al presidente del Consiglio e ministri degli esteri e difesa, movimento delle armi è segreto di Stato. E siccome una legge particolarmente scomoda pur derogata, oggi la 185 in via di modifica, dice il costituzionalista Azzariti parlando dei recenti 417 milioni in vendita di armi all’Ucraina, “il parlamento informato dal governo a cose fatte. con la modifica in atto sarà più semplice la vendita di armi, l’intervento armato un atto proprio dell’esecutivo”. Ci opponiamo in Sardegna secondo lo spirito di Lussu che, in Assemblea Costituente e poi in Parlamento rappresentò dei sardi la volontà al neutralismo e al disarmo, vogliamo sostenere anche nelle Università del Sud, oltre che del Nord, la protesta di studenti e docenti contro i progetti Leonardo-Israele sulla ricerca finalizzata a armamenti e politiche di guerra. E mentre diventa operativo nel Comitato nazionale ANPI il nostro gruppo di lavoro sulle Servitù militari, presieduto dal compagno Amodio, che si è aperto nei giorni scorsi alla presenza del presidente Pagliarulo, ci sono anche a Cagliari prospettive di lavoro comune, in particolare con la Cgil, per la riduzione delle Servitù militari e la conversione delle industrie di armi, esplicito in tal senso il documento sul Congresso della Camera del lavoro cittadina, 2023 e le dichiarazioni del segretario regionale, “ In questo percorso è necessario il ridimensionamento delle Servitù militari nella nostra regione ed un’azione anche della nostra organizzazione a sostegno dell’economia di pace”
E poi il Meridione delle raffinerie dismesse o ancora funzionanti, le nostre magnifiche coste da quando l’Italia è diventata la principale sede europea di impianti di raffinazione del greggio medio orientale e africano. Contro la guerra dunque, un nuovo importante lavoro ci aspetta e ci vuole tutto il nostro impegno organizzativo, perché si diversificano gli scenari ma restano definiti i termini della Questione meridionale, un tempo costituzionalizzata nella nostra Carta, al comma 3 dell’art.119, penultimo capoverso, stesura del 1948, “Per provvedere a scopi determinati e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le isole lo stato assegna per legge e a singole regioni contributi speciali”. Il termine valorizzare con significato più ampio di intervento su tutti i fatti che determinano la trasformazione economica e sociale e culturale, nel rispetto della storia e delle popolazioni locali. Cancellata invece dal nuovo 119 nel nuovo titolo V, dove l’intervento per il Mezzogiorno e le isole è scomparso, sostituito da interventi per comuni, province, città metropolitane e regioni a dare adito alla politica leghista dell’Autonomia differenziata.
Per i progetti neocoloniali, i poligoni militari, l’energia e le scorie decide l’Europa, sulle cartine piatte evidentemente, se in Sardegna ritroviamo un nuraghe protetto dall’Unesco vicino al previsto centro del parco eolico. Noi invece, ribadendo che il Mezzogiorno è questione nazionale, vogliamo ancora piuttosto ispirarci allo spirito di Gramsci quando diceva “un grande passo avanti possono farlo solo le forze più avanzate del Nord in collegamento con quelle del Sud” .
* Su Democraziaoggi 16 Aprile 2024.
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[…] Un bel aforisma di Barbara Wootton* “E’ dai campioni dell’impossibile piuttosto che dagli schiavi del possibile che l’evoluzione trae la sua forza creativa” Il CoStat propone un’Intesa al Centro Sinistra, al M5Stelle e alle organizzazioni indipendentiste e autonomiste per battere la Destra di Salvini e soci. Missione impossibile? Non è detto. Il CoStat non demorde e, dati alla mano, chiama tutti all’impegno perché la Sardegna non venga consegnata alla Destra, la peggiore Destra oggi presente sullo scenario politico. L’Unione Sarda – Edizione del 1/12/2018 Sezione “Primo Piano” Centrosinistra e Cinquestelle uniti al voto per battere Salvini in Sardegna. Fantapolitica? Non per Andrea Pubusa, ex consigliere regionale del Pci e animatore del dibattito nella sinistra sarda. «La mia proposta – spiega – nasce da un’osservazione: a livello nazionale si è arrivati a questo governo per il veto del Pd sui 5Stelle. Uguale a quello di Grillo su Bersani 5 anni fa. Esclusioni reciproche che hanno avuto esiti disastrosi». [segue] In Sardegna la situazione politica è diversa. «Parto da un ragionamento matematico, oltre che politico. Salvini è dato al 36%, il M5S sopra il 20, il centrosinistra con Zedda su cifre simili. Se cadessero quelle preclusioni, con un blocco unico potrebbero bloccare Salvini». È così importante batterlo? «Beh, se lo si accusa di fascismo, allora le forze democratiche dovrebbero mostrarsi responsabili e unirsi. E poi una forza da sempre anti-Sud non può trionfare nella terra di Lussu, Gramsci, Dettori». Ma il Movimento 5Stelle con Salvini ci governa. «Sì, ma ne è fagocitato ogni giorno di più. Il M5S ha interesse a non consegnargli la Sardegna per non dargli una forte rincorsa per conquistare del tutto il livello nazionale. E il Pd… il Pd deve decidere cosa fare da grande». Non sembra che ci siano le condizioni per un’intesa simile. «Io credo che ci possano essere. Lo impone la legge elettorale. Devi fare un contratto di governo prima del voto, perché poi non si può. Un vantaggio per tutti i contraenti, che vincendo eleggerebbero molti più consiglieri». Lei è stato spesso accostato ai 5Stelle. È corretto? «Non sono del M5S, mi considero un vecchio pensatore di sinistra. Condivido alcune loro idee, come il reddito di cittadinanza e la lotta alla corruzione, temi storici della sinistra. Se non ha i paraocchi, un vero democratico non può non sostenerle». Il M5S ha anche votato il decreto sicurezza. «Lì c’è un contratto da rispettare, se no cade il governo, e capisco che il M5S non voglia. Però, appunto, fermare Salvini qui servirebbe anche a rinfrescare la carica innovativa del Movimento». Ha mai parlato della sua idea ai vertici locali del M5S? «Mesi fa, ad alcuni amici, ho fatto una proposta limitata: con questa legge elettorale avrebbero dovuto accordarsi, prima del voto, con l’area democratica. Hanno detto di no, ma ora le cose sono cambiate. Il M5S arranca con le regionarie, il Pd ha scelto Zedda come foglia di fico». Zedda non le piace? «Lotta per arrivare secondo anziché terzo. Non credo che il suo impatto andrà oltre il Medio Campidano. Ma un po’ tutti stanno pensando a perdere bene più che a vincere. Pds e Autodeterminatzione sperano di superare il 5%; lo stesso M5S sa che non vincerà. Perché non provare a vincere tutti insieme?» Con quale candidato? «Si dovrebbe cercare insieme una figura condivisa». Non Zedda, comunque. «Lui rappresenta, al di là del suo successo, la sinistra minoritaria che si è autodistrutta. Il M5S sceglierà una brava persona, ma poco nota. In Sardegna ci sono molte figure autorevoli che potrebbero guidare una tale alleanza, non lo vedo un problema». E i programmi? «Ci sono molti temi su cui basare un contratto di governo: occupazione, lotta alla povertà, difesa dell’ambiente, taglio delle servitù militari». Su altri però ci sono vedute opposte, come il metanodotto. «Su questo, i contrari non sono solo nel M5S. Certo, il programma non sarà solo rose e fiori, ma il problema sono i pregiudizi reciproci. Però con gli stereotipi andiamo a sbattere contro il muro». Giuseppe Meloni, L’Unione Sarda sabato 1 dicembre 2018. […]
[…] Dopo la pubblicazione, nel 2013, di “Il reddito minimo universale” e, nel 2017, di “Il reddito di base”, entrambi dedicati dagli autori, Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght alla spiegazione del significato e della funzione del reddito di cittadinanza (assegnato a ogni individuo senza vincoli di “contropartite lavorative” e senza “prova dei mezzi”), era plausibile attendersi che la classe politica si fosse presa la briga di leggerli; ciò avrebbe consentito di evitare la confusione, ormai radicata anche nell’opinione pubblica, che solitamente viene fatta per la mancata distinzione tra la forma di reddito della quale parlano gli autori e tutte le misure monetarie di natura welfarista adottabili e adottate (come, ad esempio quella introdotta dall’attuale governo italiano) per contrastare il fenomeno della povertà. La confusione non potrà essere d’aiuto per riflettere sui contenuti più appropriati della politica economica, presumibilmente chiamata nel prossimo futuro ad affrontare i fenomeni dell’insicurezza economica e dell’esclusione sociale che affliggono attualmente il sistema socio-politico dell’Italia, congiuntamente a quello di molti altri Paesi industrializzati di mercato, per tutte le ragioni puntualmente illustrate nei libri sopra richiamati. Viviamo in un mondo radicalmente nuovo rispetto a quello nato e consolidatosi nei primi trent’anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale; si tratta – affermano Van Parijs e Vanderborght, – di un mondo “riplasmato da numerose forze: la dirompente rivoluzione tecnologica determinata dal computer e da Internet; la globalizzazione dei mercati, delle migrazioni e della comunicazioni; la crescita impetuosa della domanda mondiale di beni a dispetto dei limiti imposti dall’esaurimento delle risorse naturali e dalla saturazione dell’atmosfera; la crisi delle tradizionali istituzioni protettive, dalla famiglia ai sindacati, ai monopoli di Stato, ai sistemi di welfare; infine le interazioni esplosive di queste varie tendenze”. Per poter valutare razionalmente come contrastare le minacce delle quali sono portatrici queste tendenze, occorre, a parere di Van Parijs e Vanderborght, definire un quadro istituzionale di riferimento alternativo a quello esistente; a tal fine, gli autori, affermati docenti di economia e di scienza politica e divulgatori dell’idea di “reddito di base” (o reddito di cittadinanza), avanzano la proposta di un “nuovo quadro istituzionale” fondato sulla libertà, “intesa come libertà sostanziale di tutti e non solo dei ricchi”. Per realizzare il nuovo quadro istituzionale occorre agire su diversi fronti, dal miglioramento dell’uso delle risorse, alla ridefinizione dei diritti di proprietà, dal miglioramento del sistema dell’istruzione (attraverso la sua trasformazione in sistema di apprendimento permanente), alla ristrutturazione del modo in cui all’interno delle moderne società industriali ad economia di mercato si persegue l’obiettivo della sicurezza economica e dell’inclusione sociale. Lo strumento sul quale edificare il nuovo quadro istituzionale alternativo a quello attuale (non più in grado di garantire, sia la sicurezza economica, che l’inclusione sociale) consiste, secondo Van Parijs e Vanderborght, nell’introdurre nell’insieme delle regole di funzionamento delle moderne società industriali ciò che oggi “è comunemente chiamato reddito di base: un reddito regolare pagato in denaro ad ogni singolo membro di una società, indipendentemente da altre entrate e senza vincoli”. Qual è l’incombenza, si chiedono Van Parijs e Vanderborght, che, pesando oggi sullo stabile funzionamento delle società economicamente avanzate, a rendere necessaria una riforma del loro quadro istituzionale, fondata sull’introduzione di un reddito di base universale e incondizionato? Tutti coloro che sinora si sono pronunciati in favore di tale forma di reddito chiamano in causa alcuni aspetti della dinamica propria delle moderne società industriali, quali, in primo luogo, l’ondata di automazione (di cui è prevista un’accelerazione nei prossimi anni) che sta investendo i processi produttivi, causando una crescente polarizzazione del prodotto sociale; in secondo luogo, l’approfondimento e l’allargamento della globalizzazione che, oltre ad aggravare le disuguaglianze distributive, causerà l’aumento del numero delle persone che perderanno irreversibilmente la stabilità occupazionale. Le innovazioni dei processi produttivi (che consentono “risparmio di lavoro”, indotto dal progresso scientifico e tecnologico e dalla natura altamente competitiva del mercato globale), potrebbero non rappresentare una “calamità sociale” insormontabile, se la maggior produttività da esse determinata potesse tradursi in una maggiore crescita; ma la fiducia su una crescita senza limiti presenta diverse controindicazioni: in primo luogo, esse sono dovute ai limiti ecologici, oggi amplificati dall’impatto sull’atmosfera; in secondo luogo, al fatto che i moderni sistemi industriali, come sottolineano molti economisti, sono esposti agli esiti di una loro tendenza a una “stagnazione secolare”; in terzo luogo, alla consapevolezza che la crescita, anche per chi la ritiene auspicabile che possibile, non costituisca una soluzione alla disoccupazione strutturale e alla precarietà. Le controindicazioni circa la possibilità che un’ulteriore crescita basti a risolvere i problemi della disoccupazione e della precarietà, nel contesto di un’automazione crescente e di un allargamento della globalizzazione, sono forse discutibili; esse, tuttavia, sono sufficienti a “spiegare e a giustificare” le richieste di una più efficace risposta alle sfide poste dall’aggravarsi dei fenomeni della disoccupazione strutturale e delle disuguaglianze distributive: secondo Van Parijs e Vanderborght, se non si troverà “un modo per assicurare un reddito di base da corrispondere alle persone che non hanno lavoro (o non hanno un lavoro decente), le moderne società industriali ad economia di mercato andranno incontro ad un futuro perennemente caratterizzato da instabilità economica e conflittualità sociale”. La previsione che la creazione di nuovi posti di lavoro “dignitosi” sarà sempre più difficile suggerisce perciò la necessità che gli establishment dominanti si convincano che occorre assicurare le risorse necessarie alla sopravvivenza della crescente massa di disoccupati e di poveri. Van Parijs e Vanderborght indicano due alternative per rispondere a questa necessità. Un primo modo di procedere (che gli autori considerano sconveniente) potrebbe consistere nell’allargamento dell’esistente sistema di assistenza pubblica; si tratterebbe di un modo utile solo per contrastare la “povertà estrema”, ma, a causa della sua “condizionalità”, varrebbe a trasformare i beneficiari in una classe di cittadini destinati a dipendere “permanentemente dall’assistenza sociale”. L’altra possibile soluzione, fondata sul principio che la libertà sostanziale debba essere garantita a tutti, consiste nell’introdurre un reddito di base di tipo incondizionato, inteso “nell’accezione più piena del termine”. Il reddito di base differisce da ogni altra forma di sussidio corrisposto a chi versa in stato di necessità, perché esso, oltre ad essere universale (dimensione di cui sono prive tutte le “misure” welfariste destinate ad alleviare le condizioni esistenziali di chi è privo di ogni fonte di sostentamento), è anche incondizionato, in quanto, a differenza di tutte le forme di assistenza welfarista, esso è esente da ogni accertamento della condizione economica del beneficiario. Infatti, ogni forma di assistenza condizionata presenta lo svantaggio che il sussidio sia corrisposto ai beneficiari solo “ex post” (cioè sulla base di una preliminare determinazione delle risorse materiali delle quali possono disporre gli stessi beneficiari); il reddito di base incondizionato, al contrario, è corrisposto “ex ante”, senza alcun accertamento della condizione economica degli aventi diritto. Le conseguenze dell’incondizionalità risultano tali da rendere il reddito di base profondamente diverso da ogni forma di assistenza condizionata; dal punto di vista del disoccupato strutturale o del povero, l’elemento che più di ogni altro vale a differenziare questo tipo di reddito dai sussidi condizionati è la possibilità assicurata ai beneficiari di sottrarsi al ricatto intrinseco alla condizioni alle quali è tradizionalmente subordinata la fruizione di un sussidio condizionato; ne è un esempio il “potere di ricatto” che può essere esercitato da ogni datore di lavoro ai danni dei lavoratori, quando questi ultimi siano “obbligati a svolgere un lavoro” infimo e mal pagato, per conservarsi nella condizione di poter fruire del beneficio assistenziale. In conseguenza di quanto sin qui osservato sulle specificità del reddito di base, si può dire che, mentre la sua universalità consente di evitare la “trappola” delle disoccupazione e della povertà, il fatto di non essere condizionato serve a contrastare la “trappola” del lavoro obbligato, spesso sottopagato o degradante. Considerati i vantaggi connessi alle specificità del reddito di base universale e incondizionato, è difficile – affermano Van Parijs e Vanderborght – negare che esso costituisca nelle moderne società industrializzate ad economia di mercato, non solo un “potente strumento di libertà”, ma anche, più che una spesa, una forma d’investimento, utile a garantire una maggior flessibilità nel governo dei moderni problemi economici e sociali delle società economicamente avanzate e integrate nell’economia mondiale. I principali interrogativi che incombono sulla possibilità di istituzionalizzare il reddito di base universale e incondizionato (come antidoto alla crescente disoccupazione strutturale e alla diffusione della povertà nelle società industriali avanzate e ad economia di mercato) riguardano la sua sostenibilità e il sui finanziamento. Per quanto riguarda la sostenibilità, molto diffusa è la preoccupazione che l’offerta di lavoro venga negativamente influenzata dall’assenza di obblighi da parte dei beneficiari del reddito di base. Van Parijs e Vanderborght ritengono fuorviante “ridurre le conseguenze economiche del reddito di base al suo impatto immediato sull’offerta del mercato del lavoro”. Fornendo sicurezza e autonomia economica, è plausibile prevedere che il reddito di base possa incoraggiare l’imprenditorialità, promuovendo l’allargamento di forme di lavoro autodiretto; in secondo luogo, esso può motivare molti lavoratori a scegliere di optare per un lavoro a tempo parziale; in terzo luogo, liberando chi è privo di reddito dalla “trappola della disoccupazione”, il reddito di base universale e incondizionato può produrre effetti positivi sul capitale umano, motivando i fruitori ad aumentare il loro “interesse a investire nell’istruzione e nella formazione continua”. Secondo Van Parijs e Vanderborght, tutte queste ragioni concorrono a rendere stretta la connessione che esiste tra una maggior sicurezza garantita dal reddito di base e una maggior flessibilità del mercato del lavoro; si tratta di una connessione che tende ad assicurare ai senza reddito la libertà di non lavorare, piuttosto che l’obbligo di lavorare. Tra l’altro, la stretta connessione che esiste tra la libertà dal bisogno e la maggior flessibilità del mercato del lavoro rende possibile anche una più funzionale riorganizzazione del tradizionale sistema di welfare State; essa consente infatti la sua trasformazione da “sistema protettivo caritatevole e punitivo” in “sistema di welfare State attivo ed emacipatorio”, orientato “a rimuovere gli ostacoli allo svolgimento di un’attività lavorativa gratificante, quali sono le trappole della disoccupazione e dell’emarginazione”, e a “facilitare l’accesso delle persone all’istruzione e alla formazione”, strumentali all’intrapresa di una pluralità di attività produttive. In questo modo, nelle moderne società industriali, il welfare State cesserebbe d’essere strumento “punitivo del lavoro” (come avviene con il sistema esistente, che rimuove il beneficio corrisposto al lavoratore disoccupato o al povero indigente che dovessero rifiutare di sottostare ai “vincoli” previsti per il loro reinserimento e/o inserimento lavorativo), per diventare, al contrario, strumento di promozione di forme gratificanti e socialmente utili di lavoro. Per quanto riguarda l’altro interrogativo (quello relativo al finanziamento), incombente sulla possibilità di istituzionalizzare il reddito di base universale e incondizionato come antidoto alla crescente disoccupazione strutturale e alla diffusione della povertà, la preoccupazione principale che esso solleva è riconducibile all’ipotesi che le società industriali moderne, già gravate di un oneroso sistema fiscale, possano non tollerare un suo ulteriore inasprimento per finanziare il reddito di base, a meno che l’inasprimento non sia associato ad una riduzione dell’asimmetria nel trattamento fiscale dei redditi da capitale e dei redditi da lavoro, “caricando” prevalentemente sul capitale l’onere del finanziamento del reddito di base. Un più equo trattamento fiscale delle due classi di reddito, però, si scontrerebbe con l’opposizione delle forze economiche e politiche prevalenti, per via del fatto che l’asimmetria nel trattamento fiscale a vantaggio del capitale è tradizionalmente “giustificata dalla necessità – affermano Van Parijs e Vanderborght – di incoraggiare investimenti ad alto rischio e lo spirito imprenditoriale” e di non promuovere la mobilità internazionale del capitale che, di fronte alla minaccia di perdere in parte i privilegi fiscali potrebbe “fuggire all’estero”. Per finanziare il reddito di base esistono però – sottolineano Van Parijs e Vanderborght – delle alternative che non prevedono il ricorso alla tassazione. Tra queste, la principale consiste nella creazione di un “Fondo Sovrano Permanente”, una sorta di “salvadanaio collettivo”, nel quale fare affluire le entrate derivanti da tutte le forme di collocamento (a titolo di affitto o di cessione) delle risorse mobiliari e immobiliari di proprietà pubblica. In questo modo, il finanziamento del reddito di base avverrebbe secondo le modalità previste da James Meade nel suo “modello agathopista”; in altri termini, il reddito di base potrebbe essere finanziato senza bisogno di alcuna tassazione, mediante la distribuzione annuale a tutti i cittadini, su basi paritarie, della dotazione del “Fondo”, sotto forma di reddito di base universale e incondizionato, inteso come dividendo del rendimento economico di un capitale pubblico. Un disegno di riforma del quadro istituzionale di riferimento, quale quello fondato sull’introduzione di un reddito di base (o di cittadinanza, come anche viene chiamato), per risolvere i problemi delle società industriali avanzate, richiede ovviamente che il loro sistema economico sia efficiente e gestito da forze economiche e politiche interessate al suo stabile funzionamento. Ipotizzare che questo disegno sia proponibile e attuabile all’interno di un Paese qual è l’Italia di oggi può apparire temerario, considerato lo stato in cui essa versa. Una cosa però è certa: se tutte le forze sociali impegnate (sul piano culturale, politico ed economico) a risolvere i problemi che maggiormente affliggono il Paese (rilancio della crescita e contrasto della disoccupazione strutturale e della diffusione della povertà) abbandoneranno molti dei pregiudizi ideologici che hanno sinora condizionato la ricerca di adeguate soluzioni, dovranno (quelle forze) necessariamente tener conto del fatto che l’istituzionalizzazione del reddito di base universale e incondizionato è uno dei presupposti per fare dell’Italia del futuro, parafrasando un’efficace espressione di Meade, “un luogo in cui è ancora conveniente e gratificante vivere”. ——————————————————— ——————————————————— – Gianfranco Sabattini su AladiNews. – Campioni dell’impossibile: http://www.aladinpensiero.it/?p=89277 […]
[…] o impresa possibile portata avanti da un “campione dell’impossibile”? Ce ne faremo un’idea più precisa nell’incontro di questo pomeriggio, a cui siete tutti […]